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Urania - Asimov d'appendice
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IN PERIFERIA - Isaac Asimov
Titolo originale: Out in the boondocks

Nel 1984 lo scrittore satirico François Rabelais scrisse: "Tutto arriva a colui che sa aspettare". L'aforisma, più o meno variato, da allora fu ripetuto incessantemente, e venne attribuito fra l'altro anche a Disraeli e Longfellow. Oggi lo si recita di solito nella forma leggermente più concisa di "Tutto arriva a chi aspetta".
È una massima che su di me, però, non ha mai avuto molta presa. Ho sempre pensato che tante cose ci tocca aspettarle così a lungo, che è più probabile che moriamo prima di ottenerle. Vi prego di notare che in fin dei conti tutti gli autori che hanno creato aforismi sul tema dell'attesa paziente che porta frutti hanno evitato con cura di porre un limite massimo a tale attesa.
Prendiamo ad esempio il mio caso. Fin dall'inizio della mia carriera di scrittore ho sempre avuto la sensazione che nessun mio libro sarebbe mai comparso nella lista dei best-seller, nonostante fossi disposto ad aspettare con tutta la buona volontà possibile.
Beninteso, non è che questa sensazione l'avessi perché i miei libri non abbiano successo. Alcuni hanno un buon successo. Devo dire anzi che sono venduti parecchio, ma solo nel corso di anni e decenni, mai intensivamente, in un periodo breve. Insomma il loro indice di vendita in, poniamo, una particolare settimana, non è mai stato tale da consentirgli di entrare nella lista dei best-seller del New York Times.
Col tempo ho imparato a rassegnarmi a questo stato di cose, e mi sono addirittura sforzato di convincermi che il mancato ingresso nell'elenco dei libri più venduti fosse il risultato della mia onestà e della mia virtù.
Dopotutto, quando scrivo io non tocco mai argomenti capaci di sollecitare il grasso pubblico: non illustro avventure sessuali corredandole di particolari clinici, né indulgo a descrivere ripetute e sgradevoli scene di violenza. In altre parole, non tratto temi atti a fare colpo sulla gente. I miei libri, e questo lo ritengo un fatto positivo, tendono a essere cerebrali e sono incentrati soprattutto sulla discussione razionale dei motivi che inducono i personaggi a scegliere una linea d'azione piuttosto che un'altra. È chiaro che un tale tipo di narrativa può suscitare vivo interesse in un numero relativamente limitato di lettori.
Mi sono sempre reso conto che questi pochi lettori dovevano avere un'intelligenza di parecchio superiore alla media ed essere particolarmente fedeli al genere che prediligevano. Li consideravo i miei lettori, ero loro affezionato e non li avrei mai cambiati per un trilione di lettori del tipo più comune.
Tuttavia a volte, nel cuore della notte, quando mi trovavo a tu per tu con me stesso, mi chiedevo che cosa sarebbe potuto succedere se, anche solo per un periodo limitato, tutti i lettori avessero avuto un'intelligenza superiore alla media e i miei libri quindi, giusto per una volta e per una settimana, fossero finiti sulla lista dei best-seller.
Poi però liquidavo quel pensiero, considerandolo pura fantasia.
Così nell'ottobre del 1982 ero ormai scrittore professionista da quarantaquattro anni, avevo pubblicato duecentosessantuno libri, e nemmeno uno di questi era comparso nell'elenco dei volumi più venduti. Da tempo ormai mi consolavo dicendomi che in fondo dovevo quasi sentirmi onorato e fiero di questo fatto. Dopotutto, quanti altri autori avrebbero potuto scrivere duecentosessantuno libri mancando così infallibilmente di fare centro?
Ma poi, l'8 ottobre del 1982, successe che la Doubleday pubblicò il mio duecentosessantaduesimo libro, cioè L'orlo della Fondazione, quarto volume del ciclo della Fondazione. Questo romanzo usciva ben trentadue anni dopo che avevo deciso che il terzo sarebbe stato l'ultimo della serie. Durante tutti quegli anni avevo continuato risolutamente a ignorare le suppliche dei miei lettori e dei redattori della Doubleday, che mi pregavano di scrivere un seguito al ciclo. (Ecco vedete, loro hanno continuato ad aspettare e hanno avuto quello che volevano, come l'aforisma del buon vecchio François lasciava presagire).
