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Urania - Asimov d'appendice
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CALDO, FREDDO E CON...FUSIONE - Isaac Asimov
Titolo originale: Hot, cold and con...fusion

La scienza è interculturale, e così pure gli errori scientifici. E non mi riferisco agli inganni perpetrati volontariamente, ma alle cantonate prese in buona fede da ricercatori competenti.
Un classico esempio è la presunta scoperta, effettuata nel 1903 dal fisico francese René P. Blondlot, dei cosiddetti "Raggi N". Si potrebbe essere tentati di ritenere che l'eccessivo entusiasmo di fronte ad un risultato scientifico sorprendente ma ambiguo sia un tipico atteggiamento riconducibile alla superficiale esuberanza, ai volubili umori comunemente attribuiti al popolo francese... Ma sarebbe un giudizio ingiusto. Cose del genere accadono ovunque.
Nel 1962 il fisico sovietico Boris Deryagin annunciò la scoperta della "poliacqua". Pareva trattarsi di una nuova forma di acqua rintracciabile nei condotti capillari, dove la compressione imposta dalle particolari condizioni ambientali avrebbe costretto le molecole del liquido elemento a un'inusitata concentrazione. Fu reso noto che la poliacqua era 1,4 volte più densa dell'acqua normale e bolliva a 500°C invece che ai soliti 100.
Chimici di tutto il mondo si misero immediatamente a ripetere le esperienze condotte da Deryagin, confermando i risultati da lui ottenuti. Fu ipotizzato che la poliacqua giocasse un ruolo importante nella struttura delle cellule umane, e l'entusiasmo andò alle stelle.
Ma poi dai laboratori si cominciò a mormorare che certe peculiari caratteristiche fisico-chimiche della poliacqua sarebbero apparse anche nell'eventualità che le pareti interne dei contenitori avessero ceduto al liquido un po' del loro vetro... Non era possibile che la poliacqua fosse in realtà una soluzione di silicato di sodio e calcio? Risultò esser proprio così, e la "poliacqua" andò a farsi benedire esattamente come i "Raggi N".
Prendiamo allora il caso di Percival Lowell, puro americano di schietta stirpe bostoniana ed astronomo di prim'ordine. Egli affermò di avere individuato canali sulla superficie marziana, ne disegnò mappe estremamente dettagliate, e si disse assolutamente convinto che essi denotassero la presenza di una civiltà tecnologicamente avanzata e venissero utilizzati per irrigare i deserti delle regioni equatoriali con acqua proveniente dalle calotte polari.
Anche altri, osservando Marte, videro i canali, però numerosi astronomi non confermarono affatto tali osservazioni. Nel corso degli anni, ulteriori e sempre più accurate indagini continuarono a sgretolare il modello marziano propugnato da Lowell, e oggi noi tutti sappiamo per certo, grazie all'esplorazione del "pianeta rosso" per mezzo di sonde, che i canali non esistono. Lowell era rimasto vittima di un'illusione ottica.
Dovremmo forse dedurne che le scoperte sorprendenti siano sempre sbagliate? Ma no, che diamine!
Nel 1938 il chimico tedesco Otto Hahn, dopo aver bombardato dell'uranio con neutroni, giunse alla conclusione che gli esiti osservati potevano spiegarsi solo supponendo una scissione (o "fissione"), più o meno a metà, dei nuclei di uranio. Si trattava di un fatto assolutamente inaudito, e Hahn, non volendo mettere a repentaglio la propria reputazione, preferì non farne parola.
La chimica austriaca Lise Meitner, sua compagna di ricerche per più di trent'anni, redasse una monografia sulla fissione dell'uranio e ne parlò al nipote, il fisico Otto Frisch, il quale a sua volta ne informò Niels Bohr poco prima che questi si recasse negli Stati Uniti per partecipare ad un convegno scientifico. Bohr rese la cosa di pubblico dominio, e i fisici americani si precipitarono immediatamente ai loro laboratori, condussero gli opportuni esperimenti, e confermarono la fissione dell'uranio. Coi risultati che ben conosciamo.

