Science Fiction Project
Urania - L'autore in appendice
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SERGE BRUSSOLO - Gianni Montanari

(Parigi, 23.7.1988 - dalle ore 20 alle 23)

Domanda: Sonno di sangue sarà il tuo quinto romanzo tradotto in italiano, ed è un'opera del 1982. Quando hai cominciato a scrivere? E si trattava già di fantascienza o di qualche altro genere?
Risposta: Quando ho cominciato a scrivere non mi sono affatto posto il problema del genere. Ho scritto racconti, racconti strani, insoliti, e facendoli leggere in giro ho scoperto che le sole persone che forse ponevano pubblicare quel tipo di storie era la gente che lavorava nella nuova fantascienza, che all'epoca si chiamava New Wave... narrativa americana, con nuovi autori come Ellison... Allora sono andato da alcuni curatori di riviste con le mie storie, e alcuni mi hanno detto: "Sì, sono cose nuove, di un certo livello, forse fin troppo nuove, nessuno le leggerà..." e altri hanno detto: "Sì, bene, sono formidabili, le pubblicheremo..."

D: In quali anni, questo?
R: All'inizio degli anni Settanta, nel 1972 o 1973. Ma ho dovuto aspettare fino al 1978 per vedere pubblicato il mio primo racconto, «Funnyway», in un'antologia di Denoel.

D: Racconto che ha vinto un «Grand Prix de la SF Française», come pure la tua raccolta successiva, «Vue en coupe d'une ville malade». Come si potrebbe definire la "novità" di queste storie, rispetto alla SF francese di quegli anni?
R: La novità era la follia delle idee, diciamo, delle cose che non si erano mai lette fino ad allora. La situazione francese dell'epoca era quella di una fantascienza, da un lato, molto classica, space-opera, che si ripeteva molto e che non portava più nulla di nuovo, affiancata da una Heroic Fantasy, stile Conan, dove si scrivevano sempre le medesime cose, ancora senza alcuna novità, e dall'altro molto politicizzata ma che non era più fantascienza, e che i lettori non volevano più leggere. Io sono arrivato a questo punto, operando una rottura totale con tutto il resto, grazie alle mie idee davvero folli ma al tempo stesso compiendo uno sfruttamento molto logico e molto dettagliato di queste idee folli. In pratica il mio intento era quello di prendere cose comuni e di immergerle in situazioni che apparivano a prima vista inverosimili, ma rendendole ugualmente molto credibili, dunque un'operazione per certi versi piuttosto estrema...

D: Soprattutto attraverso i personaggi...
R: Esatto, tramite i personaggi e la sociologia dell'ambiente, parlando di come reagisce una società di fronte a una catastrofe e cose del genere...

D: È il tema della catastrofe - o meglio del "tempo" della catastrofe - che caratterizza quasi tutta la tua produzione...
R: Sì, diciamo che si trattava di catastrofi ecologiche, del modo in cui un mondo muore e di come un mondo si impegna, e di vedere come la gente reagisce dinanzi a ciò, attraverso tutti i mezzi... quello politico, religioso, la superstizione, e poi come certe persone cercano soprattutto di sopravvivere, qualunque cosa succeda. È quindi il problema della sopravvivenza, e diciamo subito che per me non si tratta di eroi, mai, ma semplicemente di uomini e donne che cercano di cavarsela, di sopravvivere alla loro situazione.

D: Alcuni esempi di queste catastrofi li abbiamo anche nei primi romanzi tradotti in Italia, ma quando inizi a scrivere una storia, sai già se il tuo eroe - o antieroe - è condannato?
R: No, direi di no. Io cerco, nella misura del possibile, di fare in modo che possa sopravvivere, ma a volte la situazione è tale, è una tale situazione di crisi, che è difficile farlo sopravvivere, a meno di non fare apparire la cosa inverosimile. Non posso certo incollare un "lieto fine" obbligatorio alla fine delle mie storie. A volte è possibile che un mio protagonista sopravviva, ma quando ciò accade spesso è distrutto, come ad esempio l'eroe di «I soldati di catrame», David... cioè, Lise. In questa storia Lise alla fine sopravvive ma è come morta, distrutta, non riesce a uscire dalla sua impasse.

D: C'è stato una specie di lapsus freudiano, mi pare. Parlando di Lise, l'eroina di «I soldati di catrame», hai fatto dapprima il nome di David, che invece compariva in «I seminatori di abissi». È vero che il cognome, Sorella, è lo stesso, ma questo sembra confermare che in pratica i tuoi personaggi sono sempre lo stesso personaggio in tutte le storie, una specie di eroe intercambiabile...
R: Sì, potremmo dire che si tratta sempre di un personaggio visto più come testimone che come eroe vero e proprio, vale a dire qualcuno che non è affatto eccezionale, un uomo comune, di tutti i giorni, e questo vale anche per le donne. Anzi, per «I soldati di catrame» ho voluto proprio scegliere una donna perché da diverse parti mi dicevano: "No, non bisogna prendere una donna come protagonista, non sta bene, ai lettori non piace...". Allora ho voluto dimostrare il contrario.