Come aveva fiduciosamente predetto fin dall'inizio Hugh O'Neill, il redattore che seguì il mio lavoro, il libro entrò immediatamente nell'elenco dei best-seller. Il 17 ottobre trovai sulla soglia di casa il New York Times con il supplemento della domenica e lì, nella lista dei libri più venduti pubblicata nella sezione delle recensioni, c'era a chiare lettere L'orlo della Fondazione di Isaac Asimov.
Dopo quarantaquattro anni il mio duecentosessantaduesimo libro colpiva nel segno, anche se, proprio come i precedenti, non concedeva nulla al sesso, alla violenza e alle tinte forti e anche se era tutto cerebrale come gli altri, se non di più. Era stato solo necessario aspettare.
La Doubleday diede un grande party in mio onore e per un po' mi sentii frastornato e al centro dell'universo. Il che mi riporta all'argomento di cui ho discusso il mese scorso.

In un articolo recentemente pubblicato parlavo del naturale desiderio della gente di essere al centro dell'universo. Agli albori della storia, dicevo, l'uomo aveva l'impressione di essere lui stesso il centro di tutto, poi quell'idea venne (con riluttanza) abbandonata e al centro di tutto fu posto un qualche luogo di particolare importanza per la civiltà umana, quindi si cominciò a ritenere che misura dell'universo fosse l'intero pianeta Terra, e infine il sistema solare nel suo complesso.
Ancora negli anni dal 1910 al 1920 appariva ragionevole supporre che il sistema solare fosse al centro della Galassia, o vicino ad esso (e si credeva allora che la Galassia rappresentasse pressoché la totalità dell'universo).
Dopotutto, i diversi corpi celesti sembravano disposti simmetricamente intorno a noi. La Via Lattea infatti, che è la Galassia vista attraverso il suo diametro longitudinale, divide il cielo in due metà più o meno uguali, nelle quali le stelle visibili ci appaiono distribuite in modo uniforme.
Per avere un buon motivo di sospettare che non ci troviamo in una posizione più o meno centrale, dovremmo scoprire nel cielo una qualche incontestabile asimmetria.
E ne esiste una. La storia di questa asimmetria cominciò con un astronomo francese, Charles Messier (1730-1817), che si specializzò nello studio delle comete. Fu tra quelli che per primi previdero il ritorno della cometa di Halley nel 1759, un ritorno che era stato previsto dallo stesso Edmund Halley (1656-1742).
Dopo di allora Messier si immerse con sempre più entusiasmo nei suoi studi. Nei successivi quindici anni quasi tutte le scoperte di comete si dovettero a lui, e ventuno di queste scoperte le fece effettuando calcoli per suo conto. Fu la passione della sua vita; a un certo punto, quando dovette accudire la moglie che si trovava sul letto di morte e così mancò di identificare una nuova cometa, la cui scoperta fu invece annunciata da un astronomo francese che era in concorrenza con lui, pare (e c'è da crederci) che piangesse per la cometa sfuggitagli, rimanendo praticamente indifferente alla morte della moglie.
Ma c'era qualcosa che disturbava molto Messier: ogni volta che si metteva a cercare qualche piccolo oggetto indistinto che denunciasse la presenza di una cometa lontana diretta verso i dintorni del sole, s'imbatteva in qualche piccolo oggetto indistinto che era sempre presente nel cielo. Si seccava non poco di vedere questi oggetti, perché in un primo momento si entusiasmava pensando di stare per scoprire una nuova cometa, e poi restava deluso.
Tra il 1774 e il 1784 cominciò a compilare e pubblicare un elenco di centotré oggetti celesti che a suo avviso gli astronomi affetti dalla sua stessa passione avrebbero dovuto studiarsi bene per evitare di venire tratti in inganno e di scambiare per comete dei corpi celesti insignificanti. I corpi celesti dell'elenco sono ancora oggi noti col nome di "Messier 1", "Messier 2" e così via (oppure "M1", "M2" eccetera).