L'accennato fenomeno della fissione nucleare mi porta inevitabilmente a parlare del suo contrario, e cioè la fusione. Mentre nella fissione un nucleo pesante viene scisso in due metà disuguali, nella fusione sono due nuclei leggeri ad unirsi formando un nucleo di maggiore massa.
La fissione, in un certo senso, è facile da ottenere. Taluni atomi pesanti si trovano già di per sé sul punto di frantumarsi. Le forze nucleari a breve raggio sono infatti appena sufficienti a tenere insieme certi atomi complessi, la cui naturale vibrazione li mantiene costantemente in bilico sull'orlo della fissione spontanea. Gli atomi di uranio sono un esempio ben noto ditale tendenza alla lenta disintegrazione.
Se somministriamo al nucleo una piccola quantità di energia, la fissione può verificarsi all'istante, soprattutto nel caso di atomi particolarmente instabili come quelli dell'uranio 235. In pratica si spara contro l'atomo un neutrone che, essendo privo di carica elettrica, non viene respinto dal nucleo, carico positivamente, ma vi penetra, aumentandone l'instabilità e provocandone l'immediata fissione.
La fusione è senza dubbio più complicata. È necessario portare due piccoli nuclei ad unirsi strettamente, se li si vuole costringere a fondersi insieme: i nuclei però, tutti provvisti di carica positiva, tendono invece a respingersi vigorosamente. Indurli ad avvicinarsi l'un l'altro quanto basti ad innescare la fusione è impresa di enorme difficoltà, quasi impossibile a realizzarsi.
Eppure le reazioni di fusione ricorrono assai sovente, nell'universo, producendosi in effetti spontaneamente in ogni concentrazione di materia che: 1) sia costituita in massima parte da idrogeno e, 2) possieda una massa non inferiore a circa 1/5 di quella del Sole.
Rispetto alla Terra, il più vicino luogo dell'universo in cui la fusione si verifichi su larga scala è il centro del Sole.
E vediamo praticamente come funziona la cosa. Innanzitutto la parte interna del Sole possiede una temperatura di milioni di gradi. In tale situazione gli atomi sono totalmente ionizzati, ridotti a nudi nuclei privati del guscio elettronico. Questo è un fatto molto importante, poiché in condizioni normali di temperatura e pressione gli atomi sono circondati da una "nube" di elettroni che agiscono da respingenti, impedendo ulteriormente ai nuclei di avvicinarsi l'un l'altro.
Altro effetto determinante dovuto alle altissime temperature presenti all'interno del Sole è che i nuclei si muovono a velocità estremamente elevate, molto più rapidamente degli atomi terrestri. Quanto più veloci sono i nuclei, tanto maggiore è l'energia da essi posseduta, e alle temperature solari i nuclei hanno energia sufficiente a vincere la reciproca repulsione e giungere a scontrarsi impetuosamente.
Inoltre, il campo gravitazionale della nostra stella attrae gli strati gassosi esterni a premere spaventosamente contro i più interni, costringendo i nuclei ad ammassarsi tanto vicini che la densità, al centro del Sole, è migliaia di volte superiore a quella della materia presente nel normale ambiente terrestre.
In tali esasperate condizioni, i velocissimi e ravvicinatissimi nuclei non hanno molta scelta: finiscono inevitabilmente per scontrarsi.
È quindi evidente che la fusione sia incentivata sia dall'alta temperatura, sia dall'alta densità. Quanto più vi è abbondanza dell'una, tanto meno vi è necessità dell'altra, e viceversa. In pratica, per innescare la fusione è indispensabile creare, e mantenere per un tempo sufficiente, certe combinazioni di temperatura e densità. I valori opportuni per ciascuno dei tre parametri sono noti. Basta solo conseguirli simultaneamente. E poiché, pur ipotizzando le circostanze più favorevoli, vi è sempre necessità di temperature estremamente elevate, il risultato è stato definito "fusione calda".
