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Urania - Racconti d'appendice
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SOLSTIZIO D'INVERNO - Mike Resnick
Titolo originale: Winter solstice

Vivere all'indietro nel tempo non è affatto facile, neanche quando si è Merlino il Magnifico. Si potrebbe pensare che sia il contrario, che ci si possa ricordare tutte le meraviglie del futuro, ma invece quei ricordi tendono a scemare e a scomparire molto più velocemente di quanto non si possa immaginare. So che domani Galahad vincerà il duello, ma mi è già sfuggito il nome di suo figlio. Ora che ci penso, non sono neanche sicuro che abbia un figlio. Vivrà abbastanza a lungo per trasmettere ai posteri il suo nobile sangue? Penso che probabilmente ce la farà - credo di aver tenuto sulle mie ginocchia suo nipote - ma non ne sono certo. Tutti i miei ricordi si stanno annebbiando.
Una volta conoscevo tutti i segreti dell'universo. Con un solo pensiero, potevo bloccare il tempo, invertirne il corso, o avvolgermelo attorno al dito come un filo. Solo usando la mia forza di volontà, potevo sfrecciare attraverso le stelle e le galassie. Potevo creare la vita dal nulla, e trasformare mondi viventi e respiranti in polvere.
Ma con il passare del tempo - anche se non allo stesso modo in cui passa per voi - non fui più in grado di fare tutte queste cose. Tuttavia, potevo sempre isolare una molecola di DNA e applicarvi la microchirurgia, o produrre le equazioni che ci permisero di attraversare i fori dei tarli dello spazio, o pilotare l'orbita di un elettrone.
Ma ora tutto ciò se n'è andato e, in quelle occasioni in cui riesco a ricordare quel tutto, lo ricordo come si potrebbe ricordare un sogno. Vi era - un giorno vi sarà, e potrebbe capitare a voi - una malattia degli anziani, per la quale si perdono porzioni della propria mente, parti del proprio passato, pensieri pensati e sensazioni provate, finché non rimane altro che l'id primario che grida silenziosamente alla ricerca di calore e nutrimento. Si vedono parti del proprio essere che scompaiono, si tenta di recuperarle dall'oblio, non vi si riesce, e per tutto il tempo si è perfettamente consapevoli di quanto sta accadendo, finché anche quella percezione, anche quella consapevolezza, viene persa. Piangerò per voi in un altro millennio, ma ora i vostri volti persi svaniscono dalla mia memoria, la vostra disperazione scompare dalla mia mente, e presto non ricorderò più nulla di voi. Tutto se ne sta andando via col vento, eludendo i miei frenetici sforzi per afferrarlo e riportarlo a me.
Sto scrivendo queste cose affinché un giorno qualcuno possa leggerle e sapere che ero un uomo buono e moralmente saldo; che, viste quelle circostanze alle quali un dio più compassionevole non mi avrebbe mai sottoposto, ho fatto del mio meglio. Non mi sono sottratto ai miei doveri; mi sono sforzato di servire la mia gente quanto meglio potevo.
Viene da me, la mia gente, e mi dice: "Fa male, Merlino". "Fai un incantesimo, fai scomparire il dolore" mi dicono. "Il mio bambino ha la febbre, e non ho più latte per allattarlo". "Fai qualcosa, Merlino" mi dicono. "Tu sei il più grande mago del reame, il più grande stregone che sia mai esistito. Certamente potrai fare qualcosa".
Persino Arturo mi cerca. La guerra va male, mi confessa. Gli infedeli combattono contro il battesimo; i cavalieri sono caduti quasi tutti combattendo fra loro; non si fida della sua regina. Mi rammenta che sono stato io a insegnargli il segreto di Excalibur (ma è avvenuto molti anni fa, e naturalmente io non ne so ancora nulla). Lo osservo con aria pensierosa, e sebbene conosca un Arturo piegato dalla vecchiaia e abbattuto dai capricci del Fato, un Arturo che ha perso la sua Ginevra, la sua Tavola Rotonda e tutti i suoi sogni di Camelot, non riesco a provare alcuna compassione o simpatia nei confronti di questo giovanotto che mi sta parlando. È uno sconosciuto per me, come lo sarà ieri, come lo sarà la settimana scorsa.
