Red Alert Project
Utopia & Dystopia
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IL TRANSUMANESIMO SFOCIA IN UN'APORIA? - Federica Tregnago
Bombagiu 2020 Oct
Il 26, 27, 28 febbraio 2020 si è svolta a Roma la Call for an AI ethics - Per un'intelligenza artificiale umanistica. Primi firmatari sono stati: Brad Smith, Presidente Microsoft; John Kelly III, Vice Presidente IBM; Dongyu Qu, Direttore Generale della FAO; Paola Pisano, Ministro per l'Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione del Governo Italiano e Mons.Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, promotrice dell'iniziativa.
Per i Cristiani post-conciliari (o dovremmo dire... bergogliani), si sarà parlato di tecnologia basata sulla fede. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo; è vero, mantiene le promesse. La vita dopo la morte? In ultima istanza, si.
Per tutti gli altri, filantropi, fondazioni, aziende e, ad ampio raggio, vari governi tramite finanziamenti più o meno dichiarati, questa idea, o ciò che sottende all'oggetto della Call, è una rivelazione. Le persone d'eccellenza in varie discipline capiscono che adesso è il momento giusto. Non solo dal punto di vista scientifico e tecnologico, ma anche da quello politico e delle strategie militari. Un altro modo di pensare e di vivere.
E per i fruitori fuori dai giochi? Dalle immagini disponibili, la New Hall of the Synod era strapiena. Centoventi accademici assiepati e soddisfatti. Scuole chiuse, ma ovunque facce ridenti e ottimismo da PIL in crescita: distanti galassie dalle parole "mascherina" e "distanziamento sociale" di soli dieci giorni dopo. Verrebbe da pensare che con i DPCM già in vigore non sarebbe stato possibile un documento condiviso di 44 pagine e presente in rete, ma schierarsi è obsoleto; le opzioni binarie appartengono al passato, improntato sul carbonio. Meglio affidarsi all'insalubre silicon (valley), visto che la razza umana cerca la propria morte e corriamo dritti verso ciò che più ci spaventa.
Quanto a lungo possiamo infatti distogliere lo sguardo da quello che ci fa più paura, cioè dalla morte? È affascinante per l'Umanità caduca alle prese con bollette, mutui e scadenze l'idea di come questi filantropi miliardari, con l'aiuto dell'AI, riescano a mettersi in competizione con il Caso e il Destino nello sconfiggere la vecchiaia, la malattia e, appunto, la morte.
Scenario dell'algoritmo buono e giusto. Sebbene reduci dal decennio nero 2010-2019 di tagli alla Sanità segnato da definanziamento (37 mld in meno) e sottodimensionamento di strutture e personale sanitario (taglio di 70 mila posti letto e chiusura di 359 reparti), dalla creazione di grandi poli ospedalieri e dal depauperamento della medicina del territorio, non dobbiamo disperare: l'implementazione dell'AI nell'assistenza clinica sarà meno costosa e capace di sostituire quel piccolo dittatore in camice bianco che è il medico. Lunghi anni di studio e preparazione l'hanno reso altero e imperscrutabile come una scatola nera nelle sue decisioni. L'introduzione dell'AI romperà questo classismo nei rapporti col paziente e i suoi bisogni. Tramite sofisticati test molecolari di una singola goccia di sangue, infatti, avremo modelli predittivi in termini di diagnosi, prognosi e trattamento estremamente accurati, strettamente personalizzati e trasparenti nel processo decisionale; e il medico vi si dovrà adeguare, se vorrà continuare ad avere il rispetto e la fiducia dei propri pazienti. Da dove prenderemo a prestito questi modelli predittivi? Da un ambito che gode di ottima salute, il settore finanziario, e riguarderanno la medicina personalizzata, il sequenziamento genico, la medicina delle grandi emergenze e delle catastrofi, quella delle terapie intensive, la diagnostica per immagini, l'assistenza ambulatoriale e la medicina spaziale. Fondamentalmente, chi non apprezzerebbe l'impatto benefico sulle nostre vite di artroprotesi, pancreas artificiali, stent coronarici o protesi acustiche? Tutti possiamo superare i nostri limiti grazie alla tecnica. Nel mezzo, una ridefinizione dei ruoli di medico e paziente, molti posti di lavoro persi e la rassicurazione che gli umanoidi NEON e Ai-Da ci restituiranno ciò che ci avranno rubato come dei novelli Robin Hood. Benediremo l'etica soggiacente alle fondazioni che sosterranno tutti questi costi, perché tutto ciò infarcirà l'etica dei nostri interrogativi su dove andremo a finire e quale sarà il nostro futuro facendoci sentire dalla parte giusta della Storia.
Scenario algoritmico-marxista: quando manderemo i robot a lavorare al posto nostro e ci terremo il compenso, o li impiegheremo a casa, come domestici non pagati, o li manderemo a diserbare i campi nella nostra fattoria biologica, noi umani saremo una sorta di nobiltà decaduta. Avremo una splendida dimora, chiamata passato, che cade a pezzi. Avremo un pezzo di terra, chiamato pianeta, che abbiamo trascurato. E avremo dei bei vestiti e molte storie da raccontare. Saremo l'aristocrazia al tramonto.
Scenario nostalgico dell'ancient regime, o algo-reazionario: i robot lavoreranno per noi - dal ceco rabota, "lavoro forzato" - e svolgeranno per noi le mansioni più degradanti perchè l'ottundimento di massa sarà sempre più diffuso, e diventerà totale. Avremo popolazioni di zombie che saranno organizzate non da altri uomini, ma da sistemi automatizzati. "A Clockwork orange" di Burgess sarà la descrizione di un piccolo particolare.
Come lavoratori disoccupati a casa e per giunta drogati, potremo dunque finalmente mangiare e bere godendoci il frutto delle nostre fatiche senza essere condiderati degli empi epicurei? A quel punto no; la nostra inutilità sarà solo una marchiatura superflua: neppure dalle parti del monte Krapack, i più ravveduti di noi potranno anche solo avviare una piccola, utile attività commerciale. Diventeremo ridicoli, sia come umani che come schiavi.
Scenario totalmente cerebrale di ricerca e collegamento, o algo-euristico: non potendo vivere per sempre in forma umana su questa terra, solo se rinunceremo al corpo così com'è potremo seriamente colonizzare lo spazio. Una volta che ci saremo liberati dei nostri corpi, potremo sopravvivere in ogni atmosfera e ad ogni temperatura, far fronte alla carenza di cibo e acqua, coprire ogni distanza. Saremo l'occhio rosso paranoide di HAL 9000 o le creature della luce dei codici gnostici di Nag Hammadi che torneranno fra le braccia di Cristo e Sofia?
Perché dunque curarci dei corpi se non ne siamo costretti, se il mondo è una simulazione messa in scena da altri e grazie all'AI potrem(m)o tornare alle origini come essenza, come luce?
È ormai leggendaria la dieta seguita dal restless genius di Google, Ray Kurzweil, a base di bacche, cioccolato scuro nel caffè, salmone affumicato e sgombro, latte di soia, tè verde, porridge e almeno cento pillole al giorno per mantenere in salute cuore, occhi, cervello ed apparato riproduttivo. E che dire di Max More, presidente e amministratore delegato della Alcor, il più grande dei quattro impianti di crioconservazione al mondo che, davanti ai giganteschi dewars in acciaio dove sono conservati in azoto liquido più di un centinaio di corpi in attesa della "resurrezione", ammette candidamente di sperare di evitare di essere conservato? L'ideale per me sarebbe di mantenermi in buona salute e aver cura di me stesso, finché la ricerca sull'estensione della vita non ci permetterà di raggiungere la velocità di fuga verso la longevità.
Senza contare chi ritiene transumanistico il messaggio del Buddha: la vita è sofferenza, ma c'è una via che porta alla fine della sofferenza, coi buddhisti Zen dell'esistenza incarnata, che non separano mente e corpo, e quelli Theravada, la più antica tradizione, per cui noi non siamo il nostro corpo, trattandosi di qualcosa che va rifiutato, disprezzato e trasceso. Resta da vedere quanto trascendenti fossero i mille buddhisti, nella "Divisione SS Wiking", che a Berlino si sacrificarono ritualmente alla notizia che Hitler era stato probabilmente ucciso dai sovietici in arrivo. E che cosa misero sul piatto, a contraltare dell'anima, Himmler & Soci, allorché Radreng Rinpoce, autorità tibetana, scrisse un messaggio al "chiarissimo signor Hitler" e gli inviò dei regali (un mastino tibetano, una moneta d'oro e una mantello del Dalai Lama) sancendo così l'appoggio del Tibet ai Tedeschi per uno dei loro piani d'invasione (mai realizzato) dell'India britannica.
Agli occhi del Reichsführer, i monaci buddhisti, come rappresentanti di un ramo della razza nordica emigrata in Asia durante la preistoria, erano vicini alla natura, come tutti i germani delle origini. Convinti che tra l'uomo e la natura non esista una differenza rilevante, la loro credenza nella migrazione delle anime non era che affermazione religiosa dell'unità di tutto il vivente, dall'uomo fino agli innocenti lombrichi schiacciati durante le passeggiate serali.
Il sostegno tibetano ai principi che animavano la Società di studi per la preistoria dello spirito, Ahnenerbe, la quale sosteneva che gli antichi Ariani provenissero dall'Himalaya e che i più saggi tra loro vi avessero installato il quartier generale di Agarthi, configurava dunque un anelito allo sviluppo dell'esistenza incarnata?
Una crescita, implementazione, miglioramento dello Spirito suffragata da un corpo di razza pura per il tramite di una tecnica politica e strategica come un'altra - ancorché opinabile nel suo risvolto storico? Ma la tecnica non è mai solo tecnica. È sempre protensione oggettiva a liberarsi da condizionamenti materiali, quindi ineluttabilmente portata ad inficiare l'equilibrio pattizio fra essere umano e ambiente. Tant'è che la valorizzazione degli animali, nei testi nazisti e alla prova dei fatti, è sempre proporzionale alla potenza vitale e all'aggressività dell'animale in questione. Il barboncino curato ed arricciato, ma incapace di provvedere a se stesso senza l'aiuto umano, viene deriso al cospetto dei cervi maschi dominanti che si impongono nella lotta per la riproduzione.
Di fronte al fallimento storico di restituire l'uomo alle leggi della natura, strappandolo all'abbraccio considerato mortifero dell'acculturazione ebraico-cristiana - ovvero le leggi dell'uomo, un'involuzione in senso privatistico del bene comune non è che un rifugio, uno sbocco consequenziale. Ovvero: la terra sparisce troppo in fretta e non possiamo aspettare che siano i governi a proteggerla, eletti da maggioranze che se ne fregano della biodiversità. Invece i miliardari ci tengono. Hanno interesse a non sputtanare del tutto il pianeta, perché loro e i loro eredi saranno gli unici abbastanza ricchi da goderselo. Problema capitale è semmai come "qualità della vita" e "salvaguardia della natura" siano a questo punto schiacciate dalla forza del numero, dato che la popolazione continua a crescere. Un infestante formicaio protosociale, quest'umanità, che molti passi deve ancora compiere per emulare i membri delle colonie di insetti altamente sociali organizzati in due caste fondamentali: una rappresentata dagli individui riproduttivi (uno solo o alcuni per colonia); l'altra costituita da un maggior numero di operai/e che eseguono il lavoro in modo altruistico e che di regola non cercano di riprodursi per il bene comune.