È possibile realizzare sulla Terra la cosiddetta fusione calda? Senza alcun dubbio. Lo stiamo facendo da quasi quarant'anni, ormai, con un ordigno detto bomba all'idrogeno, la quale, in effetti, non è altro che una bomba a fusione nucleare. Basta infatti prendere una sostanza i cui atomi siano suscettibili di fusione, come l'idrogeno, e sottoporla, per un tempo assai breve, alla combinazione di temperatura e pressione ottenibile da una "banale" bomba a fissione usata come innesco.
Sarà qui opportuno ricordare che esistono tre isotopi dell'idrogeno. C'è l'idrogeno normale (detto idrogeno 1), il cui nucleo è costituito di un solo protone; il deuterio (o idrogeno 2), con un nucleo contenente un protone e un neutrone; e il tritio (idrogeno 3), nel cui nucleo sono presenti un protone e due neutroni.
Il deuterio si fonde più facilmente dell'idrogeno normale, e il tritio con facilità ancora maggiore. L'isotopo di gran lunga più diffuso in natura, responsabile delle reazioni termonucleari all'interno del Sole, è l'idrogeno 1, ma sulla Terra il suo utilizzo comporterebbe eccessive difficoltà. Ci si potrebbe servire del tritio, ma trattandosi di un elemento radioattivo che decade nell'arco di pochi anni, rarissimo in natura, andrebbe sintetizzato di continuo, e usarlo da solo creerebbe non pochi problemi di ordine pratico.
Quello che si fa per costruire le bombe a fusione è utilizzare il deuterio, non eccessivamente raro in natura e facilmente ottenibile in grandi quantità, in unione a una piccola percentuale di tritio. La bomba a fissione innesca la fusione del tritio col deuterio, e da ciò si genera una quantità di calore sufficiente a innescare la più difficile fusione del deuterio con se stesso.
È stato di recente rivelato che le nostre centrali nucleari adibite alla produzione di tritio hanno continuato per anni a diffondere radioattività nell'ambiente.
Adesso le centrali di produzione del tritio sono state chiuse; ciò significa che le nostre scorte di tritio si stanno lentamente riducendo, e quando si saranno del tutto esaurite non saremo più in grado di far esplodere le nostre bombe H a meno che non vengano realizzati nuovi impianti per la produzione di tritio, il che richiederebbe anni di lavoro e miliardi di dollari.
Ma ciò che c'interessa, almeno nel presente saggio, non sono le bombe all'idrogeno. Vorremmo invece riuscire capire se vi sia un sistema per ottenere la fusione nucleare in modo controllato, senza bombe a fissione come detonatori e senza apocalittiche esplosioni come prodotto finale.
Quel che ci piacerebbe fare, in altre parole, sarebbe fondere una piccola quantità d'idrogeno, e usare l'energia ottenuta per fonderne un altro poco, e così via... e sempre solo un pochettino alla volta, per non correre il rischio di provocare indesiderate esplosioni. Non tutta l'energia prodotta sarebbe necessaria al mantenimento della reazione di fusione, e la quantità eccedente potremmo usarla per altri scopi. La fusione nucleare controllata diverrebbe una sorgente di energia pulita e praticamente illimitata.
Per conseguire un simile risultato dobbiamo mettere in gioco la corretta combinazione di temperatura e pressione per un opportuno lasso di tempo. E siccome né la tecnologia attuale né quella prevedibilmente sviluppabile nel prossimo futuro ci consentiranno di portare il deuterio a livelli di densità apprezzabili, dobbiamo ovviare a tale carenza sottoponendo i nostri nuclei a temperature molto superiori a quelle presenti all'interno del Sole. Invece di dieci milioni di gradi, ce ne servono cento milioni.