Nel primo pomeriggio passa a trovarmi una donna anziana. Ha un braccio lacero e tumefatto; il puzzo mi fa lacrimare gli occhi, ed è circondata di mosche.
Non possono più sopportare il dolore, Merlino, mi dice piangendo. Le guardo il braccio, nel punto in cui il tasso le ha lacerato la carne con le unghie, e mi viene voglia di allontanare la testa e vomitare. Infine mi costringo a esaminarlo. Ho la sensazione di avere bisogno di qualcosa, ma non so bene che cosa; qualcosa da attaccarmi sul viso, o per lo meno davanti alla bocca e al naso, ma non riesco a ricordare di cosa si tratti.
Il braccio è grosso quasi il doppio rispetto all'altro, e sebbene la ferita sia a metà fra il gomito e la spalla, la donna caccia un grido agonizzante quando le manipolo delicatamente le dita. Voglio darle qualcosa per il dolore. Una visione vaga appare nella mia mente per un attimo, la visione di un oggetto lungo e affusolato con un ago in punta. Ci deve essere qualcosa che io possa fare, penso, qualche cosa che le possa dare, qualche miracolo da me usato quando ero più giovane e il mondo era più vecchio, ma non riesco a ricordare di che si tratti.
Ma non devo limitarmi a mascherare il dolore poiché ormai il braccio è infetto. Mentre sondo, l'odore diviene più forte, e la donna urla. Gang, penso improvvisamente; la parola che descrive la sua condizione comincia con gang... ma vi è anche un'altra sillaba, e non riesco a ricordarla. E anche se la ricordassi, non sono più in grado di curarla.
Ma deve essere sollevata in qualche modo dalla sua agonia. Crede nei miei poteri, sta soffrendo, e il mio cuore è con lei. Mormoro un canto, mezzo sussurrato e mezzo cantato. Lei crede che stia evocando i miei servi del mondo delle tenebre, che stia tirando fuori chissà quale magia per risolvere il suo problema. E dato che, vista la sua grande sofferenza, ha bisogno di credere in qualcosa, in qualsiasi cosa, mi astengo dal riferirle che in realtà non sto facendo altro che chiedere a Dio se, per favore, solo per questa volta, mi fa ricordare ciò che devo ricordare. Una volta, eoni fa, sarei stato in grado di curarla; ridammi quella conoscenza solo per un'ora, o anche un minuto. Non ho chiesto io di vivere a ritroso nel tempo, ma questa è la mia maledizione, e l'ho sempre sopportata ma non è giusto che questa povera donna muoia per questo motivo. Lascia solo che la curi, poi potrai nuovamente saccheggiarmi la mente e strapparmi i ricordi.
Ma Dio non risponde, la donna continua a gridare, e infine ricopro delicatamente la ferita col fango per tener lontane le mosche. Ci dovrebbe anche essere una medicina; si trova in bottiglie (bottiglie? È questa la parola giusta?), ma non so come farla, non ne ricordo nemmeno il colore, la forma o l'aspetto. Do alla donna una radice, mormoro un incantesimo tenendola in mano, le dico che deve mettersela fra i seni mentre dorme, che deve credere nei suoi poteri curativi e che presto il dolore scomparirà.
Lei mi crede - non vi è nessun motivo al mondo per il quale dovrebbe farlo, ma capisco dal suo sguardo che è così - mi bacia le mani, si preme la radice al petto, si allontana e, in qualche modo, per qualche motivo, sembra essere effettivamente sollevata, anche se il puzzo dell'infezione rimane a lungo dopo la sua dipartita.
Poi tocca a Lancillotto. La prossima settimana o il prossimo mese, ucciderà il Cavaliere Nero, ma prima devo benedire la sua spada. Parla di cose che ci siamo detti ieri, cose delle quali non ho alcun ricordo, e io penso a ciò che ci diremo domani.