Tuttavia, come succede a volte, le comete scoperte da Messier risultarono di importanza relativa, mentre i corpi celesti "inutili" della lista si rivelarono di importanza fondamentale. Si dà il caso per esempio che il primissimo dell'elenco sia l'oggetto più importante del cielo oltre il sistema solare: la nebulosa del Granchio.
Un altro oggetto dell'elenco di Messier, l'M13, fu scoperto per la prima volta nel 1774 proprio da Edmund Halley, il santo patrono di tutti i cacciatori di comete.
Nel 1781 l'astronomo inglese di origine tedesca William Herschel (1738-1822) ricevette una copia dell'elenco di Messier. Poiché la sua massima aspirazione era di riuscire ad analizzare tutti i corpi celesti del cielo, decise di controllare ciascuna voce dell'elenco, compresa, naturalmente, l'M13.
Herschel fu il primo a spiegare correttamente che cosa fossero quelli che adesso chiamiamo "ammassi globulari". Poiché l'M13 si trova nella costellazione di Ercole, è chiamato a volte "Grande ammasso di Ercole". Herschel scoprì anche altri ammassi globulari; risultò anzi che circa un quarto di tutti gli oggetti celesti dell'elenco di Messier era costituito da essi.
Questi ammassi sono composti da centinaia di migliaia di stelle; quelli più grandi ne contengono forse milioni. La densità stellare all'interno è enorme. Al centro di un grande ammasso globulare si possono trovare fino a 1.000 stelle per parsec cubico, mentre nei dintorni del nostro pianeta le stelle per parsec cubico sono solo 0,075.
Se fossimo al centro di un grande ammasso globulare (e potessimo sopravvivere al suo interno), vedremmo un cielo notturno riempito da circa ottanta milioni di stelle visibili, di cui (se la luminosità fosse distribuita là come è distribuita qui) più di duecentocinquantamila sarebbero di prima grandezza o anche più.
Eppure gli ammassi globulari sono così lontani, che le innumerevoli stelle riunite in essi formano unità che solo in alcuni casi sono visibili dalla Terra a occhio nudo, e che anche quando lo sono lo sono a malapena.
Ma la caratteristica più singolare dei circa cento ammassi globulari conosciuti attualmente è che quasi tutti si trovano da un lato del cielo e pressoché nessuno dall'altro. Quasi un terzo del totale è collocato in quella parte di cielo che rientra sotto la costellazione del Sagittario. Questa asimmetria fu notata per la prima volta dal figlio di Herschel, John, (1792-1871), anche lui famoso astronomo.
Si tratta dell'asimmetria più rilevante che si possa osservare in cielo, tuttavia di per sé non è sufficiente a invalidare l'ipotesi che il sistema solare si trovi al centro della Galassia. In fin dei conti, si potrebbe sempre ritenere una pura coincidenza il fatto che gli ammassi globulari siano collocati tutti quanti da un solo lato del nostro cielo.

Un grosso passo avanti lo si fece nel 1904, quando l'astronoma americana Henrietta Swan Leavitt (1868-1921) verificò per prima che c'era una precisa relazione tra la lunghezza del periodo delle stelle variabili chiamate "Cefeidi" e la loro luminosità intrinseca.
Diventava quindi possibile, in teoria, confrontare la luminosità reale di una Cefeide con la sua luminosità apparente e calcolare in questo modo la sua distanza, una distanza troppo grande per poter essere calcolata con gli altri metodi conosciuti a quel tempo.
Nel 1913 l'astronomo danese Ejnar Hertzsprung (1873-1967) verificò la validità di quest'ipotesi calcolando per primo le distanze reali di alcune Cefeidi.
Arriviamo così all'astronomo americano Harlow Shapley (1885-1972), che a causa della sua infanzia poverissima riusci con grande difficoltà a conseguire un'istruzione e diventò astronomo per caso. Si iscrisse all'Università del Missouri per diventare giornalista, ma poiché la Scuola di Giornalismo si sarebbe aperta solo di li a un anno, cominciò, giusto per ingannare il tempo, a frequentare le lezioni di astronomia e... non tornò mai più al giornalismo.
Shapley cominciò a interessarsi alle Cefeidi e nel 1913 aveva già dimostrato che non erano stelle binarie che si eclissavano l'un l'altra. Ipotizzò invece che fossero stelle pulsanti. Circa dieci anni dopo, l'astronomo inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) elaborò con dovizia di dettagli la teoria delle pulsazioni delle Cefeidi, risolvendo così la questione.