Sono ormai più di trent'anni che i fisici stanno cercando di realizzare le condizioni necessarie. Per esempio tenendo confinato il deuterio gassoso all'interno d'intensi campi magnetici mentre la temperatura viene elevata. Oppure bersagliando da più parti il deuterio solido con potenti raggi laser, in modo da portarlo alla temperatura voluta con, tale rapidità che gli atomi non abbiano il tempo di disperdersi.
Nessun tentativo, sinora, è stato coronato da successo. Nonostante l'utilizzo di giganteschi dispositivi del costo di svariati milioni di dollari, non si è ancora riusciti a condurre il deuterio al punto d'innesco del processo di fusione.
Ma potrebbe esistere qualche altro sistema per dare il via alla fusione?
Non sarebbe possibile indurre i nuclei di deuterio a una maggiore socievolezza senza riscaldarli? È concepibile qualche ingegnoso espediente per ottenere il loro avvicinamento a temperatura ambiente? In tal caso si tratterebbe di "fusione fredda". Vediamo un po'...
In condizioni normali gli atomi di deuterio sono elettricamente neutri, in quanto la carica negativa dell'elettrone controbilancia la carica positiva del protone presente nel nucleo, cosicché due atomi di idrogeno 2 possono venire in contatto senza problemi. In tale situazione, fra i protoni dei due nuclei intercorre una distanza pari all'incirca al diametro di un atomo (più o meno un centomilionesimo di centimetro).
Ogni particella possiede, oltre a quelle "materiali", anche caratteristiche ondulatorie: un protone può essere considerato come un'onda provvista, in ogni suo punto, di proprietà corpuscolari (la questione non è correttamente rappresentabile se non facendo ricorso a complesse formule matematiche, ma per i nostri scopi il semplificato riferimento alla duplice natura onda-particella è sufficiente). La probabilità che la particella si trovi in una specifica zona dell'onda dipende dall'intensità di tale zona. Il centro dell'onda è la zona più intensa, e l'intensità decresce rapidamente con la distanza. Ciò significa che il protone si trova di solito presso il centro dell'onda, sebbene esso possa talvolta situarsi anche fuori centro.
In pratica, ciascuno dei nostri due protoni potrebbe trovarsi abbastanza fuori centro da entrare in effettivo contatto con l'altro, dando luogo alla fusione. Tale fenomeno è definito "effetto tunnel", in quanto la particella che ne è interessata, in virtù delle sue proprietà ondulatorie, sembra aprirsi un passaggio attraverso un'apparentemente (secondo la meccanica classica) invalicabile barriera di potenziale. Finché fra i due protoni intercorre una distanza pari al diametro dell'atomo di idrogeno, la possibilità del verificarsi dell'effetto tunnel rimane talmente remota da farmi dubitare che un numero significativo di tali fusioni possa avere avuto luogo nell'intera storia dell'universo.
E se provassimo a utilizzare atomi di minor diametro?
Sempre per via delle sue proprietà ondulatorie, la minima distanza cui l'elettrone può giungere rispetto al protone non può essere inferiore a quella dell'onda caratteristica del più basso livello energetico. E anche quando l'elettrone "orbita" sul livello più basso, l'atomo d'idrogeno, pur a dimensione minima, rimane troppo grande per consentire la fusione.
Si dà tuttavia il caso che esista una particella, chiamata muone, la quale è assolutamente identica all'elettrone tranne che per due aspetti. Prima differenza, la massa. Il muone è 207 volte più massiccio dell'elettrone, e ciò comporta che l'onda a esso associata è proporzionalmente più breve di quella associata all'elettrone. Se nell'atomo di idrogeno sostituiamo dunque l'elettrone con un muone, quest'ultimo, grazie alla "brevità" della sua onda, potrà giungere molto più vicino al nucleo, in effetti, il cosiddetto "deuterio muonico" possiede solo un centesimo del diametro di un normale atomo di deuterio, e siccome il muone ha esattamente la medesima carica negativa di un elettrone, il deuterio muonico è lui pure elettricamente neutro, e due atomi di deuterio muonico possono entrare facilmente in contatto.