Fisso lo sguardo nei suoi occhi scuri, poiché io solo conosco il suo segreto, e mi domando se dovrei dirlo ad Arturo. So che combatteranno una guerra per questo, ma non ricordo se sono io il catalizzatore o se è la stessa Ginevra che confessa le sue infedeltà, e non riesco nemmeno a ricordare come va a finire. Mi concentro, cercando di vedere il futuro, ma non vedo altro che una grande città di strutture torreggiami di vetro e metallo, senza Artù o Lancillotto. Poi l'immagine svanisce, e ancora non so se devo andare a riferire ad Arturo il mio segreto o se devo mantenere il silenzio.
Mi rendo conto che è accaduto tutto quanto, che la Tavola Rotonda e i cavalieri e persino lo stesso Arturo saranno presto polvere a prescindere da ciò che faccio o dico, solo che loro stanno vivendo in avanti nel tempo, e ciò è di grande importanza per loro, anche se io ho già visto passare e svanire tutto quanto davanti ai miei occhi.
Ora Lancillotto sta parlando, domandandosi quanto sia forte la sua fede e quanto sia pura la sua virtù. Non ha paura di morire per mano del Cavaliere Nero, ma ha paura di affrontare Dio se il motivo della sua morte si trova dentro di lui. Io continuo a fissarlo, quest'uomo che sente il legame della nostra amicizia sempre più saldo ogni giorno che passa, mentre io scopro di conoscerlo sempre meno ogni giorno che passa. Infine gli appoggio una mano sulla spalla e lo assicuro che vincerà, che ho avuto una visione del Cavaliere Nero riverso a terra sul campo di battaglia mentre Lancillotto solleva la sua spada in segno di vittoria.
"Ne sei certo, Merlino?" mi domanda con tono dubbioso.
Gli dico che ne sono sicuro. Potrei dirgli di più, dirgli che ho visto il futuro, che lo sto perdendo alla stessa velocità con cui imparo il passato, ma lui ha i suoi problemi e anch'io ho i miei, mi rendo conto, poiché man mano che le mie conoscenze svaniscono, mi ritrovo a dover pavimentare la strada per quel Merlino giovane che non ricorderà assolutamente nulla, poiché è lui quello per cui mi devo preoccupare. Ne parlo in terza persona poiché non so nulla di lui, e nemmeno lui ricorderà nulla di me, o di Artù e Lancillotto, o dell'oscura e perfida Morgana, poiché con il passare di ogni giorno e con il lento svolgersi del tempo, sarà sempre meno capace di cavarsela, meno capace anche di definire i problemi che si troverà ad affrontare, per non parlare delle soluzioni a quei problemi. Devo dargli un'arma affinché si possa difendere, un'arma che possa usare e manipolare a prescindere da quanto ricordi di me, e l'arma che ho scelto è la superstizione. Prima operavo miracoli codificati nei libri e nelle leggi naturali, ma ora, mentre i loro segreti scompaiono uno alla volta, sono costretto a sostituirli con miracoli che stupiscono gli occhi e terrorizzano il cuore, poiché solo assicurando il passato posso garantire un futuro, e io ho già vissuto il futuro. Spero di essere stato un buon uomo, mi piacerebbe pensare di esserlo effettivamente stato, ma non ne sono sicuro. Esamino la mia mente, cerco di sondarla alla ricerca di debolezze allo stesso modo in cui sondo i corpi dei miei pazienti, cercando le fonti delle infezioni, ma so di non essere altro che la somma delle mie esperienze, e tutte le mie esperienze sono svanite, quindi dovrò accontentarmi della speranza di non aver disonorato me stesso o Dio.
Quando Lancillotto se ne va, mi alzo e cammino attorno al castello, con la mente piena di strane immagini; immagini sfuggenti che non sembrano aver alcun senso finché non mi concentro specificamente, e allora le trovo del tutto incomprensibili. Vi sono eserciti enormi che si scontrano, eserciti più vasti dell'intera popolazione del regno di Arturo, e so che li ho già visti, che sono stato su quel campo di battaglia, che forse ho addirittura combattuto al fianco di un esercito o dell'altro, ma non riconosco i colori che indossano e le armi che usano mi sembrano magiche, realmente magiche.