Leggiamo allora di come la sovrappopolazione rientrava senz'altro nel dibattito pubblico negli anni Settanta, con Paul Erlich [autore di "The Population Bomb", partigiano di una drastica riduzione della popolazione mondiale, anche con l'aborto selettivo], il Club di Roma e la Crescita Demografica Zero. E poi d'un tratto è scomparsa, è diventata innominabile. In parte a causa della Rivoluzione Verde, con le carestie sempre numerose ma non più apocalittiche. In parte per il controllo delle nascite, non proprio di buon gusto. La Cina totalitaria con la legge del figlio unico e Indira Gandhi con le sterilizzazioni forzate. I progressisti si sono spaventati e hanno taciuto, mentre i conservatori se ne sono sempre fregati, perché la loro ideologia è tutta basata sull'interesse personale a breve termine e sul piano divino. E dunque il problema è diventato una specie di cancro che ti cresce dentro, e tu lo sai ma non decidi di pensarci.
Ricapitolando: tanta gente che conosco è stata licenziata negli ultimi sei mesi e non ha i soldi per comprarsi il prossimo Iphone. Hanno bisogno anche del pane, e hanno bisogno anche di una casa. Dovrebbero pure disperarsi o darsi fuoco al pensiero delle emissioni globali di CO2, ai genocidi e alle carestie in Africa, al sottoproletariato senza prospettive e radicalizzato nel mondo arabo, allo sfruttamento dissennato degli oceani, agli insediamenti illegali in Israele o ai cento milioni di poveri nel Pakistan nucleare?
È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile. L'ecologia ambientale dovrebbe avere come recto della stessa medaglia l'ecologia della persona, suo verso. In fondo, non siamo tutti fratelli? A meno che il contrappasso di uno sviluppo tecnico non sia un sottosviluppo morale, ed ecco allora la dimensione trascendentale - lo so che non c'è nessun Dio. Una persona è soltanto il proprio corpo, e il sesso è il massimo dell'intimità - ridursi a feticcio linguistico - è Dio che ho visto in quelle fotografie [immagini snuff di un ragazzo che sembra essere mutilato in modo innominabile, N. d. A], e quando immagino di smembrarti, per esempio, comincio a sentirmi così. Per me è qualcosa di religioso. Come i pazzi, che dicono di aver visto Dio.
Oggi come ieri, la Finanza presentabile per gli uffici stampa allestisce il fondale: fissata sulla caduta di euro e dollaro non esita a strozzare le economie occidentali e, pur consapevole che i maestri del consumo sono a tutt'oggi i giovani europei e che accanirsi su di loro fino a renderli disperati significa gettare il consumismo stesso nel caos, finge di non accorgersi di segare l'albero su cui sta appollaiata.
Provvedono Kurzweil e seguaci a mettere in scena l'epopea degli Umani nuovi: mappato il genoma, con una nanotecnologia in grado di disattivare dei geni e aggiungerne di nuovi, riorganizzeranno la materia e l'energia a livello molecolare attraverso le tecnologie informatiche. Allora i filantropi saranno in grado di mandarci per email un tostapane, un panino, una camicia o un pannello solare o un elemento di costruzione o di trasporto. Prodotti fisici si trasmuteranno in file informatici, allegabili via email.
Non ci sarà Grande Depressione o recessione capace di influenzare la crescita esponenziale dell'AI perché la deflazione dei prezzi sarà la morfina per un consumismo moribondo, o per i suoi vecchi cascami.
L'economia globale sta andando a rotoli e alla gente non gliene potrebbe fregare di meno di quello che succederà nel prossimo decennio? Acquisteremo a poco prezzo prodotti eccezionali - magari un tempo di gran lusso - perché il prodotto, nel frattempo, saremo diventati noi. L'ennesima ubriacatura di libertà. Del resto al cervello basta il gas prodotto dalla digestione del vino per ubriacarsi, mica il vino in sé. Il principio di deflazione che mantiene l'inflazione sotto controllo.
In tutto questo copione, il vaccino anti Covid 19 è come "la pistola di Cechov" nella drammaturgia. Se ne intuisce il senso dopo pagine di apparente casualità e monotonia nell'infinita guerra per Tutto e fra Tutti. Uno strumento è uno strumento nella misura in cui un'equazione è tale perché si può leggere in entrambi i modi. Di conseguenza, in quanto mezzo per immunizzare e salvare vite dal vaiolo e dalla polio - a titolo di esempio, vale anche il suo contrario, giusto?
Invero, le prove generali dei predecessori anti-Covid - Tamiflu, Pandemrix, Relenza, avevano fatto pensare che non si trattasse di un buon espediente per un cambio di paradigma. Occorrevano allora effetti speciali come la "sottomissione" per decreto (lockdown), e contromisure economiche da divide et impera/solve et coagula per "educare" il formicaio e mettere una pezza al buco nero del debito speculativo mondiale.
Ora, il villaggio globale ha messo in connessione tutti, ma sembra che gli organismi di controllo sanitario internazionali (OMS) non si siano mai preoccupati dell'igiene del Paese che fornisce al mondo occidentale un'elevatissima parte della sua produzione per i nostri consumi.
Inoltre, l'istituto di virologia di Wuhan indaga su virus ad alta virulenza come la SARS14, l'influenza H5N115, l'encefalite giapponese 16 e da zecche, febbre tifoidea, brucellosi, peste, botulino, febbre gialla e dissenteria: quasi tutti agenti patogeni per un paese che sostiene in via partitica anche ad occhi esteri la Biological Warfare, secondo un rapporto del Mossad del 2015. In caso di errore umano non sarebbe bastato commercializzare l'antidoto, come da protocollo per ogni assemblaggio di sequenze genetiche in un'installazione a rischio biologico col massimo livello di sicurezza (P4)?
Secondo lo storico Harari, è probabile che gravi epidemie continueranno a mettere in pericolo il genere umano anche in futuro solo se l'umanità stessa le creerà, in nome di qualche ideologia spietata. Assodato quindi che si cura il malato e non la malattia, e che quello che abbiamo è qualcosa con un tasso di mortalità molto basso e un alto contagio, il transumanista filantropo avrebbe dovuto incitare le masse a farsi forza da sé. "Essere una macchina" nel senso di rafforzare in maniera sopraffina l'unico strumentario che ci ha permesso di arrivare sin qui dopo migliaia d'anni e disavventure di ogni tipo: il Sistema Immunitario.
In ultima istanza, qualunque cosa sia oggi Covid-19 - il prodotto di asimmetriche regole igienico sanitarie fautrici di mutazioni naturali, una chimera ricombinante incidentalmente a piede libero, il virus giusto al momento giusto o un'operazione di identità digitale per tutti, esso presiede alle nostre vite come potente racconto. In un mondo in cui è possibile esser vivi senza religioni, senza legami familiari, senza ideologia o consapevolezza di classe o politica o senso storico, grazie all'invasione della vita privata da parte dell'AI, rappresenta il nuovo collante fatto di paure, angosce e speranze che unisce percorsi narrativi esistenziali stanchi, noiosi e perfettamente congrui alle medie demografiche. Percorsi talmente banali da spingere al disprezzo per se stessi - mascheramento che rende indistinguibile l'unicità di ogni volto, abolizione della gestualità cameratesca o consortile, l'altro da sé visto come «untore», nella speranza di ottenere una qualche forma di trascendenza grazie ad un'entità mutante e minacciosa.
In un paesaggio disumano che ha per stimmate il desiderio di ricchezza senza sforzo, il sesso distaccato dalle emozioni, il sovraccarico informativo, la convinzione che assumere determinate sostanze possa modificare l'aura del proprio corpo o il proprio carattere, il disinteresse per la manutenzione periodica della democrazia, l'ignoranza consapevole della storia, le manipolazioni corporee, l'invidia del corpo, la convinzione che lo spettacolo sia la realtà, il vivere per interposta persona tramite le celebrità, il rifiuto di gerarchizzare i valori e quello deliberato di riflettere, Covid-19 si dispiega per immagini (la fila di bare sui camion militari, i pazienti intubati) che servono a rinnovare la fede in un nuovo percorso narrativo individuale. I cambi di passo sono sempre prima di tutto cambi di racconto. Accorgersi di avere tutto e che quel tutto poggia su un terreno di vita anestetizzato e privo di significato è come il cervello impiantato in un substrato tecnologico e mandato nello spazio.
FINE
SOCIAL MEDIA DEHUMANIZES PEOPLE, DISRUPTS SOCIAL FABRIC & DESTROYS DEMOCRACY - Graham Hryce
Tfp 2020 Oct
An important new Netflix documentary, The Social Dilemma, uses former Silicon Valley insiders to lay bare the existential threat Big Tech poses to civilization. It's much more than a dilemma. The Social Dilemma is a remarkable documentary about social media platforms and their two billion users, and may well be the most important documentary made in America for decades.
The documentary is a radical, insider-based critique of social media and the large tech companies that created it - and continue to profit handsomely from it (especially given that they are monopolies and pay little or no tax in many countries). Directed by American filmmaker Jeff Orlowski, The Social Dilemma features interviews with a number of former tech giant executives who created the technologies and business model that underpin the social media empire. Social media has only been with us for just over ten years and most of the interviewees are in their thirties.
Tristan Harris (a former Google design ethicist) and Jaron Lanier (a computer scientist) - two of the interviewees - both believe that social media and the tech leviathans have created an "existential threat" to those western societies in which they have been permitted to flourish unchecked. They believe that social media platforms dehumanize their customers, disrupt the social fabric and are destroying democracy. The critique is all the more compelling because it is perhaps only social media and big tech insiders that have a comprehensive understanding of how the system was created and operates. Technological changes have always attracted criticism. Gustave Flaubert, the nineteenth century novelist, disliked railways because he took the view that they "permitted more people to move about, meet and be stupid together".
But this documentary is much more than a simple critique of one particular technological advance. Rather, Orlowski argues that the technology underpinning social media differs qualitatively from all earlier technological developments, and that this gives rise to serious social and political consequences. Railways, for example, were a mere "tool" that enabled people to travel more widely - they did not dehumanize their customers; nor were they an existential threat to western society. This qualitative difference, the documentary argues, is a result of the unique technology and business model employed by the social media behemoths. According to Orlowski, the technology utilized by social media is inherently addictive and manipulative, and involves a wide-ranging surveillance of its customers of a kind previously unimaginable. There is much force in this analysis.
Many users of social media are undoubtedly addicted to it - observe the compulsive way in which people use their phones in public. And, as the documentary points out, there are only two industries that describe their customers as "users", the tech industry and the drug industry. Social media is clearly manipulative. Excessive use is encouraged by various "growth techniques" such as tagging photos and inviting friends. The tech giants are in constant contact with their users, bombarding them with information tailored to suit their prejudices, together with endless advertisements. Algorithms enable the extraordinarily precise targeting of users.
And there is no doubt that social media engages in covert, wide-ranging and ongoing surveillance of users. Every transaction, click and post of every user is monitored, and mountains of data are accumulated daily in underground computer vaults in Silicon Valley. Some years ago, author John Lanchester noted that "Facebook is the biggest surveillance-based enterprise in the history of mankind... what Facebook does is watch you, and then use what it knows about you and your behaviour to sell ads".
This brings us to the social media business model. By monitoring their users, the big tech companies accumulate vast amounts of data that enables them to attract advertisers - who are willing to pay large sums for the precise targeting that only the tech giants can provide. This is why advertisers have turned their backs on traditional media companies - who simply cannot offer them the same degree of precision targeting. In effect, the tech behemoths sell the lives of their users to their advertisers - who are willing to pay billions of dollars for them. In just under 20 years, the tech giants have become the largest corporations in America, and they grow more prosperous by the day.
What, then, are the consequences of this for American society, as Orlowski sees them? At a personal level, the tech giants are dehumanizing their own users. Social media has replaced genuine human contact with abstract virtual connections that encourage selfishness, narcissism and anti-social behavior. Addiction to pornography has replaced dating. Many social media users have become incapable of engaging in face-to-face conversations.
Social media users need constant approval and strive after "fake, brittle, empty popularity". They become immersed in the vapid popular culture that the tech giants unceasingly promote to their users on behalf of their advertisers. Many users are incapable of reading a book or distinguishing between fake news and real news.