Una volta arrivato all'Osservatorio di Mount Wilson, nel 1914, Shapley cominciò ad analizzare le stelle variabili negli ammassi globulari. Mentre le studiava scoprì che gli ammassi comprendevano delle stelle particolari, che furono chiamate "variabili del tipo RR Lyrae", dal nome della stella più nota appartenente a quella classe.
La luce di una variabile tipo RR Lyrae aumenta e diminuisce nello stesso identico modo in cui aumenta e diminuisce quella di una Cefeide, ma il periodo di variazione della prima è più piccolo. Le variabili tipo RR Lyrae hanno solitamente un periodo di variazione inferiore a un giorno, mentre il periodo delle Cefeidi è di circa una settimana.
Shapley pensò che tale differenza non fosse significativa e che le variabili del tipo RR Lyrae fossero semplicemente delle Cefeidi dal periodo corto. Ritenne quindi che la relazione tra luminosità e periodo calcolata dalla Leavitt per le Cefeidi valesse anche per le RR Lyrae (E in questo, come risultò poi, ebbe ragione).
Procedette quindi a valutare la luminosità e il periodo delle variabili tipo RR Lyrae in ciascuno dei novantatré ammassi globulari allora conosciuti e ottenne immediatamente la distanza relativa di tali ammassi. Poiché sapeva in che direzione si trovavano e aveva determinato le loro distanze relative, poté elaborare un modello tridimensionale della loro distribuzione.
Nel 1918 Shapley aveva ormai dimostrato (e la sua dimostrazione convinse ben presto anche gli altri astronomi) che gli ammassi globulari erano distribuiti con simmetria sferica intorno a un punto sul piano della Via Lattea, un punto, però, molto lontano dal sistema solare.
Se fosse stato vero che il sistema solare si trovava al centro della Galassia o vicino ad esso, gli ammassi globulari si sarebbero trovati circa al centro di un'estremità della Galassia, o poco oltre. La loro distribuzione irregolare nel cielo della Terra sarebbe stata quindi la spia di una reale distribuzione asimmetrica rispetto alla Galassia.
Tale ipotesi tuttavia non appariva ragionevole. Perché mai questi vasti agglomerati di stelle avrebbero dovuto trovare così interessante un'estremità della Galassia, quando tutta la nostra esperienza con la legge di gravitazione universale ci induceva a supporre che gli ammassi fossero piuttosto distribuiti simmetricamente intorno al centro della Galassia stessa?
Shapley avanzò l'ipotesi azzardata che gli ammassi globulari fossero effettivamente distribuiti intorno al centro, che quella che noi ritenevamo un'estremità della Galassia fosse in realtà il suo nucleo e che noi, e non gli ammassi globulari, ci trovassimo a un'estremità di essa.
Ma se così fosse stato, si sarebbe dovuta spiegare la simmetria di tutti gli altri oggetti esistenti in cielo. Ammesso che ci fossimo trovati davvero a un'estremità della Galassia e che il centro fosse stato nella direzione del Sagittario, dove erano concentrati gli ammassi globulari, come si poteva spiegare che non vedessimo un numero di stelle di gran lunga maggiore nella direzione del Sagittario che in quella, opposta, dei Gemelli? Come mai la Via Lattea non era assai più luminosa nel Sagittario che nei Gemelli?
A tali domande andava data una risposta, tanto più che presto furono fornite prove a conferma dell'ipotesi di Shapley.
Negli anni tra il 1920 e il 1930 si scoprì che le "nebulose a spirale" osservate qui e là nello spazio non erano masse gassose, come si era sospettato in un primo momento, ma vasti agglomerati di stelle, cioè vere e proprie galassie.
La galassia a spirale più vicina a noi si trova nella costellazione di Andromeda; da un attento esame di questa galassia risultò che anch'essa comprendeva ammassi globulari, i quali, tenendo conto della loro distanza assai maggiore, erano in tutto simili agli ammassi della nostra.
Essi erano distribuiti con simmetria sferica intorno al centro della loro galassia, proprio come Shapley sosteneva che fossero distribuiti gli ammassi globulari nella nostra.