D: Però, l'intera connotazione psicologica di Lise è molto accurata e minuziosa, come quando lei si preoccupa per le smagliature o le vene che i "tuffi" le provocano sempre più...
R: È una donna che svolge un servizio di polizia, quindi una donna che vive in un ambiente maschile e che ha dovuto "indurirsi" per affrontarlo. I suoi colleghi non sono affatto teneri con lei, e lei deve dimostrarsi dura per reggere il confronto. È insomma una donna con tutti i problemi di una donna in un ambiente maschile, che per di più è un corpo di polizia, quindi un ambiente difficile...

D: Anche nel secondo e terzo romanzo del ciclo ci sono donne come protagoniste?
R: C'è una donna-poliziotto anche in «Le rire du lance-flammes», la storia dei pompieri. È una donna che cerca il proprio figlio scomparso... Di recente mi piace prendere una donna come personaggio principale, perché in fantascienza, almeno in Francia, ce ne sono pochissime, e gli autori francesi non ne usano quasi mai.

D: Sul lato pratico, come scrivi? Quanto tempo per un romanzo, come nascono le invenzioni, e via di questo passo?
R: Non ho un metodo fisso. Diciamo che prima cerco tutte le idee, faccio il progetto completo del romanzo, capitolo per capitolo, scena per scena. Non scrivo mai alla giornata, non invento mai sul momento, perché nelle mie storie tutto è costruito in anticipo, le diverse reazioni dei diversi gruppi, etc, e quindi non posso inventare sul momento. Mi riservo soltanto un margine di incertezza per la sopravvivenza dell'eroe, cioè voglio vedere come si svilupperà concretamente la sua vicenda. Quanto ai tempi di scrittura, diciamo che per un Fleuve Noir sono necessarie tre settimane. Per Denoel i tempi sono molto più lunghi, e possono arrivare anche a sei mesi.

D: Preferisci scrivere per Fleuve Noir o Denoel?
R: Mi piace scrivere per entrambi, perché sono cose diverse. Con Fleuve Noir mi diverto di più, perché sono romanzi un po' più leggeri dove utilizzo come dicevamo cose folli ma in modo più leggero, più gradevole, direi. Con Denoel la cosa è più seria, nel senso che metto una parte maggiore di me stesso, delle mie preoccupazioni anche letterarie. Io penso che questo si senta nei libri scritti per Denoel, come ad esempio in «Portrait du diable en chapeau melon», e che il risultato sia piuttosto differente.

D: Quanti libri di fantascienza hai pubblicato finora?
R: Quaranta. Una trentina presso Fleuve Noir e una decina da Denoel.

D: Tornando agli elementi che potevano caratterizzare la "novità" del fenomeno Brussolo in Francia, non pensi che la crudeltà abbia una parte di merito? Voglio dire, nelle reazioni che di solito esibiscono i tuoi personaggi, nelle situazioni più disparate, c'è sempre una vena quasi crudele, qualcosa che dona ai personaggi uno spessore fuori della norma letteraria fantascientifica. Le situazioni sono molto dirette, con shock derivanti da scontri spesso brutali e urtanti con realtà piuttosto crude. Nel resto della narrativa francese specializzata, per quello che ne conosco, non mi sembra una caratteristica molto frequente.
R: Be', diciamo che le mie situazioni sono effettivamente dure e crudeli, e in tali situazioni le persone diventano crudeli. Diventano spietate, si induriscono dentro e fuori, e automaticamente ci sono shock fra di loro, mentre ognuno si preoccupa sempre più di sopravvivere, si sviluppa una specie di egoismo finalizzato alla volontà di sopravvivere. La gente pensa a fare solo ciò che può servire per salvare la propria pelle, senza badare se questo significa passare sopra a quella degli altri.

D: Leggendo i tuoi libri, si ha l'impressione che le storie siano ambientate contro una specie di sfondo che ricorda molto una Storia Futura comune dell'umanità, con esplorazione spaziale, pianeti colonizzati e astronavi (che però non sono mai descritte). Esiste un quadro cronologico preciso che inquadra queste future conquiste dell'uomo?
R: No. Diciamo che i miei eroi vivono il tempo... o, meglio, l'era in cui il mondo è sul punto di disfarsi, vivono l'epoca in cui si arriva allo scacco e al crollo di tutte le tecnologie più avanzate, in cui la Terra è stata praticamente distrutta da queste tecnologie, ed è il tempo della malattia. È la malattia dell'universo, dove l'uomo aspetta un possibile rinnovamento e dove bisogna trionfare sulla malattia perché tutto questo riparta in seguito. Ma io, per il momento, descrivo il tempo della malattia, e da Denoel, per la precisione in un romanzo che. s'intitola «Sommeil de sang», mostro il tempo della malattia su un pianeta e il momento in cui il pianeta riparte, dopo aver superato il momento della malattia. Tutti gli uomini muoiono, ma il pianeta ha un nuovo inizio.