Date le premesse, i due protoni si verrebbero in tal caso a trovare abbastanza vicini da consentire l'agevole verificarsi dell'effetto tunnel, il che a sua volta provocherebbe l'inizio della fusione a temperatura ambiente.
Ma allora, mi direte, dove sta il problema? Nella seconda differenza. Infatti, diversamente dall'elettrone, il muone non è stabile. Mentre un elettrone, abbandonato a se stesso, durerebbe immutato all'infinito, il muone, in circa un milionesimo di secondo, si scinde in un elettrone e due neutrini, lasciando davvero poco tempo all'innesco del processo di fusione. La fusione fredda tramite catalizzazione muonica è dunque teoricamente possibile ma per ora, a meno di qualche imprevedibile passo avanti, assolutamente impraticabile.
Altri sistemi? Gli atomi d'idrogeno, i più piccoli che si conosca, possono talvolta introdursi e fissarsi negli interstizi cristallini di elementi formati da atomi più grandi. Caso classico è quello del palladio, uno dei metalli appartenenti al gruppo del platino. A temperatura ambiente, il palladio è capace di assorbire idrogeno, o deuterio, in misura pari a novecento volte il proprio volume.
Gli atomi di deuterio, una volta riversatisi all'interno del palladio, sono molto più ravvicinati di quanto normalmente non siano nel deuterio gassoso. E, fatto assai importante, sono anche trattenuti saldamente al loro posto da parte degli atomi di palladio.
Alla luce di quanto sopra, non sembrerà ozioso domandarsi se il loro forzato ravvicinamento possa essere sufficiente a provocare un effetto tunnel abbastanza intenso da divenire rilevabile e, di conseguenza, un processo di fusione degno di nota. Due chimici, l'americano Stanley Pons dell'Università dello Utah e l'inglese Martin Fleischmann dell'Università di Southampton, giunti alla determinazione che valeva la pena di fare un tentativo in tal senso, hanno lavorato cinque anni e mezzo, autofinanziandosi con un centinaio di migliaia di dollari, nel tentativo di ottenere la fusione fredda per mezzo di semplici celle elettrolitiche che qualunque abile studente di chimica sarebbe stato in grado di approntare, ed ecco cosa sono riusciti a ottenere.
Sono partiti da un recipiente di acqua pesante (composta, cioè, di atomi di deuterio invece che normale idrogeno). Hanno aggiunto un poco di litio per farlo reagire con l'acqua pesante e creare ioni in grado di trasportare una corrente elettrica. Quindi hanno fatto passare corrente attraverso la soluzione immergendo in essa due elettrodi, uno di platino e uno di palladio. La corrente elettrica ha dissociato l'acqua pesante in ossigeno e deuterio, e il deuterio è stato assorbito dall'elettrodo di palladio. Man mano che l'acqua si dissociava, una crescente quantità di deuterio veniva assorbita dal palladio, sinché a un certo punto ha avuto luogo la reazione di fusione fredda.
Come hanno fatto, i due chimici, a concludere che tale reazione era veramente avvenuta? Semplice: verificando che l'elettrodo di palladio sviluppava un calore quattro volte superiore a quello che il sistema riceveva dall'esterno. Da qualche parte questo calore doveva pur venire, e poiché nessun'altra delle fonti da loro ipotizzabili poteva esserne considerata responsabile, i due hanno stabilito che esso si generava da una reazione di fusione fredda.
Benissimo. Pons e Fleischmann sono due ricercatori di chiara fama, autori di importanti ricerche, e debbono essere trattati con tutto il rispetto dovuto alla loro eccellente reputazione.
Ma...