Poiché si poté così constatare direttamente che gli ammassi nella galassia di Andromeda erano disposti intorno al centro, non c'era motivo di credere che i nostri si comportassero in modo diverso.
Si avanzò quindi l'ipotesi, la cui validità fu in seguito dimostrata oltre ogni possibilità di dubbio, che la nostra Via Lattea fosse una galassia a spirale molto simile a quella di Andromeda e che il sistema solare non si trovasse nel suo centro, ma assai lontano, in una delle braccia di spirale. Potrà sembrare forse un fatto umiliante, ma è così che stanno le cose.
Certo, noi ci troviamo effettivamente sul piano galattico o vicino ad esso, ed è per questo che la Via Lattea taglia il cielo in due metà uguali.
Ma la simmetria? Come mai la Via Lattea mostra dappertutto più o meno la stessa luminosità?
Se analizziamo la galassia di Andromeda e altre galassie a spirale abbastanza vicine da poter essere viste sufficientemente in dettaglio, scopriamo che le braccia di spirale sono piene di nubi di polvere che non contengono stelle e che quindi non sono illuminate. Sono le cosiddette "nebulose oscure".
Se nello spazio queste nebulose oscure si trovassero lontano dalle stelle, non verrebbero viste. Sarebbero, per così dire, "nero su nero". Se invece ci fossero agglomerati di stelle dietro di esse, le particelle di polvere all'interno delle nebulose oscure finirebbero per assorbire e disperdere la luce che avrebbero dietro, e gli osservatori vedrebbero le nubi come masse scure stagliate contro un chiarore stellare presente in tutte le direzioni.
Le braccia di spirale della nostra Galassia non fanno eccezione a questa regola.
William Herschel, nel corso della sua instancabile analisi di tutti i corpi celesti, notò che nella Via Lattea si rilevavano ogni tanto interruzioni molto marcate nella distribuzione delle numerose stelle deboli; in certe regioni non c'erano affatto stelle visibili. Herschel pensò che in tali regioni le stelle mancassero veramente e che questi tunnel di nulla che si allungavano attraverso quello che gli sembrava un agglomerato non troppo denso di stelle, nella Via Lattea, fossero orientati in modo da consentirci di guardare attraverso essi. "Sicuramente", affermò, "si tratta di buchi nel cielo".
Si scoprirono sempre più zone di questo tipo (ormai sono più di trecentocinquanta), e alla fine apparve del tutto improbabile che ci fossero così tanti buchi senza stelle nello spazio. Verso il 1900 l'astronomo americano Edward Emerson Barnard (1857-1923) e l'astronomo tedesco Maximilian Franz Joseph Cornelius Wolf (1863-1932) ipotizzarono, l'uno indipendentemente dall'altro, che queste interruzioni nella Via Lattea fossero costituite da nubi nere di polvere e gas che oscuravano la luce delle numerose stelle che si trovavano dietro di esse.
Furono proprio le nebulose oscure a spiegare la simmetria della Via Lattea. La Via Lattea è così zeppa di queste nebulose, che la luce proveniente dalle regioni centrali e dalle braccia di spirale situate oltre il centro viene totalmente oscurata. Tutto quello che possiamo vedere dalla Terra sono i nostri dintorni delle braccia di spirale. Osservando la Via Lattea, riusciamo ad arrivare con lo sguardo ugualmente lontano, qualunque sia la direzione scelta, ed è questo il motivo per cui quello che vediamo del cielo è simmetrico.

Shapley non solo calcolò la distanza relativa degli ammassi globulari, ma elaborò anche un metodo statistico che gli consenti di valutare, attraverso l'analisi delle variabili tipo RR Lyrae, la distanza assoluta degli ammassi globulari dalla Terra. Il suo metodo di calcolo era valido, ma c'era un fattore che Shapley non prese in considerazione e che lo indusse a sopravvalutare le dimensioni della Galassia.
Ancora una volta c'era in ballo la questione dell'oscuramento della luce, un fenomeno che si verificava anche quando le nebulose oscure erano assenti.