Bullying and so-called "hate-speech" are now common modes of social media interaction. Social media has also stripped away all vestiges of privacy from its users. Orlowski notes the psychological consequences of these changes - including a lack of genuine personal autonomy and, more disturbingly, a dramatic increase in the rates of teenage depression, self-harm and suicide (especially amongst girls) in America since 2011. It is interesting to note that many of the interviewees in the documentary state that they no longer allow their children to utilize social media - and it may well have been its effect on their children that caused them to begin to become critical of it. The documentary suggests that the real victims of social media are, perhaps not surprisingly, its most avid users - teenagers. For no other reason than this, every parent should watch The Social Dilemma.
The documentary also analyzes a number of more general social and political consequences, including "the collapse of a shared understanding of reality"; the creation of a "post-truth" world; a resurgence of conspiracy theories; the intensification of "the culture wars"; increased political polarization; and - most importantly - the opportunities that social media offers to all political parties to manipulate elections. It is this last consequence - which flows from social media's unique ability to accurately target individual voters and their prejudices - that constitutes the most serious threat to democracy.
It is true that some of these trends predated the creation of social media, but recent events in America make it clear that, at the very least, social media and the tech giants have seriously exacerbated them over the past ten years. The Social Dilemma is a political tract in the tradition of the American Progressive movement and Lincoln Steffens and his muckrakers. It is a thoughtful attack on a serious social problem and the powerful economic interests behind it.
Orlowski, correctly I think, firmly rejects Facebook CEO Mark Zuckerberg's contention that the tech giants are capable of reforming social media or themselves. His solution to the problem is increased government control and regulation. Whether or not this is a viable solution remains to be seen, although there have been some promising signs in this direction recently. At a time when much of what appears on Netflix and other American media outlets is crude propaganda (Orlowski could easily have made yet another documentary on alleged Russian interference in American elections), The Social Dilemma stands out as a forceful critique of entrenched economic interests, whose greed is tearing American society apart.
Flaubert was wrong about railways. By promoting travel, trade and a wider diffusion of culture, railways dispelled ignorance. But with a little amendment, his criticism can be adapted to accurately describe the effect of modern social media platforms: "They permit more people not to move about, not meet and be even more stupid together".
THE END
THE GLOBAL ELITE HAVE FAR MORE CONTROL OVER US - Michael Snyder
InfoWars 2020 Aug
No matter where you fall on the political spectrum, you probably agree that the global elite have too much power and influence. It has been said that "money is power", and today that seems to be more true than ever. Those at the very, very top of the pyramid dictate the rules of the game for the rest of us, and there isn't too much that the rest of us can do about it. When we talk about how the global elite dominate our lives, the focus tends to be on how they influence national governments, but the truth is that is one of the areas where the global elite have the least control. I know that may sound strange, but I believe that things will become clearer by the end of this article.
I would submit that corporations are the primary vehicle that the elite use to control our lives. In fact, many global corporations are now larger and more powerful than most national governments, and collectively the network of global corporations that dominates the planet is far larger and far more powerful than any single national government.
A number of years ago, a remarkable study was conducted that closely examined the interconnecting relationships of major corporations all over the world. That study discovered that a network of 1318 enormous companies dominated the global economy, and it also found that 147 colossal corporations at the core of that web formed a "super-entity" that controlled 40 percent of the entire network. Each of the 1318 had ties to two or more other companies, and on average they were connected to 20. What's more, although they represented 20 per cent of global operating revenues, the 1318 appeared to collectively own through their shares the majority of the world's large blue chip and manufacturing firms - the "real" economy - representing a further 60 per cent of global revenues.
When the team further untangled the web of ownership, it found much of it tracked back to a "super-entity" of 147 even more tightly knit companies - all of their ownership was held by other members of the super-entity - that controlled 40 per cent of the total wealth in the network. "In effect, less than 1 per cent of the companies were able to control 40 per cent of the entire network", says Glattfelder. Most were financial institutions. The top 20 included Barclays Bank, JPMorgan Chase, and The Goldman Sachs Group. Of course at the very top are the ultra-wealthy individuals that own and control the gigantic corporations that make up the "super-entity". This is why our major corporations all seem to have the same values. At the very top their ownerships are all interlinked, and so trying to fundamentally change the culture of these massive institutions is nearly impossible.
Many have promoted the idea of refusing to economically engage this monster, but that has become nearly impossible. Over the years, we have seen so many promising companies get gobbled up by this "super-entity", and in many instances the customers of these companies don't even realize that they are now owned by someone else. Because they have such a huge share of the market, the global elite essentially dictate what gets produced, what gets sold and what gets bought. And if you need a loan to buy a home or to make some other major purchase, you normally have to go through one of their financial institutions.
But of course it doesn't stop there. Politicians love to talk about "job creation", but the truth is that it is our major corporations that really hold the keys over who works where. If you want to get hired by the elite, it has to look like you share their values and that you will be a good little cog in the machine. And the elite ensure that they will have an endless supply of "good little cogs" by completely and utterly dominating our system of higher education. Colleges and universities that have done as the elite have wished have been absolutely showered with money, while others have been allowed to go by the wayside.
At this point, a "college education" will pretty much look the same no matter where you go, and that is extremely unfortunate. Once we leave school, the elite continue to control what we think through their ownership of nearly all of the major media and entertainment companies. Today, more than 90 percent of the "news" and "entertainment" that we get through our televisions is produced by their colossal media empires, and the average American spends approximately five hours a day in front of a television. If you allow anyone to feed propaganda into your mind for five hours a day, that is going to have an enormous impact on how you view the world. You can try flipping over to a different channel than you normally watch, but that won't change much.
Have you ever wondered why the news always sounds the same no matter which channel you are watching? Needless to say, that doesn't happen by accident. In the early years, the Internet allowed alternative voices to compete with the giant media empires, but now that is rapidly changing. Because giant corporations now control so much of the Internet, those corporations can silence dissenting voices by "deplatforming" them. One by one, bright lights are going out all over the Internet, and eventually the only voices that will be left will be corporate-approved voices.
The Constitution that governs our land is supposed to guarantee freedom of speech. But the corporations that completely dominate our lives now control most of the online "public squares", and they have made it abundantly clear that they are going to dictate what can be said and what cannot be said. So you can still go out in your backyard and say whatever you want, but at this point "freedom of speech" is dead in this country for all practical purposes. Are you starting to understand the power that they have? President Trump cannot control what you say, but the major corporations do it every day. And unlike our politicians, we cannot get rid of the corporations at the voting booth.
No matter what happens in November, the global elite are going to continue to dominate our society, but if we stay on the road that they are leading us down our future is going to be exceedingly bleak. Voices such as mine will continue to try to wake people up, but when the other side has almost unlimited resources it is a very tough battle to fight. However, we can never give up, because as long as the corporations owned by the global elite completely dominate our society we will never truly be free.
THE END
IL MONDO NUOVO - Enrica Perucchietti
UNO 2020 May
"La paradisiaca strada della tecnologia può condurre verso scenari che non sono stati meritatamente discussi, ma che filosofi scienziati persino romanzieri hanno predetto in modo straordinario, lanciando un grido d'allarme che è rimasto inascoltato".
Il transumanesimo è come se fosse la dottrina religiosa mistica degli architetti del mondialismo. La base di questa dottrina è una visione prometeica, titanica, che vuole abbattere tutti i limiti, non avere limiti, e quindi potenziare e far evolvere consapevolmente l'essere umano, indipendentemente dalle leggi biologiche, dalla natura.
Il grande nemico del transumanesimo e del postumanesimo è la natura. Considerano l'uomo come se fosse un dispositivo digitale, da potenziare, anche passando attraverso l'ibridazione con l'intelligenza artificiale. Però l'intelligenza artificiale è soltanto uno degli aspetti del transumanesimo, perché il transumanesimo comunque fa riferimento non soltanto la tecnologia, ma anche alla medicina rigenerativa ed a tutta una serie di di branche che rientrano all'interno di questo movimento culturale. In qualche modo i suoi tentacoli arrivano un po' ovunque, per esempio in esperimenti di ectogenesi (uteri artificiali), clonazione, crionica, mind uploading... Rientrano tutti all'interno del transumanesimo.
Ne "Il mondo nuovo", Huxley immagina infatti che le "nuove" generazioni vengano generate con sofisticate tecniche scientifiche e nascano in uteri artificiali all'interno di apposite fabbriche. La potenza del saggio distopico huxleyano sta nell'aver anticipato con sconcertante precisione temi quali lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione (prima ancora della scoperta del DNA da parte di Watson e Crick), l'eugenetica e il controllo mentale (dall'ipnosi al metodo farmacologico) usati per forgiare e manipolare un nuovo modello di uomo.
Yevgeny Zamyatin scrive dieci anni prima di Huxley, che pubblica il mondo nuovo nel 1932, e immagina già un mondo globale, pacificato, ultra meccanizzato, talmente tanto spersonalizzato che le persone non hanno neanche più un nome ma un alfa numero di riferimento, e in cui c'è un personaggio che è il "benefattore" (che tra l'altro ispirerà proprio George Orwell per la figura del Grande Fratello).
Huxley spiegherà (in una lettera che indirizzerà a Orwell nell'ottobre del 1949) di aver capito che il potere per riuscire a manipolare meglio - e quindi anche controllare - la popolazione deve utilizzare il metodo della dittatura dolce, non il controllo sadico che vedremo in 1984 che potrebbe generare una rivolta. Il modo migliore per manipolare le persone è di spersonalizzarle, svuotarle, entrare nella testa, nella coscienza, nella psiche delle persone e plasmarne l'immaginario.
Ne "Il mondo nuovo", le nuove generazioni vengono selezionate in provetta, divisa in caste, e nascono all'interno di uteri artificiali, e letteralmente programmate, educate attraverso l'ipnopedia. Non esiste più la famiglia. Andando a distruggere tutti i corpi intermedi, tutti quei cuscinetti che possono proteggere gli individui, si rafforzare il potere e si spersonalizzano gli individui, rendendoli amorfi, liquidi che possono assumere la forma del contenitore che il potere deciderà per loro. Tutti i cittadini del mondo nuovo, on appena si sentono un po' troppo eccitati - nel bene e nel male, oppure depressi, prendono la drogra di stato, il "Soma". C'è la saturazione dei piaceri, "Pane e circensi, miracoli e misteri".
Per fare in modo che le persone arrivino ad amare le proprie catene, che arrivino ad amare la propria schiavitù, bisogna entrare nel loro immaginario attraverso questa forma di dittatura dolce, fare n modo che queste scelgano tutto quello che il potere deciso per loro, illudendosi però di essere liberi. Viene in mente l'Internet di oggi, il Web.
Per anni il web è stato celebrato come un mezzo di democratizzazione e di emancipazione senza precedenti. La cronaca non ha mancato di pubblicizzare le comodità che la rete e in particolare i social network ci offrono, ma ha anche dimostrato i limiti di un nuovo stile di vita che impone di essere sempre "connessi", arrivando allo scandalo DataGate che ha aperto il vaso di Pandora sulla sorveglianza tecnologica. Negli ultimi anni si è tentato di convincere l'opinione pubblica ad attribuire scarso valore alla privacy, quando paradossalmente sono proprio i magnati di Internet e i politici i primi a custodire gelosamente la propria privacy da occhi indiscreti. Il mantra che è stato sbandierato per anni suonava all'incirca come: "Se non hai nulla da nascondere non ti farai problemi ad abdicare alla tua privacy, solo chi ha commesso qualche reato avrà problemi a mostrarsi in tutto ciò che fa".
Tutti i supporti digitali e tecnologici - tutto ciò che è digitale - ha in qualche modo creato questo feticismo dell'innovazione. Le persone da un lato sono attirate dal luccichio della comodità o dall'essere sempre connesse, e finiscono per abdicare, oltre che alla propria privacy, anche alla propria esistenza reale, preferendo rifuggire in paradisi artificiali. Soprattutto le nuove generazioni finisco incollate davanti ad Internet, ai social, creando degli avatar che in qualche modo possano vivere l'esistenza in modo più sfolgorante. Tutti questi comportamenti immaturi permettono a chi sta dietro Internet di poterci controllare e manipolare meglio. Internet è riuscito a riprogrammare le menti delle persone, soprattutto delle nuove generazioni.