D: Jacques Chambon, sul «Magazin Litteraire», ha fatto un parallelo fra la tua produzione e la pittura di Bosch. Sei d'accordo?
R: Sì, soprattutto per la profusione e la metamorfosi. In Bosch tutto si trasforma e si compenetra, proprio come nelle mie storie, vale a dire non ci sono più separazioni fra il minerale, il vegetale, l'umano... e l'animale. Infatti, nella mia produzione tutto si mescola.

D: Forse il tempo della malattia non riguarda soltanto l'uomo, ma arriva a riguardare anche il tempo?
R: No, io penso che il tempo debba ricominciare. Diciamo che all'arrivo c'è la fine del mondo moderno dove esiste una separazione fra tutte le cose, e si ritorna al tempo del mito, che è il tempo che precede le classificazioni. È il tempo, potremmo dire, dei primitivi in cui tutto è vivo... la roccia è viva, e gli alberi sono vivi.

D: Ma chi è il vero malato, l'uomo o l'universo?
R: È l'universo, ma diciamo che la malattia è il primo tempo, il passaggio, la frontiera, a partire dalla quale tutto deve ricominciare. Diciamo che non è obbligatoriamente una cattiva malattia, ma il punto in cui si arriva a una fine delle classificazioni logiche per noi, e si ritrova una concezione primitiva dell'universo con l'animismo. È quello che io chiamo il tempo del mito in cui tutto è vivo, e a questo proposito in un altro mio romanzo, «Le carnaval de fer», si vedono uomini e donne che sono divenuti microcosmi dell'universo, vale a dire i loro capelli sono diventati erba, i loro denti di pietra, e danno riparo nei loro corpi ad animali; così c'è un uomo che alleva api nella sua bocca, e si nutre del miele di queste api. Si arriva insomma a dei mutanti che sono autentici condensati dell'universo e che rappresentano i suoi nuovi abitanti. Si può dire che questo è anche il tempo dell'ibridazione, della sopravvivenza grazie all'incrocio. Qui si vede il rinnovamento, l'inizio di una nuova epoca in cui il tempo ha superato la malattia.

D: Quali sono i tuoi autori preferiti?
R: Non ho autori preferiti. Fra quelli che leggo attualmente ci sono Tournier, Robbe-Grillet, la letteratura generale.

D: E in fantascienza?
R: Oh, leggo pochissima fantascienza. Preferisco il genere fantastico, specialmente Lovecraft. Varley mi piace molto, ma ho letto anche Dick. E Stephen King, soprattutto perché riesce a rendere la minaccia, il senso della minaccia, estremamente credibile, con cose molto comuni. King non ha affatto immaginazione, non è per nulla un innovatore, è estremamente classico, ma riesce a far scaturire dall'avvenimento più banale tutto il potenziale di minaccia che dorme là dentro. Da Fleuve Noir ho pubblicato tre romanzi fantastici di questo tipo.

D: Lovecraft, però, è praticamente l'opposto di King. Cosa ti piace del solitario di Providence?
R: In Lovecraft amo la costruzione di un mondo, di tutto un universo, ma costruito in opposizione completa al mio modo di sentire. Diciamo che io oscillo continuamente fra lo zen e il barocco. È sempre così. Sono attirato dai contrari, dalle cose fortemente contrapposte... quelle cose molto diverse che amo fare incontrare. È un po' una pratica surrealista, fare incollare cose molto lontane fra di loro e creare uno shock al momento dell'incontro. Per questo amo cose che sono molto diverse, come King e Lovecraft; King è la banalità, e Lovecraft al contrario è il delirio organizzato con l'aspetto mitico della ricreazione di un mondo anteriore alla nostra società, con tanto di positività. L'incrocio è la condizione della rinascita. Penso che da questo derivi l'ibridazione. Ma per Lovecraft l'ibridazione è malvagia, mentre per me è positiva. L'incrocio è la condizione della rinascita. Penso che questo derivi anche dalla mia storia familiare... per esempio dal Brasile, dove tutti sono il prodotto di incroci, e dove si può vedere una società che è fiorita dall'incrocio controllato. Nella mia famiglia ci sono state molte mescolanze: ci sono brasiliani, scozzesi e italiani. Anche in questo caso, io sono sempre attirato dai contrari... tutto l'aspetto dell'America latina, la gente, il Brasile e l'Amazzonia, che mi attirano in modo formidabile, ma anche i paesaggi molto nordici, della Scozia, per esempio... Io sono, al tempo stesso, un uomo di atmosfere molto calde, pesanti, e insieme di nebbie, foschie umide, colori grigi e freddi. Un lascito, forse, dei miei antenati veneziani.

FINE