Si pensi, tanto per fare un'analogia, all'atmosfera della Terra. Le nubi atmosferiche possono ovviamente oscurare il Sole, ma perfino l'aria "limpida" di un cielo senza nubi non è completamente trasparente. Parte della luce viene dispersa e assorbita. Questo fenomeno è particolarmente visibile vicino all'orizzonte, dove la luce viaggia attraverso un'atmosfera assai più spessa, per raggiungere i nostri occhi o i nostri strumenti. Perciò il Sole all'orizzonte ha i raggi così indeboliti che spesso lo possiamo guardare senza rimanerne abbaglianti; quanto alle stelle, esse possono venire oscurate fin quasi a diventare invisibili.
Analogamente, nello spazio sono distribuiti in modo sparso atomi, molecole e anche particelle di polvere. Lo spazio è, naturalmente, assai più "limpido" della nostra atmosfera, anche quando questa è più trasparente che mai, ma la luce delle stelle deve viaggiare per molti trilioni di chilometri per raggiungerci, e lungo una distanza così grande anche pezzetti di materia sparsi qui e là producono effetti cumulativi di rilievo.
Questo fu spiegato nel 1930 dall'astronomo svizzero-americano Robert Julius Trumpler (1886-1956), che dimostrò come la luminosità degli agglomerati di stelle diminuisse con la distanza un po' più rapidamente di quanto sarebbe dovuta diminuire se lo spazio fosse stato completamente sgombro. Trumpler ipotizzò perciò l'esistenza di materia interstellare estremamente rarefatta, e da allora la sua ipotesi è stata confermata da numerose prove.
Poiché la polvere presente nello spazio "vuoto", un fenomeno di cui Shapley non tenne conto, oscurava le variabili del tipo RR Lyrae negli ammassi globulari, si calcolò che questi fossero un po' più lontani di quello che sono realmente. Una volta introdotta la correzione di Trumpler, le dimensioni della Galassia sono apparse leggermente ridotte rispetto ai calcoli di Shapley, e i valori trovati con il nuovo metodo sono accettati a tutt'oggi.
Attualmente si reputa che la Galassia sia un vasto oggetto lenticolare (o a forma di hamburger) che visto in sezione trasversale appare molto ampio nel senso della larghezza e relativamente stretto verso l'alto e verso il basso.
Il diametro longitudinale è di circa 30.000 parsec (o 100.000 anni luce, o trenta quadrilioni di chilometri). Lo spessore galattico è di circa 5.000 parsec al centro e di 950 parsec qui, dove c'è il sistema solare. Tanto per darvi un'idea di che cosa significhino queste cifre, la stella più vicina, Alpha Centauri, dista da noi circa 1,3 parsec, e se essa (o il Sole) fosse lontana 15 parsec, a occhio nudo sarebbe appena visibile.
Il centro della Galassia dista dal nostro perimetro esterno circa 15.000 parsec, e noi ci troviamo a 9.000 parsec dal centro. Siamo quindi più che a metà strada lungo il tragitto che dal centro va fino al perimetro esterno, il quale perimetro si trova a 6.000 parsec da noi nella direzione che si allontana dal centro.

Attraverso l'analisi delle altre galassie compiuta nell'ultimo quarto di secolo abbiamo scoperto che nel centro delle galassie stesse hanno luogo fenomeni di inaspettata violenza. La violenza di questi eventi è anzi tale, che probabilmente la vita quale noi la conosciamo è completamente impossibile nelle regioni centrali galattiche e forse esiste soltanto in periferia, dove ci troviamo noi.
È importante studiare questi avvenimenti da una distanza di sicurezza, perché una migliore comprensione di che cosa succeda nei centri galattici potrebbe dirci sull'universo molte cose che non potremmo apprendere altrimenti. Gli astronomi stanno facendo del loro meglio per scoprire la natura di tali fenomeni. Il guaio è che le distanze che ci separano dai centri delle altre galassie sono veramente troppo grandi. Se ci trovassimo un po' più vicino, avremmo grossi vantaggi pur continuando a essere del tutto al sicuro.
Il centro della galassia gigante più vicina, la galassia di Andromeda, è lontano per esempio 700.000 parsec. L'unico centro galattico più vicino è quello della nostra stessa Via Lattea, che si trova a soli 9.000 parsec da noi, meno di 1/80 della distanza che ci separa dal nucleo della galassia di Andromeda. Purtroppo, però, non possiamo vedere il centro della nostra Galassia, benché sia così vicino.