Ricordo enormi navi dello spazio, che navigano fra le stelle senza alberi o vele, e per un attimo penso che debba per forza trattarsi di un sogno. Poi mi ritrovo in piedi davanti a una finestra, e osservo le stelle, vedo le superfici rocciose e i colori sbiaditi di mondi distanti, e poi mi ritrovo nuovamente al castello, con addosso una terribile sensazione di acutezza e di perdita, come se sapessi che anche quel sogno non mi visiterà mai più.
Decido di concentrarmi, di costringermi a ricordare, ma nessuna immagine appare nella mia mente, e inizio a sentirmi come un vecchio idiota. Perché lo sto facendo? Era senz'altro un sogno e non un ricordo, poiché tutti sanno che le stelle non sono altro che luci che Dio usa per illuminare il cielo notturno e che sono attaccate a un manto di velluto nero, e nel momento in cui mi rendo conto di ciò, non riesco più nemmeno a ricordare la forma delle navi che viaggiavano nello spazio, e so che presto non ricorderò nemmeno di averle sognate.
Continuo a vagare per il castello, toccando oggetti familiari per rassicurarmi; questa colonna era qui ieri, sarà qui anche domani. È eterna; rimarrà qui per sempre. Trovo un certo conforto nella costanza degli oggetti fisici, oggetti che non sono effimeri come i miei ricordi, oggetti che non possono essere strappati alla terra con la stessa facilità con cui i miei ricordi sono stati strappati a me. Mi fermo davanti alla chiesa e leggo una targhetta incisa. È scritta in francese, e dice che Questa Chiesa era qualcosa da Arturo, Re dei Bretoni. La quarta parola non ha alcun senso per me, e la cosa mi mette in agitazione, poiché sono sempre stato in grado di leggere quella targhetta, e ricordo che domani mattina chiederò a Sir Ector se quella parola significa costruita o edificata, e lui mi risponderà che significa dedicata, e me lo ricorderò per il resto della mia vita.
Ma ora provo un senso di panico, poiché non sto solo perdendo immagini e ricordi, ma sto anche perdendo le parole, e mi domando se un giorno succederà che la gente verrà da me e mi parlerà, e io non capirò nulla di ciò che mi stanno dicendo, limitandomi a fissarli in uno stato di ammutolita confusione. So che finora mi è sfuggita una sola parola, e in francese, ma la cosa mi preoccupa ugualmente, poiché so che in futuro parlerò il francese ottimamente, come del resto il tedesco, l'italiano, e... e so che c'è un'altra lingua che sarò in grado di leggere, parlare e scrivere, ma improvvisamente mi sfugge, e mi rendo conto che un'altra abilità, un altro ricordo, un'altra parte integrante di me stesso è caduta nell'abisso e non sarà mai più ripescata.
Ritorno alla mia residenza, senza guardare mai né a destra né a sinistra per paura di vedere qualche costruzione o qualche artefatto che non trovi nessun posto nella mia memoria, qualcosa che sappia di permanente ma che sia allo stesso tempo a me sconosciuto, e trovo una sguattera che mi aspetta. È giovane e molto carina, e domani saprò il suo nome, me lo rigirerò fra le labbra e mi meraviglierò della melodia che ne scaturisce, anche quando pronunciato dalle mie vecchie labbra. Tuttavia la guardo, e divengo consapevole del fatto che non ricordo chi sia. Spero di non aver mai dormito con lei - ho la sensazione che, man mano che divento più giovane, commetterò la mia buona parte di sconsideratezze - solo perché non voglio ferire i suoi sentimenti, e non ho alcun modo logico per spiegarle che non posso ricordare, che le estatiche sensazioni della notte precedente o della settimana o dell'anno precedente mi sono ancora sconosciute.
Ma non è venuta in veste di amante; è venuta a supplicare il mio aiuto. Ha un figlio, che è nascosto nell'ombra della porta, e ora lo chiama i e questo mi si avvicina con passo malfermo. Lo guardo, e noto che ha un piede deforme. La caviglia è decisamente storta, il piede è rivolto verso l'interno, e il ragazzo evidentemente si vergogna moltissimo di questa sua deformità.
"Puoi aiutarlo?" domanda la serva; "puoi farlo correre come gli altri ragazzini? Ti darò tutto quel che ho, tutto ciò che vuoi, se lo fai diventare come gli altri".