Per anni si è utilizzata la tecnica della gradualità, il principio della rana bollita di Chomsky e la la finestra di Overton, per instillare gradualmente nell'opinione pubblica l'idea che i microchip e tutti i dispositivi di tracciamento/geolocalizzazione siano comodi e che aiutino i cittadini a risolvere certi problemi: il terrorismo, la perdita dei bambini, l'abolizione del contante, il non doversi ricordare password... I media mainstream hanno iniziato a parlarne, le serie TV e i film hanno iniziato a inserirli, per abituare lo spettatore al fatto che questo potesse essere comodo.
Attraverso i metodi dolci la dittatura dolce fa in modo che siano le persone a chiederti di ricevere il microchip, che ritengano comodo avere dispositivi come Alexa per non dover accendere o spegnere le luci di casa, per far raccontare le fiabe ai propri bambini. Si passa per gradi, abituando le persone a diventare degli animali domestici, degli idioti tecnologici neanche più in grado di fare il giro dell'isolato senza il TomTom o di accendere un pulsante senza avere il dispositivo che lo fa per noi. Come ricorda Ernst Jünger, dalla condizione di animale domestico si passa poi a diventare un animale da macello.
Le conseguenze sono: sempre più sorveglianza tecnologica. Si è resa meno preziosa la privacy, come se la nostra libertà fosse un surplus, un ornamento che ti puoi anche togliere la sera e poi rimettere la mattina come un paio di orecchini. Rinunciando alla propria privacy e accettando tutti questi dispositivi tecnologici si va sempre più verso la creazione di una società trasparente in cui tutti noi rischiamo di diventare degli uomini e delle donne di vetro, sotto l'occhio costante del grande fratello elettronico.
Non siamo riusciti minimamente ad acquisire la lezione che cento anni fa scrittori visionari hanno cercato di tramandarci. Non siamo riusciti ad accoglierla perché ci siamo fatti irretire dal canto delle sirene della tecnologia. Essere comodi con un'app o un microchip, un dispositivo che in realtà è un orecchio del grande fratello, noi lo preferiamo ad analizzarne le possibili conseguenze. Siamo finiti ad amare le nostre catene e addirittura a pagare per farci mettere le nostre catene.
Stiamo andando da una forma di manipolazione "over the skin", ossia tutto quello che noi facciamo su Internet o attraverso le nostre carte di credito, che lascia una traccia e da cui si possono ricavare i nostri dati per profilarci e poi rivenderci... Ad un tracciamento "under the skin" in cui, pur di sentirci sicuri e protetti, daremo accesso alle aziende ed ai governi ai nostri dati clinici e biochimici.
Un governo autoritario potrà cioè conoscere i propri cittadini meglio di come loro conoscono se stessi. Potrà manipolare meglio ed esercitare melgio quella dittatura dolce, perché conoscerà meglio di noi le nostre inclinazioni e nostre abitudini e le nostre scelte. Non ci rendiamo minimamente conto delle conseguenze pericolosissime delle scelte che stiamo facendo, sull'onda dell'emotività. Siamo diventati dei soggetti minorenni, e quindi il potere ha ancora più ragione a trattarci come soggetti da deresponsabilizzare, ci prende per mano e ci dirige verso le scelte che sono state già ponderate e prese.
Thomas Jefferson: "Coloro che sono disposti a perdere un po' delle proprie libertà per avere un po' più di sicurezza, non meritano né la libertà né la sicurezza".
FINE
CAPITALISMO 2.0: L'ERA DELLA SORVEGLIANZA VIA WEB - Matteo Guenci
Piccole Note 2019 Nov
Non solo la privacy, ma anche il nostro libero arbitrio viene minacciato dai giganti tecnologici secondo il libro "The age of surveillance capitalism. The Fight For a Human Future at the New Frontier of Power".
Pubblicato a gennaio 2019 da Shoshana Zuboff, sociologa e professoressa emerita della Harvard Business School, il libro dettaglia come le Big Tech si servano della tecnologia e della rete per prevedere i nostri comportamenti/bisogni e indirizzarli.
Ciò ha dato vita a una nuova forma di capitalismo, fondato sull'estrazione e sul commercio dei dati degli utenti del web, che la Zuboff definisce "capitalismo di sorveglianza".
La genesi della sorveglianza
Il capitalismo di sorveglianza, secondo l'accademica, sarebbe un prodotto di Google, allargatosi poi a tutte le grandi realtà della Silicon Valley. Agli inizi del millennio il colosso americano, al fine di aumentare le entrate pubblicitarie sfruttò il suo accesso a dati esclusivi, prodotti dagli utenti tramite dall'uso del suo motore di ricerca.
Presto Google realizzò che tali dati "avrebbero potuto essere analizzati in base a modelli predittivi che avrebbero fornito degli indizi decisivi sugli interessi degli utenti [...] a questi utenti potevano, infatti, essere indirizzati degli annunci pubblicitari mirati per condizionare i loro comportamenti come consumatori".
Operazioni progettate in sordina - aggirando la consapevolezza dell'utente in modo da non produrre allarme o suscitare critiche - basate "su uno specchio unidirezionale: la sorveglianza".
Queste operazioni, sviluppate dal 2001 nel più stretto segreto, hanno mostrato la loro efficacia quando Google è andato in borsa nel 2004, rivelando al mondo l'incremento delle sue entrate giunte a un livello incredibile; quasi il 4mila per cento.
Secondo le dichiarazioni della Zuboff, riportate da Gèraldine Delacroix su Mèdiapart, ciò ha portato a una situazione senza precedenti: una trasformazione assoluta dei modelli del capitalismo.
Se è gratis, il prodotto sei tu
Aziende come Google, Facebook, chiamate genericamente "Big Other" dalla Zuboff, non hanno interesse per la classica forza lavoro, alla base del vecchio capitalismo, ma per "ogni aspetto dell'esperienza umana" ormai "materia prima gratuita che viene trasformata in dati comportamentali... e poi venduta come 'prodotti di previsione' in un nuovo mercato, quello dei 'mercati comportamentali a termine'... dove operano imprese desiderose solo di conoscere il nostro comportamento futuro".
I dati personali sono il nuovo "petrolio" del capitalismo via web e la loro estrazione ha dei costi irrisori. I profitti invece sono clamorosamente alti. Un meccanismo peraltro totalmente in mano ad aziende private.
Peraltro, l'estrazione di questa nuova materia grezza, a differenze dell'oro nero, non è limitata: i dati personali sul web sono destinati solamente ad aumentare.
La Zuboff ribadisce però che il capitalismo di sorveglianza non è la tecnologia stessa, strumento neutro, ma piuttosto una logica d'azione che induce a trasformare ciò di cui ci interessiamo, dove lo facciamo, quando e in che modo, in un "surplus comportamentale".
Tale surplus sono i dati prodotti da una qualunque navigazione su Internet, in base ai quali è possibile tracciare un profilo sempre più preciso dell'utente; un'operazione che consente alle aziende di sapere cosa vuole e intuire cosa vorrà e cosa farà.
Dati che non dovrebbero esistere
Fonte di preoccupazione per la studiosa americana è l'idea dell'estinzione "della cosa più preziosa della natura umana", cioè il libero arbitrio e la coscienza individuale. Visione apocalittica, certo, ma non astratta.
La simbiosi ormai inevitabile tra persone e accesso alla rete rappresenta, secondo la studiosa, un fattore che rende impossibile sfuggire a questa trappola, la cui soluzione non sta nella semplice riappropriazione dei propri dati personali, come accadrebbe con norme più rigide sullo spazio virtuale (benché auspicabili).
Da questo punto di vista, la Zuboff relativizza l'impegno profuso da tanti politici e intellettuali per introdurre tali norme, che probabilmente fanno sorridere le "Big Other" dal momento che non toccano il punto nodale della questione, lasciando intatto il loro potere. Tali dati, infatti, non dovrebbero neanche esistere.
"Che interesse c'è ad avere dati che innanzitutto non dovrebbero esistere?" Si domanda la Zuboff. La spinta per introdurre tali leggi, paradossalmente, "non fa che istituzionalizzare e legittimare ancora di più la raccolta dei dati. È come negoziare il numero massimo di ore lavorative quotidiane di un bambino di sette anni, piuttosto che contestare la legittimità del lavoro minorile".
Si dice che domandare è lecito, rispondere è cortesia. Con il capitalismo di sorveglianza l'equazione rimane la stessa, ma cambiano alcune variabili: domandare al web (cui affidiamo non solo le nostre ricerche, ma anche affetti e svaghi) è certo lecito.
La risposta che ne otteniamo è una cortesia, ma solo apparente in quanto rende vulnerabile chi si affaccia su internet, per lo più ignaro di lasciare dietro di sé informazioni sensibili e certamente all'oscuro del loro utilizzo finale.
Si tenga presente che le "Big Other" sono anche usate a scopi politici, come dimostrato ad esempio dalla Primavera araba. Da cui un allarme più stringente.
FINE
GLI INGANNI IDEOLOGICI DEGLI STAKEHOLDERS DELL'IGNORANZA DI MASSA - Enrico Voccia
Umanità Nuova 2018 Jun
Ringrazio innanzitutto tutti coloro che hanno accettato il mio invito a discutere sul tema del rapporto tra Educazione ed Emancipazione Sociale: riservando al prossimo numero una mia riflessione sull'interessante articolo di Nicholas Tomeo inizierò a rispondere a Cosimo Scarinzi, e nel farlo proverò ad approfondire una delle domande con cui concludevo il mio primo articolo: quali sono gli inganni ideologici con cui, negli ultimi anni, i "portatori di interessi" dell'ignoranza di massa hanno svuotato di sostanza effettiva l'insegnamento pubblico, mascherando le proprie politiche reazionarie dietro idee apparentemente volte in direzione contraria, talvolta utilizzando e dirottando verso i propri interessi anche idee care alla sinistra radicale. In questo campo i meccanismi ideologici sono stati molteplici: quest'articolo è dedicato a quello che potremmo chiamare il "Don Milanismo" del potere.
Prima di affrontare il tema, però, credo siano necessari alcuni chiarimenti concettuali. Durante il XIX secolo ed anche all'inizio del XX, all'interno del pensiero anarchico era tipica - si pensi solo ai "tre grandi nomi" dell'anarchismo come Bakunin, Kropotkin e Malatesta - la distinzione tra "autorità" ed "autoritarismo". La prima cosa, intesa come un oggettivamente superiore bagaglio di competenze che una determinata persona possiede in un determinato campo era benvenuta ed anzi fondamentale per la vita quotidiana della società liberata dal dominio che si auspicava; la seconda, intesa come la pretesa di una persona di avere il controllo sui processi della vita sociale indipendentemente dall'altrui volontà, era la relazione sociale e politica da combattere per eccellenza in tutte le forme in cui si presentava. Un tema che, con varie denominazioni, si protrae nel pensiero anarchico fino ai nostri giorni - si pensi alla distinzione chomskyana e graeberiana tra "autorità legittima" ed "autorità illegittima" - così come la critica alla confusione che il potere tende a fare tra le due cose.
Una tale distinzione è chiaramente applicabile a tutti i campi della vita sociale - strutture educative comprese. Nel processo educativo è infatti ovvio che - in linea di principio e fatte salve le eccezioni statistiche - vi sia una autorità nel senso funzionale della parola: una persona cioè che conosce determinati spazi di sapere meglio e più approfonditamente degli individui cui li insegna e che, inoltre, è spesso dotata di una talvolta notevole esperienza pratica e teorica nei processi di trasmissione di questo stesso sapere. L'"esercizio legittimo" di una tale autorità consiste pertanto in tutti gli atti volti al più efficace passaggio di conoscenze da lui agli allievi, con l'obiettivo ideale finale di mettere alla pari i livelli di competenze. Come suol dirsi da millenni, il sogno del bravo maestro è vedersi superato dall'allievo; come ha fatto notare più recentemente Graeber, l'insegnamento è un'attività sociale che mette in atto gerarchie funzionali allo scopo di distruggere le gerarchie sociali e le stesse gerarchie funzionali iniziali.