Intendiamoci, quando dico che non possiamo vederlo mi riferisco al fatto che non possiamo vederlo attraverso la luce visibile, perché è costantemente oscurato dalla polvere galattica.
Sulla Terra, però, quando le nubi o la nebbia oscurano la visuale possiamo usare il radar. I fasci di onde radio corte emessi e ricevuti dalle nostre apparecchiature radar possono penetrare facilmente le nubi e la nebbia.
Nel 1931 l'ingegnere elettrotecnico americano Karl Guthe Jansk (1905-1950) individuò per primo radioonde nel cielo. Queste radioonde sarebbero potute provenire dal Sole, che, quando l'attività delle macchie solari è al massimo o vicina al massimo, diventa la più potente radiosorgente del cielo (in quanto è incredibilmente vicino, se si usano come unità di misura le distanze
stellari). Per caso però le macchie solari erano ben lontane dal punto di massima attività sicché Jansky individuò la radiosorgente più forte subito dopo il Sole, una sorgente che si trovava nella costellazione del Sagittario.
Sappiamo già che il centro galattico è situato nella direzione del Sagittario, e indubbiamente il fascio di intense onde radio che Jansky localizzò proveniva da quel centro.
I radiotelescopi moderni si possono puntare con precisione sul luogo di provenienza della sorgente, che attualmente è stato ristretto a un punto non più ampio di 0,001 secondi d'arco.
Si tratta dunque di una sorgente estremamente piccola. Il pianeta Giove, quando si trova nel punto più vicino a noi, ha un'ampiezza di 3.000 secondi d'arco, sicché la radiosorgente centrale galattica è solo 1/3.000.000 dell'ampiezza che ha Giove nel nostro cielo; e Giove ci appare soltanto come un puntino luminoso.
Naturalmente la sorgente situata nel centro galattico è enormemente più lontana di Giove, e se tenessimo conto di questa distanza, l'ampiezza sarebbe di circa tre miliardi di chilometri. Se trasferissimo (ovviamente in via ipotetica) la sorgente nella posizione del nostro Sole, ai nostri occhi essa apparirebbe come un'enorme gigante rossa che riempirebbe tutto lo spazio fino all'orbita del lontano Saturno.
Tuttavia, per quanto molto grande se rapportata alla scala del sistema solare, non è assolutamente tanto grande da giustificare una così forte emissione di energia. Una stella normale come il nostro Sole irradia calore a spese della fusione nucleare, ma non c'è quantità immaginabile di fusione nucleare che possa, all'interno di qualcosa che ha le dimensioni della sorgente, produrre l'immensa energia che sembra produrre.
L'unica fonte di energia ancora più potente della fusione nucleare è il collasso gravitazionale. Sempre di più quindi gli astronomi propendono per l'ipotesi che al centro della nostra Galassia (e, forse, al centro di tutte le galassie e perfino di tutti i grandi ammassi globulari) ci sia un buco nero.
Il buco nero della nostra Galassia potrebbe avere una massa pari a un milione di volte quella del nostro sole. Dovrebbe aumentare progressivamente, incamerando materia che prenderebbe dalla forte concentrazione esistente nel nucleo della Galassia (dove le stelle sono ancora più dense che nel nucleo degli ammassi globulari), e che convertirebbe in parte nell'energia che irradia.
Le galassie più grandi avrebbero buchi neri più massicci, che incamerando enormi quantità di materia irradierebbero ancora più energia. Nel centro straordinariamente luminoso delle galassie attive, come ad esempio le galassie Seyfert (individuate per la prima volta nel 1943 dall'astronomo americano Carl Keenan Seyfert [1911-1960]), devono avere luogo fenomeni ancora più violenti. Quanto alle quasar, che molti astronomi tendono sempre di più a ritenere super-galassie Seyfert, gli eventi che hanno luogo nel loro centro devono essere i più violenti in assoluto, tra tutti quelli che accadono nell'universo di oggi.
Potremmo forse capire meglio la violenza di questi fenomeni se studiassimo in dettaglio il centro non troppo distante della nostra Galassia, un centro la cui stessa esistenza non sospettavamo neppure fino a una sessantina d'anni fa.

FINE