Guardo il ragazzo, poi la madre, poi nuovamente il ragazzo. È giovanissimo, non ha ancora visto nulla del mondo, e vorrei tanto poter fare qualcosa per lui, ma non so assolutamente più che cosa fare. Una volta lo sapevo; verrà un giorno in cui nessun ragazzino dovrà percorrere la sua vita zoppicando fra dolore e umiliazione. So che è così; so che un giorno sarò in grado di curare malattie ben peggiori di un piede deforme; o per lo meno credo di sapere tutto questo, ma al momento l'unica cosa che so per sicuro è che quel ragazzo è nato deforme, vivrà deforme e morirà deforme, e non c'è nulla che io possa farci.
"Stai piangendo, Merlino" dice la sguattera. "La vista di mio figlio ti offende tanto?"
"No" dico "non mi offende affatto".
"Allora perché piangi" chiede lei.
"Piango perché non posso far altro che piangere" replicò. "Piango per la vita che tuo figlio non conoscerà mai, e per la vita che io ho dimenticato".
"Non capisco" dice lei.
"Nemmeno io" le rispondo.
"Questo significa che non puoi aiutare mio figlio?" domanda.
Non so che cosa significhi. Vedo il suo volto che diviene più vecchio, più scarno e più amareggiato, quindi so che verrà a farmi visita ancora molte volte, ma non vedo suo figlio, quindi non so se lo aiuterò, e anche se lo farò, non so come ciò avverrà. Chiudo gli occhi, mi concentro, e cerco di ricordare il futuro. Esiste una cura? Gli uomini zoppicano ancora sulla Luna? I vecchi piangono ancora perché non possono essere d'aiuto? Ci provo, ma è scivolato nuovamente tutto via.
"Devo pensarci sopra" dico infine. "Tornate domani, e forse avrò trovato una soluzione".
"Vuoi dire un incantesimo?" domanda lei con tono speranzoso.
"Sì" dico "un incantesimo".
Lei chiama suo figlio, assieme se ne vanno, e mi rendo conto che tornerà da sola stanotte, poiché sono certo, o quasi certo, che domani conoscerò il suo nome. Sarà Marian o Miranda, qualche nome che inizia con M, oppure Elizabeth. Ma credo, ne sono quasi sicuro, che ritornerà, poiché ora il suo volto è più reale per me di quanto non lo fosse mentre l'avevo davanti. O forse non me lo sono ancora trovato davanti? Diventa sempre più difficile dividere gli eventi dai ricordi, e i ricordi dai sogni.
Mi concentro sul volto di questa Miriam o Miranda, e vedo un altro volto, un viso splendido, con occhi azzurri e chiari, zigomi alti, una mascella forte e lunghi capelli ramati. Questo volto significava qualcosa per me; quando lo vedo vengo percorso da una sensazione di calore, affetto e perdita, ma non so perché. Una sensazione istintiva mi dice che questo viso significava, o significherà, per me più di qualsiasi altro viso, che mi porterà felicità e tristezza come non le ho mai conosciute. Vi è un nome che si associa a questo viso, e non è né Marion né Miriam (o sì?); cerco freneticamente di afferrarlo, ma più ci provo e più mi sfugge.
La amavo, la proprietaria di quel volto? Porteremo gioia e conforto l'uno all'altra? Daremo alla luce bambini sani che ci conforteranno nella vecchiaia? Non lo so, poiché la mia vecchiaia è già passata, la sua deve ancora venire, e ho dimenticato ciò che lei ancora non sa.
Mi concentro sull'immagine del suo volto. Come ci incontreremo? Che cosa mi porterà a te? Ci devono essere centinaia di piccole caratteristiche, difetti e virtù, che ti renderanno cara ai miei occhi. Perché non riesco a ricordarne neanche uno? Come vivrai, e come morirai? Sarò lì a darti conforto, e una volta che ti avrò persa, chi ci sarà per dar conforto a me? Non è forse molto meglio che non riesca a ricordare le risposte a queste domande?