Se qualcuno escogitasse un sistema pratico per produrre una fusione fredda utilizzabile, e fosse il primo in assoluto, costui si trasformerebbe all'istante nel più famoso chimico del mondo e si beccherebbe senza alcun dubbio il Premio Nobel, e se ottenesse i relativi brevetti diverrebbe oltretutto enormemente ricco. È quindi perfettamente naturale, assolutamente umano, che Pons e Fleischmann abbiano desiderato riuscire nell'impresa. E nulla di strano nel fatto che, non appena ottenuto un qualche promettente segno di fusione fredda, abbiano senz'altro deciso di avercela fatta davvero, anche se forse non era proprio così. In fondo, la natura umana è fatta così.
Prima di procedere alla divulgazione del risultato, si obietterà, avrebbero dovuto attendere di esserne assolutamente certi, ma se è assai facile raccomandare la prudenza, è molto difficile metterla in pratica.
Dopotutto, se non fossero stati i primi in assoluto, a Pons e Fleischmann, personalmente, non ne sarebbe venuto nulla. Nell'esperimento da essi realizzato non vi sono elementi di particolare eccentricità. Tutti gli scienziati sanno della propensione del palladio nei confronti dell'idrogeno, comprendono l'effetto tunnel, conoscono la catalisi muonica e sono in grado di approntare celle elettrolitiche. Vai a capire quanti chimici e fisici potevano esservi, in tutto il mondo, segretamente al lavoro per ottenere la fusione fredda pronubo il palladio... In effetti, Pons e Fleischmann sapevano che alla Brigham Young University alcuni ricercatori stavano operando in tale direzione.
Sembra che i due gruppi si fossero messi d'accordo per inviare contemporaneamente la propria relazione a Nature, un periodico di gran prestigio, il 24 marzo 1989. Però Pons e Fleischmann non hanno resistito alla tentazione di arrivare indiscutibilmente primi, e hanno bruciato sul tempo i colleghi tenendo una conferenza stampa il 23 marzo e spiattellando ai giornalisti la sbalorditiva novità.
Il che ha mandato gli scienziati (soprattutto i fisici) su tutte le furie, per una serie di motivi che ora esporrò.
1) Rivelare alla stampa non specializzata un'importante scoperta scientifica non è il modo corretto di procedere. Bisogna invece scrivere una dettagliata relazione scientifica, inviarla a una rinomata rivista scientifica, attendere che venga passata al vaglio da parte di esperti della materia, e accettare se necessario di sottoporla a revisione: solo dopo questa trafila si giunge alla pubblicazione. Il tutto potrà apparire alquanto burocratico, ma non se ne può fare a meno se si vuoi mantenere la scienza in carreggiata. Pons e Fleischmann hanno invece eseguito una spettacolare e autogratificatoria uscita pubblica propagandando gli esiti di un lavoro che avrebbe potuto essere incompleto o ambiguo. Se un simile modus operandi si diffondesse, la ricerca scientifica rischierebbe di precipitare nel caos.
2) Pons e Fleischmann non hanno mai rivelato i particolari del loro procedimento, manifestando anche in ciò scarso rigore scientifico. Ogni scienziato, naturalmente, avrebbe desiderato ripetere l'esperimento per conto proprio, allo scopo di confermarne se possibile i risultati e di metterne eventualmente in luce risvolti inediti (una cosa del genere avvenne, come ho accennato, nel caso della fissione dell'uranio). Anche quando i due ricercatori si sono finalmente decisi a presentare una relazione a Nature, si è trattato di uno scritto talmente lacunoso che la direzione della rivista ha sollecitato loro le necessarie integrazioni, ma Pons e Fleischmann si sono rifiutati di fornire ulteriori dettagli.