Un "esercizio illegittimo" di questa stessa autorità consiste, invece, in tutte le richieste di subordinazione inessenziali allo scopo dell'insegnamento. Per fare esempi banali, la richiesta di non disturbare la lezione è funzionale allo scopo educativo, mentre quella di alzarsi in piedi all'entrata del docente in aula evidentemente non lo è. Per fare un esempio meno banale di utilizzo legittimo dell'autorità funzionale del docente, la richiesta dell'impegno nello studio e la valutazione dei risultati di tale impegno; proprio su questo punto, però, il potere politico portatore dell'interesse dell'ignoranza di massa ha fatto perno allo scopo di depotenziare il più possibile l'insegnamento e la trasmissione del sapere. Indubbiamente, infatti, l'impegno nello studio è faticoso ed i processi di feedback valutativo mantengono sempre un qualche livello di stress psicofisico. Ora, fatica e stress sono immediatamente percepibili, al contrario dei vantaggi che la conoscenza porterà sul lungo termine: in altre parole, per comprendere i vantaggi effettivi della conoscenza occorre già possederla, cioè essersi sottoposti alla fatica dell'apprendimento ed allo stress della valutazione.
Un solo esempio concreto, che tocca da decenni la vita di ciascuno di noi: sono appunto decenni che i vari governi piangono miseria, chiedono sacrifici alla popolazione - quella lavoratrice, ovviamente, al ricco non si chiede un centesimo, anzi gli si dà ulteriormente qualcosa per "il bene collettivo" - tagliano insomma i redditi, i servizi sociali ed i diritti sindacali perché a loro dire saremmo di fronte ad un deficit del bilancio statale spaventoso, da risanare ad ogni costo. Da decenni, immancabilmente, anno dopo anno, "cura" dopo "cura", il deficit di cui sopra aumenta e ci ripropongono nuovi sacrifici, il deficit aumenta di nuovo...
Intendiamoci: in mancanza di un'opposizione sociale forte probabilmente queste politiche ce le imporrebbero comunque; il problema cioè non è che ci stanno prendendo evidentemente per i fondelli e che la "cura" non è per niente tale, ma che la maggioranza della popolazione immiserita da queste politiche acconsente ideologicamente ad esse applaudendo al taglio della spesa pubblica, alla "riduzione" delle tasse e quant'altro, rendendo enormemente più facili tali operazioni di macelleria sociale. La stragrande maggioranza della popolazione immiserita se la prende con gli immigrati e con gli stipendi dei parlamentari - dati i parametri quantitativi della ricchezza in gioco e della sua distribuzione, è come se vedessero nel fumo delle sigarette l'unica causa dell'inquinamento dell'aria. Ora, un talmente diffuso inganno ideologico può essere stato portato avanti soltanto riducendo ai minimi termini i livelli di conoscenza sia di dati fattuali, sia del metodo scientifico, sia di logica elementare, sia degli elementi della macroeconomia. In altre parole, occorre aver ridotto al minimo indispensabile gli elementi della popolazione in grado di decodificare gli inganni del potere, perché, anche se non tutti possiamo - ovviamente - sapere tutto, però un processo educativo decente porterebbe ad una diffusione nei vari gangli della società di un numero sufficiente di persone in grado di compiere quest'operazione, dapprima in prima persona e poi passando il loro sapere agli altri, sia pure in forma divulgativa.
Arriviamo qui al "Don Milanismo" del potere che annunciavamo all'inizio di quest'articolo, cominciando con lo sgomberare il campo da un possibile equivoco: posso tranquillamente pensare che Don Milani fosse in perfetta buona fede e che il suo obiettivo fosse appunto quello di ampliare quantitativamente e qualitativamente il sapere delle classi povere - l'inferno, però, è, come suol dirsi, lastricato di buone intenzioni ed il suo pensiero è non da oggi utilizzato dal potere per togliere ogni accesso ad una conoscenza di buon livello non solo alle classi povere, ma anche a quelle proletarie e piccolo/medio borghesi. Ora, l'argomentazione sviluppata da Don Milani nel suo celebre testo Lettera ad una Professoressa è abbastanza nota: qui mi soffermerò sul rapporto tra educazione e valutazione che, a mio parere, anche se non da solo, è centrale per capire il "Don Milanismo" del potere.
Don Milani parte da una constatazione e da un'affermazione giusta - i figli delle famiglie meno abbienti vengono umiliati nell'istituzione scolastica a favore dei figli delle famiglie che hanno potuto offrire ad essi un ambiente pre ed extrascolastico migliore ai fini dell'apprendimento e questa cosa va combattuta. Sacrosanto. Il problema è quello che viene dopo: Don Milani, infatti, dopo quest'analisi, propone metodi di valutazione differenziati per gli alunni provenienti da differenti ceti sociali, in modo da non bocciare nessuno. Il problema è che in questo modo si cristallizzano le differenze sociali invece di superarle: come dicevamo all'inizio, lo studio è faticoso ed i processi di valutazione sono stressanti, ma solo ricercando da parte di tutti - ultimi compresi - i "saperi massimi", con fatica e stress, si possono annullare le differenze sociali. Don Milani aveva detto la famosa frase "L'operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo è lui il padrone": la sua ipotesi, però, di fatto impediva a chi ne conosceva solo cento di imparare le altre novecento.
Qui il potere ha colto la palla al balzo, utilizzando da un lato i sensi di colpa degli insegnanti di sinistra che temevano di essere considerati classisti se facevano banalmente il loro mestiere, dall'altro l'appoggio delle masse scolarizzate che vedevano in tutto ciò una diminuzione del carico di lavoro, senza capire la fregatura che gli stavano propinando. Rileggendo oggi non solo le grandi riforme scolastiche ma soprattutto le miriadi di circolari ministeriali che le hanno sostanziate e spesso ancor di più peggiorate, l'altra celebre frase di Don Milani "Perché il sogno dell'uguaglianza non resti un sogno, vi proponiamo tre riforme: 1) Non bocciare 2) A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno 3) Agli svogliati basta dargli uno scopo" oggi non può che far venire un brivido nella schiena a tutti coloro che lavorano ad ogni livello del mondo dell'educazione. Davvero le strade dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni e lo spazio di quest'articolo mi impedisce di analizzare, cosa che sarebbe assai istruttiva, molti altri aspetti del pensiero di Don Milani, mostrandone l'aspetto di - ripeto involontario - supporto ideologico alle politiche classiste del potere.
Da questo punto di vista, la costruzione dell'inganno ideologico è stata facile, portando all'obiettivo del potere nell'epoca della tendenziale ma abbastanza prossima proletarizzazione del 99% dell'umanità: una scuola di massa ma dequalificata, dove statisticamente usciranno comunque un po' di persone con una preparazione decente ed utile alla produzione ed il resto saranno analfabeti funzionali, esclusi dall'accesso a quelle forme di conoscenza che gli permetterebbero di capire l'essenza del potere ed i suoi inganni, agendo di conseguenza.
FINE
LA QUARTA FASE DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE - Enrico Voccia
Umanità Nuova 2016 Dec
Marco Celentano, nel suo articolo comparso sul numero precedente di Umanità Nova, ha posto il tema dell'ideologia transumanista e di una sua declinazione sovrumanista. La questione è assai interessante, ma credo che, per poterla porre e valutare nei suoi termini reali, occorra uscire dall'aspetto dell'analisi puramente ideologica e, invece, andare ad analizzare i contesti reali, materiali, in cui può svilupparsi una tale ideologia. Per fare quest'operazione occorre rivisitare brevemente la storia dell'influenza sulla storia umana dello sviluppo tecnologico così come si è andata delineando da circa due secoli e mezzo fa ad oggi: solo dopo un'analisi del genere può delinearsi nei suoi contorni esatti una comprensione effettiva dell'ideologia transumanista.
Fino agli inizi del XVIII secolo, l'influenza delle macchine nei processi produttivi - in termini sia di produzione di forza motrice sia di processi trasformativi delle materie prime - era minimo: salvo i limitati casi di applicazione della forza motrice dell'acqua e del vento, da un lato, e di qualche macchinario un po' più complesso di un semplice strumento, dall'altro, nulla poteva far presagire lo sviluppo della Rivoluzione Industriale così come si è andata configurando dalla metà del XVIII secolo in poi. Poi, all'improvviso, dopo alcune false partenze, alcune condizioni si presentarono tutte insieme, nello stesso luogo e nello stesso tempo, creando quella tempesta perfetta che fu, appunto, la Rivoluzione Industriale.
"Rivoluzione" Industriale, appunto: siamo talmente abituati ad usare e sentire il termine che raramente ci poniamo il problema del perché si usi questo sostantivo - che solitamente rimanda ad un processo storico-sociale assai rapido - applicandolo ad un processo secolare, evidentemente, ancora in corso. La cosa ha senso perché il fenomeno in questione fa capo a quella che la scuola storica degli Annales avrebbe detto "il tempo della lunga durata", quello in cui ad essere radicalmente modificata in caso di "rivoluzioni" è la storia materiale dei popoli e degli individui. Da questo punto di vista, la Rivoluzione Industriale è certamente tale e può essere paragonata, per ampiezza di trasformazioni indotte nella storia della specie umana, solo alla Rivoluzione Linguistica ed alla Rivoluzione Agricola.
Un periodo comunque così lungo dal punto di vista degli individui possiede delle fasi interne. Nella prima fase, approssimativamente databile dalla metà del XVIII secolo al 1820/30 circa, il fenomeno parte relativamente in sordina: i paesi coinvolti sono molto pochi, sostanzialmente la Gran Bretagna e le sue colonie/protettorati, ed anche i settori produttivi coinvolti non vanno oltre a quello tessile ed a quello metallurgico/estrattivo, anche se l'impatto delle innovazioni comincia a modificare la vita quotidiana di molti individui e, soprattutto, l'immaginario collettivo.
Già in una fase successiva, approssimativamente databile dal 1820/30 alla metà del XX secolo, vediamo però che la vita materiale delle persone comincia a subire notevoli mutamenti rispetto ai secoli precedenti: il numero di paesi coinvolti aumenta enormemente, così come i comparti produttivi coinvolti (si aprono i settori chimico chimico/farmaceutico, agricolo, alimentare, elettrico, elettronico, dei trasporti, delle comunicazioni). Oltre a ciò, si vede comparire una serie davvero enorme di oggetti che non erano mai passati precedentemente per la lavorazione artigianale, ma che sono pensati direttamente per la produzione a macchina e che trasformano radicalmente le condizioni materiali e quotidiane di vita degli individui. Fino al periodo precedente, gli individui vivevano, tra l'altro, in mezzo ad un numero di oggetti limitato e dal funzionamento facilmente comprensibile: ora gli oggetti mutano esponenzialmente di numero e la gran maggioranza di essi funziona in un modo inesplicabile a chi è fuori dal loro specifico processo produttivo. L'impatto sull'immaginario collettivo di questo processo è enorme e può essere misurato notando la nascita di un genere letterario (ma non solo) del tutto nuovo e diffusissimo ad ogni livello sociale: la fantascienza.