Ho la sensazione che, se mi concentro abbastanza, i ricordi torneranno. Nessun viso è mai stato tanto importante per me, nemmeno quello di Arturo, quindi elimino ogni altro pensiero, chiudo gli occhi ed evoco il suo viso (Sì, evoco; sono o non sono Merlino?); ma ora non sono più tanto sicuro che si tratti effettivamente del suo viso. La mascella era così o cosà? I suoi occhi erano veramente così chiari, e i suoi capelli così ramati? Sono tormentato dal dubbio, e la immagino con occhi di un azzurro ancora più chiaro, capelli più corti e biondi, un naso più delicato; allora mi rendo conto che non ho mai visto quel viso prima, che mi sono lasciato illudere dai miei stessi dubbi, che la mia memoria non mi ha completamente abbandonato, e tento ancora una volta di dipingere il suo ritratto sulla tela della mia mente, ma non vi riesco - le proporzioni sono sbagliate, e i colori sono strani - e anche così, mi attacco a questa approssimazione, poiché una volta persa, sarà persa per sempre. Mi concentro sugli occhi, rendendoli più grandi, più azzurri, più chiari, finché finalmente sono di mio gradimento, solo che ora appartengo a un viso che non conosco più, il suo vero volto ora è elusivo quanto il suo nome e la sua vita.
Mi appoggio allo schienale della sedia e sospiro. Non so esattamente quanto tempo sono rimasto qui seduto, cercando di ricordare un volto, quando sento un colpo di tosse, alzo lo sguardo, e vedo Arturo in piedi davanti a me.
"Dobbiamo parlare, mio vecchio amico e mentore" dice prendendo una sedia e sedendosi davanti a me.
"Dobbiamo?"
Annuisce con decisione. La Tavola Rotonda si sta smembrando, dice con tono preoccupato. Il regno è in scompiglio.
"Devi far valer i tuoi diritti e ristabilire l'ordine, gli dico, domandandomi di che cosa stia parlando.
"Non è facile" mi risponde.
"Non lo è mai" gli dico.
"Ho bisogno di Lancillotto" dice Arturo. "È il migliore fra loro e, a parte te, è il mio più vicino amico e consigliere. Crede che non sappia ciò che sta facendo, ma io lo so, sebbene faccia finta di no".
"Che cosa ti proponi di fare in proposito?" gli domando.
Si volta verso di me, gli occhi tormentati. "Non lo so" dice. "Li amo entrambi, e non voglio arrecar danno a nessuno dei due. Ma ciò che conta è la Tavola Rotonda, non io. Lancillotto o la regina. L'ho costruita affinché durasse per l'eternità, e deve sopravvivere".
"Nulla dura in eterno" dico.
"Gli ideali sì" replica con convinzione. "Vi è il Bene e vi è il Male, e coloro che credono nel Bene devono alzarsi in piedi e farsi contare".
"È questo ciò che hai fatto?" gli domando.
"Sì" dice Arturo "ma fino a questo momento la scelta è stata facile. Ora non so che strada prendere. Se smetto di fingere di non sapere, sarò costretto a uccidere Lancillotto e a mettere al rogo la regina, e certamente una cosa simile distruggerebbe la Tavola Rotonda". Fa una pausa e mi guarda. "Dimmi la verità, Merlino" mi dice. "Lancillotto sarebbe miglior re di me? Lo devo sapere, perché se posso salvare la Tavola Rotonda, sono disposto a farmi da parte, lasciando tutto a lui; il trono, la regina, Camelot. Ma ne devo essere certo".
"Chi può dire ciò che ci serba il futuro?" replico.
"Tu puoi" dice lui. "Per lo meno, quando ero giovane mi dicesti che eri in grado di farlo".
"Lo dissi?" domando incuriosito. "Devo essermi sbagliato. Il futuro è insondabile, come lo è il passato".
"Ma tutti conoscono il passato, dice lui. È il futuro che gli uomini temono".
"Gli uomini temono l'ignoto, ovunque esso si trovi" dico.
"Io credo che solo i codardi temano l'ignoto" dice Artù. "Quando ero più giovane e mi stavo dedicando alla fondazione della Tavola, non avevo tempo per aspettare il futuro. Ricordo che mi svegliavo un'ora prima dell'alba e fremevo di eccitazione nel mio letto, impaziente di vedere quali nuovi trionfi mi avrebbe portato la giornata".