3) I due, a quanto pare, hanno omesso l'effettuazione di alcune indispensabili verifiche. Per esempio, non hanno ripetuto l'esperimento utilizzando acqua normale. Perché anche se sulla base delle loro premesse operative il deuterio fosse giunto a fusione, non altrettanto avrebbe dovuto fare l'idrogeno normale. E se invece si fosse sviluppato calore anche in presenza di idrogeno 1, allora la sorgente di tale calore avrebbe dovuto necessariamente essere qualcosa di diverso dalla fusione.
4) La prova maggiore portata da Pons e Fleischmann a sostegno della fusione consiste nello sviluppo di calore, ma si dà il caso che il calore possa derivare da un'infinità di fonti, essendo normalmente prodotto da ogni concepibile forma di energia. Non basta dire: questo non può essere, quest'altro nemmeno, e allora dev'essere per forza fusione. È un genere di dimostrazione negativa assolutamente fuorviante, in quanto potrebbe trattarsi benissimo di un qualche altro fenomeno - del tutto diverso dalla fusione - che il ricercatore ignora o al quale, semplicemente, non ha pensato. Ciò di cui abbiamo bisogno sono osservazioni a sostegno della fusione, e non argomentazioni circa l'assenza di altre reazioni. Per esempio, se atomi di deuterio si fossero fusi avrebbero dovuto creare neutroni di tritio e, probabilmente, elio 4. Il che non è stato osservato.
Gli scienziati della Brigham Young University hanno sì riferito la presenza di neutroni, ma solo in quantità pari a circa un centomillesimo di quelli necessari a generare il calore osservato da Pons e Fleischmann. Talmente pochi, in effetti, che sarebbe assai difficile dimostrare essersi trattato di neutroni in qualche modo diversi da quelli sempre e comunque presenti nell'ambiente.
5) Immediatamente dopo l'annuncio, il governatore dello Utah ha chiesto al governo federale un finanziamento di alcuni milioni di dollari allo scopo di promuovere lo sviluppo industriale della fusione fredda prima che i giapponesi riescano a impadronirsi dell'idea dandole concreta attuazione nel loro paese. Tale circostanza ha conferito alla vicenda una sgradevole impronta commerciale, mettendo in piena evidenza, alla base dell'incompletezza e dell'eccessiva precipitazione caratterizzanti l'esperimento, una motivazione di carattere economico.
6) Durante un convegno di chimici, Pons e Fleischmann hanno avuto la malaugurata idea d'insinuare che la loro categoria aveva recato soccorso ai fisici realizzando quasi gratis quello che i fisici stessi non erano stati capaci di ottenere nemmeno a prezzo di svariati milioni di dollari. Che bisogno c'era di mettersi a sfottere così un lavoro onesto e razionale? I fisici, esseri umani pure loro, hanno rabbiosamente rimbeccato i chimici, e quello che avrebbe dovuto essere un civile, costruttivo dibattito scientifico è degenerato in un'incresciosa farsa a suon d'ingiurie.
Fatto sta che, a distanza di oltre un anno dal primo trionfale comunicato, appare sempre più improbabile che la fusione fredda di Pons e Fleischmann possa venire confermata da chicchessia: essa sembra invece destinata a dissolversi nel nulla non diversamente da quanto fecero a suo tempo i canali di Marte, i "Raggi N" e la "poliacqua". Peccato davvero, in quanto il mondo potrebbe trarre senza dubbio grandi benefici da un efficace impiego della fusione fredda.
Comunque, volendo concludere su una nota positiva, c'è da osservare che, pur se la clamorosa impresa di Pons e Fleischmann dovesse irrevocabilmente finire col rivelarsi null'altro che un illusorio miraggio, essa avrà però dato impulso a un poderoso sforzo di ricerca nel campo delle celle elettrolitiche con elettrodi in palladio, e chissà che non possano scaturirne risultati interessanti. Magari addirittura la fusione fredda ottenuta per altre vie. E certo quello che io mi auguro, sebbene debba ammettere che non mi sentirei assolutamente di scommetterci.

FINE