Una terza fase della Rivoluzione Industriale nasce all'incirca con la Seconda Guerra Mondiale e consiste nella meccanizzazione del lavoro intellettuale, in altre parole, nella nascita degli elaboratori elettronici e, più tardi, del "personal" computer in tutte le sue declinazioni odierne (smartphone compreso, per essere chiari). Il processo di proliferazione esponenziale degli oggetti che condizionano la vita materiale degli individui iniziato nella fase precedente si amplifica ancora di più; la cosa però più importante è la scomparsa/proletarizzazione delle classi e dei ceti medi. Questi, infatti, si posizionavano in uno spazio intermedio tra i lavoratori manuali e gli imprenditori proprio in virtù di una loro serie di competenze intellettuali all'epoca non meccanizzabili: ora, con lo sviluppo sempre maggiore di hardware e software, il loro lavoro si svolge sempre più in maniera meccanizzata e, di conseguenza, la loro posizione sociale si è sempre più avvicinata - oramai nella maggior parte dei casi sino a confondersi - a quella del lavoratore manuale. Un processo, questo, che sembra inarrestabile: con la diffusione dei software di gestione aziendale, si comincia a parlare di "proletarizzazione" persino per i livelli medio/bassi dei cosiddetti "manager". Anche qui, l'immaginario collettivo è stato profondamente colpito: per tornare al precedente esempio della fantascienza, si pensi allo sviluppo del cyberpunk nei vari campi della produzione artistica di massa.
Ora, decenni prima del Transumanesimo, qualcuno aveva ipotizzato che ci stavamo avviando verso una sorta di quarta fase della Rivoluzione Industriale: la meccanizzazione del corpo umano come convergenza degli sviluppi dell'informatica e dell'ingegneria (genetica e non). Riflessioni come quella che il filosofo morale Hans Jonas (1903-1993), ma non solo lui - si pensi allo sviluppo delle tematiche bioetiche ed in generale della filosofia della tecnica - hanno sviluppato già negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale vanno tutte in questa direzione.
Insomma, ben prima del Transumanesimo, le prefigurazioni di un futuro "transumano" erano ben presenti, sia nella riflessione morale, sia nella produzione artistica. Qual è, allora, la specificità dell'ideologia transumanista? Come fa notare Celentano, nell'aspetto valutativo di questo processo: autori cyberpunk e filosofi della tecnica, in qualche modo, tendono solitamente a mostrare anche gli aspetti potenzialmente negativi di un tale sviluppo, i transumanisti, invece, se ne fanno alfieri ed apologeti - il livello critico resta decisamente sullo sfondo.
Posso così giungere agli aspetti che non mi convincono dell'articolo di Celentano. Innanzitutto, rispetto a fenomeni di portata epocale come la Rivoluzione Industriale, i processi valutativi lasciano il tempo che trovano: se si giungerà o meno al transumano, non lo si dovrà certamente ai cantori del transumanesimo e nemmeno a retaggi illuministico/positivistici ritenuti ancora presenti e dominanti nella cultura. Si tratta infatti di un processo che con ogni probabilità può essere interrotto solo da un evento catastrofico - una guerra nucleare e/o chimica e/o batteriologico-virale - che interrompa la Rivoluzione Industriale e ci riporti ad una fase precedente ad essa (dove non necessariamente l'umanità e forse la stessa vita esistono).
Il luddismo non è stato sconfitto dalla repressione o, almeno, non fondamentalmente da quella: è stato sconfitto dai milioni di persone comuni, ex artigiani impoveriti compresi, che acquistavano il panno di cotone industriale perché costava meno, si risparmiava e/o se ne poteva comprare di più. Con le tecnologie di quella che potrebbe essere la quarta fase della Rivoluzione Industriale sarà assai probabilmente la stessa cosa: ciascuno di noi le utilizzerà per sé e per i suoi cari, specie di fronte all'alternativa della morte - e sarà una cosa buona, come è stata una buona cosa il panno di cotone a basso prezzo.
Non dobbiamo, infatti, confondere industrializzazione e capitalismo e, in generale, tecnologia e capitalismo. Il potere gerarchico - di cui il capitalismo è uno degli aspetti - è una relazione sociale di dominio, che sottrae alla maggioranza il controllo dei beni utili alla vita, tecnologie comprese, e li utilizza ai suoi fini. Non usa il telaio meccanico per liberare le donne ed i bambini dalla schiavitù del lavoro casalingo, ma per ridurne alla fame la maggior parte e costringere ad un lavoro ancora più usurante chi resta a lavorare alla macchina. Senza le relazioni gerarchiche di dominio, il telaio meccanico poteva essere usato per lavorare tutti, lavorare meno ed avere tutti più beni a disposizione. Usando un'immagine di Riane Eisler, un calice, simbolo di vita, ed una spada, simbolo di morte, provengono entrambi dalla stessa tecnologia metallurgica: quello che fa la differenza sono le relazioni di potere e non il procedimento tecnico in sé.
Il problema del Transumanesimo non è la mancata critica ai rischi della tecnologia: è la mancata critica alla sopravvivenza del capitalismo e delle relazioni gerarchiche in genere come gestori di tali tecnologie. Aumento della durata e della qualità della vita, "uploading", ecc. sono tutte cose in sé positive, frutto dell'ingegno umano e non delle relazioni di potere, che noi per primi invocheremo quando ci serviranno. La battaglia politica e sociale va fatta sulla gestione di queste tecnologie, senza rischiare di offrire al potere gerarchico l'occasione di presentarsi come il difensore dei diritti dell'umanità, contro un branco di folli retrogradi che vorrebbero veder soffrire e morire esseri umani quando ci fosse la possibilità di evitarlo.
Finora non ho parlato del "sovrumanismo", per cui qualche nota finale. Come è evidente dalle stesse citazioni che Celentano fa degli uni e degli altri nel suo articolo, c'è una differenza radicale tra transumanisti e sovrumanisti: i primi, pur con i limiti politici evidenziati sopra, sanno di che cosa stanno parlando; i secondi, no, utilizzano semplicemente ai loro scopi determinate analisi futurologiche come faceva ai suoi tempi il futurismo fascista. I sovrumanisti, insomma, ne sanno di scienza e/o di tecnologia più o meno quanto Marinetti ne sapeva di ingegneria, di meccanica quantistica o di relatività generale, e non metto in dubbio che, come il futurista originale, sappiano spillare soldi a capitalisti e grandi manager, felici di sentirsi rappresentare ideologicamente un loro superominismo in chiave tecnologica. Insomma, la critica che va loro fatta è quella al pensiero fascista in generale: il transumanesimo in loro è solo un paravento che gli va tolto di mezzo ai fini della critica stessa.
FINE
TRANSUMANESIMO E SOVRUMANISMO - Marco Celentano
Umanità Nuova 2016 Dec
Transumanismo, ovvero, l'eugenetica ai tempi della bio-cibernetica
L'introduzione del termine "transhumanism" nel lessico europeo risale al biologo evoluzionista Julian Huxley che, in Religion without Revelation (1927), scriveva:
"La specie umana può, se lo desidera, trascendere se stessa - e non solo sporadicamente, un individuo qui, in un modo, un individuo lì in un altro modo - ma nella sua interezza, in quanto umanità. Abbiamo bisogno di un nome per questa nuova fede. Forse servirà il termine transumanesimo: l'uomo che rimane uomo, ma che trascende se stesso, realizzando nuove possibilità della sua natura umana e per la sua natura umana".
Huxley ribadì poi il concetto in un testo del 1957, New Bottles for New Wine, lanciando il motto: "I believe in transhumanism". Il termine iniziò, tuttavia, a circolare, nella produzione letteraria di lingua inglese, solo qualche decennio più tardi e, soltanto a partire dagli anni Ottanta, divenne punto di riferimento di un variegato orientamento artistico e filosofico, di cui Natasha Vita-More con il suo Transhumanist Arts Manifesto tracciava nel 1982 le prime linee di fondo e Max More ne offriva una prima definizione, presentando il transumanismo, o transumanesimo, come "una classe di filosofie che cercano di guidarci verso una condizione postumana". Nacquero, negli anni successivi, diverse associazioni dedite alla diffusione, applicazione e sperimentazione dei principi transumanisti, la più nota delle quali è la World Transhumanist Association fondata nel 1998 dall'economista inglese David Pearce e dal filosofo Nick Bostrom.
Quest'ultimo, più di altri, ha contribuito, nel corso del nuovo millennio, a delineare ideologie di fondo, obiettivi e strumenti del movimento. In "A History of Transhumanist Thought" (2005), presentando il pensiero transumanista come estrema filiazione dell'umanesimo, egli abbozza una genealogia che ne rintraccia i principali antecedenti nel Novum Organum di Francesco Bacone (1620), nell'empirismo inglese, nel razionalismo illuminista, e nella svolta darwiniana, tentando, così, di dimostrare che il "transumanesimo ha radici nell'umanesimo razionale".
Ma a quali prospettive e principi si ispira, e a quali scopi mira, questo movimento Nel 1993, in un fortunato articolo intitolato "Technological Singularity", lo scrittore Vernor Vinge radicalizzava la prospettiva di Huxley, profetizzando: "Entro trenta anni, avremo i mezzi tecnologici per creare un'intelligenza sovrumana. Poco dopo, l'era umana sarà finita". Non molto lontana da questa appare la prospettiva di Bostrom che, richiamandosi al libro di Eric Drexler Engines of Creation (1986), pronostica e auspica l'avvento di una "nanotecnologia molecolare", ad oggi del tutto utopistica e secondo vari esperti impossibile, che "ci permetterebbe di trasformare il carbone in diamanti, la sabbia in supercomputer, o eliminare l'inquinamento dell'aria ed i tumori dal tessuto sano. Nella sua forma matura, potrebbe aiutarci ad eliminare la maggior parte delle malattie e l'invecchiamento, rendendo possibile la rianimazione di pazienti dalla crionica, consentendo la colonizzazione dello spazio, e - cosa più inquietante - portare alla rapida creazione di vasti arsenali di armamenti letali o non letali".
Quest'ultimo pericolo non sembra però impensierire seriamente Bostrom, né scoraggiare la sua fede nei poteri taumaturgici di future ibridazioni tra i corpi umani e l'intelligenza artificiale. Egli è, infatti, fautore di un'altra "tecnologia ipotetica" che a suo dire potrebbe avere un "impatto rivoluzionario": "l'uploading, il trasferimento cioè di una mente umana a un computer. (...) In caso di successo, la procedura comporterebbe che la nuova mente, con memoria e personalità intatta, sia trasferita a un computer su cui potrebbe esistere in forma di software, ma potrebbe anche vivere in un corpo di robot o vivere in una realtà virtuale" (Bostrom, 2005, cit.).
Se Bostrom colloca il "transumano" in questa cornice neo-futurista, e concepisce il transumanismo come movimento che dovrebbe promuoverne e sollecitarne l'avvio, egli ci tiene, tuttavia, a sottolineare che il suo avvento "non dipende dalla fattibilità di tali tecnologie radicali. Realtà virtuale, diagnosi genetica preimpianto, ingegneria genetica, farmaci che migliorano la memoria, la concentrazione, l'insonnia, e l'umore, sostanze che migliorano le nostre performance; interventi di chirurgia estetica, operazioni di cambiamento di sesso; protesi; medicina anti-invecchiamento; interfacce uomo-computer: queste tecnologie sono già qui o possiamo attenderle nei prossimi decenni. La combinazione di queste capacità tecnologiche, una volta mature, potrebbe trasformare profondamente la condizione umana" (ivi).