Improvvisamente emette un sospiro, e sembra che sia invecchiato davanti a miei occhi. "Ma non sono più quell'uomo" continua dopo una pausa di riflessivo silenzio "e ora temo anch'io il futuro. Sono preoccupato per Ginevra, per Lancillotto e per la Tavola Rotonda".
"Non è questo ciò che temi" gli dico.
"Che cosa intendi?" mi domanda.
"Tu temi ciò che temono tutti gli uomini" dico.
"Non ti capisco" dice Arturo.
"Sì. mi capisci" replico. "E ora temi persino di ammettere le tue paure".
Inspira profondamente e mi fissa negli occhi con sguardo fermo, poiché è un uomo realmente coraggioso e onesto. "Va bene" dice infine. "Ho paura per me".
"È naturale" dico io.
Scuote il capo. "Non la sento molto naturale come cosa, Merlino" dice. "Ho fallito. Merlino. Tutto si sta dissolvendo attorno a me; la Tavola Rotonda e i motivi per i quali è stata creata. Ho vissuto la migliore vita che potevo vivere, ma evidentemente non l'ho vissuta abbastanza bene. Ora l'unica cosa che mi rimane è la mia morte". Fa una pausa, evidentemente a disagio. "E temo che non morirò meglio di quanto abbia vissuto".
Il mio cuore è con lui, questo giovane uomo che non conosco ma che un giorno conoscerò, e gli poso sulla spalla una rassicurante mano.
"Io sono un re" continua "e un re deve perlomeno avere una morte nobile e onorevole".
"Morirai bene e in maniera onorevole, mio signore" gli dico.
"Credi? Morirò in battaglia, combattendo per ciò che credo quando gli altri mi avranno abbandonato... o morirò come un povero vecchio, bavoso, incontinente, inconsapevole di ciò che lo circonda?"
Decido di tentare ancora una volta di scrutare nel futuro per tranquillizzare la sua mente. Chiudo gli occhi e guardo avanti, ma invece di un vecchio scemo e delirante, vedo un infante scemo e piagnucolante, e quell'infante sono io.
Arturo tenta di guardare avanti, verso quel futuro che tanto teme, e io, viaggiando nella direzione opposta, guardo avanti verso il futuro che io tanto temo, e mi rendo conto che non vi è differenza, che questo è lo stato umiliante nel quale l'uomo entra ed esce da questo mondo, e che sarà meglio che impari a godere del tempo che vi trascorre, poiché questo è tutto ciò che ha.
Dico ad Arturo che morirà della morte che desidera, finalmente se ne va, e rimango solo con i miei pensieri. Spero di essere in grado di affrontare il mio destino con lo stesso coraggio con il quale Arturo affronterà il suo, ma dubito che ci riuscirò, poiché Arturo può solo immaginare il suo destino, mentre io vedo il mio con spaventosa chiarezza. Tento di ricordare come va effettivamente a finire la vita di Artù, ma non trovo nulla, è tutto dissipato nelle nebbie del tempo, e mi rendo conto che mi rimangono ben pochi pezzi di me stesso da perdere prima di trasformarmi in quell'infante piangente e ignorante, creatura di soli appetiti e paure. Non è la fine stessa che mi disturba, ma la consapevolezza della fine, la terribile coscienza di ciò che mi accade inevitabilmente mentre sto lì a guardare, inerme come un osservatore davanti alla disintegrazione di tutto ciò che mi ha reso Merlino.
Un giovanotto passa davanti alla mia porta e mi saluta. Non ricordo di averlo mai visto prima d'ora.
Sir Pellinore si ferma per ringraziarmi. Per cosa? Non ricordo.
È quasi buio. Sto aspettando qualcuno. Credo che si tratti di una donna; riesco quasi a raffigurarmi il suo volto. Credo che dovrei rimettere in ordine la camera da letto prima che arrivi, e improvvisamente mi rendo conto che non mi ricordo dove si trova la camera da letto. Devo scrivere tutto finché possiedo ancora il dono della scrittura.
Tutto sta scivolando via, trasportato dal vento.
Per favore, qualcuno mi aiuti.
Ho paura.

FINE