Emerge qui uno dei nodi e risvolti più inquietanti dell'utopia tecno-biologica: essa non si limita a pronosticare l'attuale o prossimo avvento di tali tecniche, capaci di modificare (resta da vedere in che direzione e con quali esiti) la vita umana, ma prevede, promuove ed annovera tra i principali strumenti di una presunta elevazione delle potenzialità della nostra specie, "l'eugenetica embrionale e prenatale, ovvero la selezione degli esseri umani «senza difetti e patologie» e l'eliminazione dei malati per via tecnica" (Elena Postigo Solana, "Transumanesimo e postumano: principi teorici e implicazioni bioetiche", Medicina e Morale 2009/2). Di fatto, "il movimento transumanista e i sostenitori dell'eugenetica liberale, come ad esempio J. Savulescu, sostengono la liceità dell'elezione degli embrioni sani e la eliminazione di quelli con patologie gravi, e non gravi" (ivi). "È sempre Bostrom", nota ancora Postigo Solana, "a precisare una distinzione tra un «transumano», che sarebbe un essere umano in fase di transizione verso il postumano, vale a dire, qualcuno con capacità fisiche, intellettuali e psicologiche «migliori» rispetto ad un «umano normale»; e un «postumano», che sarebbe un essere (non determina se naturale o artificiale) che ha le seguenti caratteristiche: aspettative di vita superiori ai 500 anni, capacità cognitive due volte al di sopra del massimo possibile per l'uomo attuale, controllo degli input sensoriali, senza sofferenza psicologica" (ivi). Si concentra, a sua volta, sull'utopia di una totale eliminazione del dolore umano e animale, attraverso i futuri sviluppi della farmacologia, della nanotecnologica e di una ingegneria genetica del benessere, David Pearce, cofondatore con Bostrom della World Transhumanist Association:
"Il presente manifesto delinea una strategia biologica per sradicare la sofferenza dall'intera vita senziente. L'agenda post-darwiniana è ambiziosa, incredibile, ma tecnicamente fattibile. In questo manifesto essa viene difesa su basi di utilitarismo etico. La nanotecnologia e l'ingegneria genetica ci consentono di mettere da parte il wetware ereditato dal nostro passato evolutivo. Possiamo riscrivere il genoma dei vertebrati, riprogettare l'ecosistema globale e abolire la sofferenza dall'intera estensione del mondo vivente" (David Pearce, The Hedonistic Imperative, 1995).
Pearce, in altre parole, come lo stesso Bostrom annota, sostiene "un ambizioso programma per eliminare la sofferenza negli animali umani e non umani per mezzo di neuro-tecnologia avanzata (a breve termine con farmaci, a lungo termine, forse, con l'ingegneria genetica). In parallelo con questo sforzo «in negativo» per abolire la sofferenza, egli propone un programma «in positivo» di «paradise engineering» in cui gli esseri senzienti siano riprogettati per consentire a tutti un'esperienza senza precedenti dei livelli di benessere" (Bostrom, 2005, cit.).
Viene in luce, a mio avviso, in questi esiti del pensiero transumanista, una loro radice: più che figlia dell'umanesimo e dell'illuminismo, di cui pure riporta alla luce tare ataviche, questa corrente di pensiero è propaggine di quel sogno sfrenato di controllo sociale della natura umana e non umana che caratterizzò il positivismo di fine Ottocento e il Neo-positivismo, accompagnando, come suo inno apologetico, il delirio di potenza che portò gli Stati occidentali verso le catastrofi dei regimi dittatoriali e delle grandi guerre della prima metà del Novecento. Ma l'ottica con cui i transumanisti guardano ai possibili sviluppi della società umana e delle scienze appare totalmente cieca nei riguardi dell'insostenibilità dei modelli di sviluppo attualmente vigenti su scala planetaria, e dei disastri e squilibri sociali ed ecologici che a ritmo crescente essi stanno causando.
La visione transumanista, in altre parole, dà per scontato che la linea di tendenza che ha portato ad un crescente progresso tecnologico, ad un controllo sempre maggiore dell'uomo sull'ambiente naturale, ad un livello sempre più alto di manipolazione della natura umana e non umana, possa continuare indisturbata nei prossimi secoli, senza tener conto dei danni irreparabili che, già a livello attuale, la miopia e il cinismo con cui tale controllo è esercitato ha prodotto e sta producendo. Scenario che il transumanismo, almeno nelle sue versioni più caratterizzanti, considera, in ultima analisi, auspicabile e foriero di nuove dimensioni di libertà per l'umanità. Esso prefigura non solo un enorme business del rifacimento tecnologico dei corpi, in parte già attivo, ma anche una nuova eugenetica in cui si può ben immaginare quale sarebbe il grado di libera scelta, non solo degli animali non umani, ma anche di quella massa immensa di esseri umani che vive, oggi non meno di ieri, esposta all'arbitrio di potentati privi di ogni scrupolo. Esso annuncia un possibile nuovo salto nelle tecniche di cattura del consenso di un potere basato sull'inebetimento generalizzato che i nostri mass media, in gran parte, hanno già realizzato.
Sovrumanismo, ovvero, l'anima nazifascista del transumanismo messa a nudo
"Se [...] il transumanismo è una religione, la Valley è la sua Terra Santa. È lì che hanno sede «tutte le principali organizzazioni transumaniste» [...] dalla World Transhumanist Association, dedita alla diffusione del verbo in ambito accademico, dal 2007 a Palo Alto, alla Singularity University, che lo integra ai tradizionali percorsi di studi. Cofondatore è Ray Kurzweil, convinto che l'immortalità fisica sarà realtà intorno al 2045, e nel frattempo Director of Engineering a Google. Che, non a caso, figura insieme a LinkedIn tra i finanziatori dell'istituto. Del resto, «Aubrey De Grey, massimo teorico mondiale del longevismo radicale - per il quale l'aspettativa di vita umana potrebbe essere portata a cinquemila anni - tiene regolarmente seminari negli uffici di Mountain View a beneficio dei vertici dell'azienda». Lo stesso a Yahoo. E i soldi? Non sono un problema, se tra i sostenitori più generosi del movimento spicca il cofondatore di PayPal, Pieter Thiel, tra i primi investitori di Facebook e oggi amministratore di un hedge fund da due miliardi di dollari, Clarium Capital", scriveva Fabio Chiusi, nel 2014, recensendo sull'Espresso il volume di Roberto Manzocco Esseri Umani 2.0.
Se non è certo un caso che il transumanesimo abbia trovato nella Silicon Valley il proprio centro di irradiazione, e se ciò già dice delle sue finalità ultime, lo spazio specifico che tale movimento ha trovato nella periferica società italiana contribuisce, invece, a renderne esplicito un retroterra politico la cui impronta, pur evidente nell'oltranzismo eugenista dei capiscuola d'oltreoceano, era stata nei vari "manifesti" da essi redatta, formalmente, ma comunque esplicitamente, ricusata: la matrice nazi-fascista. Ne è portabandiera, in Italia, una corrente, interna al transuumanismo, quella "sovrumanista", esplicitamente ispirata al tecno-fascismo dell'"archeofuturista" Guillame Faye, a suo tempo fuoriuscito dal GRECE (Groupement de Recherches et Etudes pour la Cívilisation Européenne) e dalla Nouvelle Droite di Alain de Benoist, perché considerava troppo moderate e terzomondiste le loro posizioni.
Tra gli autori di riferimento dell'area, Giorgio Locchi, deceduto nel 1992, cofondatore con Alain de Benoist del GRECE (Groupement de Recherches et Etudes pour la Cívilisation Européenne) nel 1968, che in Espressione politica e repressione del principio sovrumanista (2006) scriveva: "non si comprende nulla del fascismo se non ci si rende conto o non si vuole ammettere che il cosiddetto 'fenomeno fascista' altro non è che la prima manifestazione politica d'un vasto fenomeno spirituale e culturale, che possiamo chiamare 'sovrumanismo'".
Cardine del "'principio sovrumanista'" era per Locchi il "rigetto assoluto" dell'"opposto 'principio egualitaristico'" a suo avviso dominante nei sistemi liberal-democratici: "Se i movimenti fascisti individuarono il 'nemico', spirituale prima ancora che politico, nelle ideologie democratiche - liberalismo, parlamentarismo, socialismo, comunismo, anarco-comunismo - è proprio perché nella prospettiva storica istituita dal principio sovrumanistico quelle ideologie si configurano come altrettante manifestazioni, successivamente comparse nella storia ma tutte ancora presenti, dell'opposto principio egualitaristico, tutte tendenti in definitiva allo stesso fine, con diverso grado di coscienza; e tutte insieme causa della decadenza spirituale e materiale dell'Europa, dell'avvilimento progressivo dell'uomo europeo, della disgregazione delle società occidentali" (ivi).
La corrente sovrumanista sembra essersi insediata, da qualche anno, saldamente all'interno dell'AIT (Associazione Italiana Transumanisti), una delle due associazioni italiane aderenti alla World Transhumanist Association, ed è in essa istituzionalmente rappresentata dal segretario nazionale dell'associazione. Avvocato, pubblicista, responsabile per l'Italia del Sécretariat Etudes et Recherches del GRECE, e docente di diritto delle nuove tecnologie all'università di Padova, è autore, fra l'altro, del pamphlet razzista Per l'autodifesa etnica totale. Riflessioni su "La colonisation de l'Europe" di Guillaume Faye (2001), e del volume Biopolitica (2005) che, giustamente, lo storico della scienza Paolo Rossi, nel suo Speranze (2008), definì "neonazista". Il nome di Guillaume Faye viene evocato, nel suddetto scritto, innanzitutto in quanto emblema di una "contrapposizione frontale all'umanesimo" concepito come dottrina che ha introdotto nel pensiero occidentale il concetto di "Diritti dell'Uomo" e la pretesa di una sua validità universale. L'autore presenta come autentiche perle di saggezza e anticonformismo pronunciamenti di Faye in nulla diversi da quelle chiacchiere razziste da bar che sono oggi luoghi comuni ovunque dominino umori esplicitamente xenofobi come quelli leghisti in Italia, lepenisti in Francia, quali: "Non siamo noi ad aver distrutto le loro culture", "il pauperismo di molti paesi del sud del mondo non è la conseguenza del colonialismo o del neo-colonialismo, ma dell'incapacità di farsi carico di se stessi" (cit in Faj, 2001, cit.). Su tali basi perora il tema dell'"autodifesa etnica totale "contro" la colonizzazione demografica che subisce l'Europa da parte dei popoli magrebini, africani ed asiatici e che si accoppia con un'impresa di conquista del suolo europeo da parte dell'Islam" (Faj, 2001, cit.).
"Autodifesa" che deve sostanziarsi, specifica l'autore, "in tutte quelle misure e reazioni immunitarie" che servono, non a governare, bensì a combattere "eventuali minacce di [...] colonizzazione demografica e culturale del proprio spazio storico" e a "mantenere e sviluppare la propria omogeneità razziale" (Faj, 2001). Essa, suggerisce l'autore, seguendo l'insegnamento di Faye, non dovrebbe "fermarsi alla sfera giuridico-amministrativa. Il problema non può in alcun modo essere risolto solo a livello «poliziesco», o di controllo delle frontiere" (ivi). Esso può essere affrontato, "solo a livello di consapevolezza e mobilitazione sociale generale", ovvero, fuor di metafora, promuovendo movimenti razzisti di massa e gruppi di attivisti capaci di "forzare molto più facilmente il quadro giuridico imposto dal Sistema e dalle ideologie dominanti, disgraziatamente oggi garantito a livello internazionale", perché disposti a mobilitarsi per esercitare anche con la violenza la pulizia etnica, come a suo tempo avveniva nella Germania prenazista e nazista. Se l'autore rivendica l'islamofobia e l'antislamismo senza remore e veli di Faye, vero e primo "nemico", per questo fautore di un nazifascismo cibernetico, "turbodinamico", "archeo" o neo-futurista, resta ogni movimento, ogni pensiero, ogni discorso, ogni comportamento che critichi o ostacoli il "dominio dell'uomo sull'uomo" (ivi).
Contro di essi, il sovrumanismo afferma l'utopia, al contempo, totalitaria e neo-liberista secondo la quale "in futuro la conservazione, l'evoluzione, o addirittura la nascita, di razze, lingue e culture diversificate avverrà solo in quanto frutto di una scelta deliberata in tal senso, che sola ne potrà determinare i contenuti e le caratteristiche, sulla base di valutazioni di natura essenzialmente estetica ed affettiva" (ivi).
FINE
THE FUTURE OF HUMANITY - Yuval Noah Harari
Royal Institution 2016 Sep
What I want to discuss is one particularly important possibility, the possibility that we are now facing, which is the rise of artificial intelligence and the potential that artificial intelligence will become the dominant life-form on Earth, and even beyond the Earth, and what would that mean for homo sapiens.
In order to understand this we need to maybe go a step backward and take the really long view, not just of history, but actually of biology, not just of the history of man, but really of the history of life. Because what's happening now is maybe not just the most important revolution in human history, but the most important revolution in biology since the beginning of life at least on Earth.
For the last four-billion years of life nothing much changed about the fundamental laws of life, all life forms for four-billion years evolved by natural selection and all life-forms were restricted to the organic realm. It doesn't matter if you're an amoeba or a giraffe or a tomato or a homo sapiens. You're made of organic compounds and you're subject to organic biochemistry.
This is now changing. We are on the verge not only of replacing natural selection with intelligent design (not the intelligent design of some God, our intelligent design!) as the motor of the evolution of life, we are also on the verge of allowing life to break out for the first time from the organic realm into the inorganic, and creating the first inorganic life forms after four-billion years of evolution. Which also implies that life will for the first time have a serious chance of breaking out of Earth and beginning to spread in the rest of the galaxy, in the rest of the universe.
Organic life has adapted to the very unique conditions of this planet for four-billion years, so despite what you see on Star Trek, it's extremely difficult to sustain organic life in outer space on other planets. Which is why it's very unlikely that organic life will be able to spread and to flourish outside Earth. Once you switch from organic to inorganic it becomes much easier. So we are really on the verge of these two intertwined revolutions, moving from the organic to the inorganic and moving from Earth to the rest of the universe, to the rest of the galaxy.
Coming back from the level of the galaxy to the level of day-to-day politics: "What will this mean for ordinary human beings, for society, for the job market, for the political system?"
I want to focus on one important issue, which is: "What will it do to the job market, and what will it do to the economic importance and power of ordinary humans in the next few decades?". This is a very practical question. Kids have just started the school year this week, and the question is: "What do they need to learn so that they will still be relevant and have a job when they are thirty or forty?". This is the kind of question which I think brings down the idea of artificial intelligence from the cloud and the galaxy to the level of society and economics and politics.
One of the big dangers which more and more experts are talking about is that in the next few decades, not in thousands of years, but within the lifetime of many of the people here, artificial intelligence will push humans out of the job market and in the same way that the industrial revolution of the 19th century created a new massive class of urban working people, the proletariat.
In the 21st century a new industrial revolution will create a new massive class, the "useless" class. People who have no economic usefulness because artificial intelligence outperforms them in almost all tasks. People who are not just unemployed, they are unemployable, there is no job to give to these people.
Let's start with a simple example: 10 years ago it was relatively accepted wisdom that our computers and artificial intelligence will never be able to drive cars and vehicles better than humans. Maybe in a laboratory under sterile conditions a computer could drive a car, but not in real-life situations, in a real city like London. Today more and more experts are coming to the opposite conclusion, it's only a question of time and not a very long time. Maybe in 10/20/30 years humans will not drive vehicles at all because artificial intelligence will be so much better at driving taxis and buses and trucks than human beings. It will not only drive more efficiently and more cheaply with less pollution, it will drive more safely than homo sapiens.
Every year 1.3 million people die each year from car accidents in the world. This is about twice as many death as the death caused by war, crime and terrorism put together. Most of these people get killed as a result of human mistakes, of human errors or negligence. Like people falling asleep while driving, like people drinking alcohol and then driving ignoring traffic lights and too fast. If you replace humans by artificial intelligence most of these errors will disappear, will be prevented. A self-driving car will never drink alcohol and then drive, a self-driving car will never fall asleep while driving if you program it correctly. It will never disobey the traffic laws, it will always stop at a stop sign.
Today each car is an individual unit. When two cars are approaching an intersection each car tries to signal its intention, but the two cars are really independent entities. Which is why sometimes they collide. If you prevent humans from driving and all the vehicles on the road, the logical and possible thing to do is to connect all of them one to the others, so there are no longer independent vehicles on the road. All vehicles are connected to a single network, to a single master algorithm which is far less likely to allow two of its puppets to collide.
There is a good chance that in 10/20/30 years all human drivers, or most human drivers, will be replaced by artificial intelligence and we shall have enormous good consequences. But it also means that millions of jobs will disappear. Same thing may happen with many many other professions.
One example: "What might happen to doctors?"
What doctors do is trying to diagnose my disease and then offer the best treatment possible. It's not so simple to go to the doctor. It takes time. I need to make an appointment. Doctor's not always available and even if I make an appointment for tomorrow morning I have to leave work and drive to the clinic. I then wait at the reception room for 10/20/30 minutes, and then eventually I get to see the doctor. My insurance pays for very short visits. Maybe five or ten minutes. That's all that my doctor usually has for me.
During these five or ten minutes when he tries to diagnose my disease, he would ask me three four questions about how I'm feeling. "Do you have a headache? Do you feel dizzy, something like that?". He may do one or two simple physical tests. He may ask me to look into my throat. He may take out a stethoscope and listen to my lungs or my heart. He may measure my heartbeat or my blood pressure. He also knows something about my medical history because he's my personal physician, but obviously he can't remember every illness I ever had, and every blood test and DNA scan I ever made. He may look it up on the computer. He takes these few bits of data about my present and past medical condition and now, in order to diagnose my disease, he needs to compare that with all the different diseases in the world. It could be influenza, it could be breast cancer... all kinds of things that might have these symptoms.
Even the best doctor in the world can't really be familiar with all the different medical conditions and all the different diseases in the world, and also he can't be updated every day about all the latest medical researches and articles and tests and drugs. Moreover he's sometimes tired, so he isn't always at his peak performance when he comes to diagnose my disease.
Now compare that to artificial intelligence doctors that are already being developed as we speak. The most famous example is IBM's Watson. Watson has immense advantages compared to my flesh-and-blood physician. First of all Watson can be everywhere, all the time on my smartphone. Wherever I go I can take my personal physician with me on the smartphone. It accompanies me 24 hours a day, 365 days a year. It has all the time in the world for me. If I want I can sit on my living room sofa and just ask questions about my health for hours and hours, and do all kinds of tests. In fact Watson doesn't need to wait for me to ask if something is wrong. Watson will be able to monitor my medical condition all the time, using biometric sensors on my body and inside my body. It can try to start a treatment even without my mind knowing about a developing condition.
Watson has no limit at all about the amount of data it can access and process. Watson will be able instantly to check my entire medical history, every illness I ever had, every blood test or every DNA test. Watson will be also able to access such data about my parents and siblings and neighbors and friends... and strangers. Watson will be familiar with all the different diseases in the world and with all the latest medical research, drug, treatment.
When people hear this they very often say: "Okay, maybe Watson will be better in diagnosing disease. But there is one thing one other thing that we usually hope human doctors will do and that Watson will not be able to do, and this is offer emotional support". A human doctor is not some cold machine that just diagnoses this disease and says take this pill, a good doctor is also very attentive to my emotional condition and also gives me the proper emotional support that in many cases is a vital part of confronting any kind of disease or medical condition.
This criticism fails to notice that emotions, at least according to modern science, are not some spiritual thing that God gave humans in order to appreciate poetry, emotions are a biochemical phenomenon. All mammals, all birds and many many other animals have emotions. It's a biochemical phenomenon. In this sense emotions are like diseases. It's extremely likely that Watson will be able to diagnose my emotional condition, just as it diagnoses my illnesses and my medical problems.
How does my human doctor recognize my emotional condition? He relies on two kinds of external signals: on visual signals like my facial expression, my body movement, my body language, and on audio signals, listening to what I say, not just the contents, but the tone of voice. He sits in his office, looking at my face and listening to my words, and this is how he knows if I'm angry, if I'm fearful, or whatever.
Will Watson be able to do that? Computers are already outperforming humans in diagnosing correctly, analyzing facial expressions and tone of voice. Watson will also have access to another and even better source of data about my emotions: data coming from within my body. When my doctor looks at me he sees my face, but he can't see my brain. He can't see my heart and he can't see what's happening inside me. Watson will be able to access biometric data from the brain, from the heart, from the bloodstream. Therefore is likely to be able to diagnose my emotional condition far better than any human doctor.
There are still problems, some technical problems and also legal problems, that prevent Watson and things like Watson from replacing most doctors tomorrow morning. But they need to solve these technical problems just once.
In order to train a human doctor you need ten years of medical school and doing all kinds of studying and experimenting and experiencing. A huge investment in time and money and energy. At the end of this process you get one doctor. If you want another doctor you have to start all over again, which is why in many countries around the world there is an acute shortage of doctors.
With an artificial intelligence doctor you just have to do it once. Even if it costs a hundred billion dollars to solve the technical problems that still prevent Watson from replacing my human doctor, if you invest these hundred billion dollars and solve the problems what you get is not one doctor, you get an infinite number of doctors, available everywhere, all the time, for everybody, even for somebody in the middle of the jungle. The potential is really immense, which is why more and more experts believe that many doctors, maybe 50/60/80% of doctors, will be replaced by artificial intelligence within 10/20/30 years.
Same thing may happen to many other professions: lawyers, teachers, insurance agents and so on. When people hear about this possibility one of the most common objections is to say: "We've heard it before. We've heard it before this fear of machines replacing humans. It's not new". A lot of people in the 19th and 20th century were afraid that as machines replace humans in agriculture, and then in industry, you'll have this massive unemployment and massive crisis. It didn't happen because as old jobs disappeared, new jobs appeared to replace them. So we don't have a crisis today of mass unemployment.
What happened? Most people in advanced societies stopped working in agricultural industry. In a country like UK or USA, about 2% of the workforce is employed in agriculture, compared to more than 90% before the industrial revolution. Another 15/20% works in industry. The vast majority is working in services. Problem is that we cannot be sure that the same thing will happen again with this new revolution.
Humans have basically two kinds of abilities: physical abilities and mental and cognitive abilities. What happened in the 90s and 20th century is that machines competed and outperformed humans in physical abilities, so humans mostly moved to working in jobs that require mental and cognitive abilities like the services sector. Now machines are starting to compete with us and outperform us also in mental and cognitive abilities, and we just don't know about any third kind of ability that humans may have, and that everybody could move to work on.
Another problem is that, even if new jobs appear, the pace of change is so quick that humans will have to reinvent themselves again and again during their lifetime. It's something that's very difficult beyond a certain age. When you are 15/20 the main thing you do in life is basically to re-invent yourself, and even then it's not very easy. When you're 40/50 it's much more difficult. Let's say that in 20 years there are no jobs for taxi drivers and doctors and insurance agents. They may have to reinvent themselves, as designers of virtual worlds. It's it's a very difficult question and it goes back to what I started with which is: "What to teach children today at school?" - the answer is that nobody has a clue.
Nobody knows what the job market would be like when these kids will be 30/40. It's very likely that almost everything they learn at school will be completely irrelevant. We just don't know what kind of job market we'll have in 2050 and what kind of skills people will need in this kind of so far unknown jobs.
As the 19th century created this new massive class, the "urban working" class, and much of the political and social history of the 90s and 20th century revolved around this new class... similarly, in the 21st century, we may see the rise of a new massive class, the "useless" class, and much of the social and political and economic history of the 21st century will revolve around that class.
What to do with billions and billions of economically useless people? Because they are economically useless, the danger is also that they will be politically powerless. Usually economic usefulness goes hand in hand with political power. As humans lose their economic usefulness they may also lose their political power. When you have all these millions of taxi drivers and truck drivers and bus drivers, each of them commands a small share of the transportation market.
This gives them not only a certain amount of economic wealth, it gives them a certain amount of political power. They can unionize. If the government pursues a policy which all these taxi drivers or truck drivers don't like, they can go and strike. If you replace all these drivers with driver-less cars, which are basically managed by a single algorithm, which is owned by a single corporation, which is owned by a handful of billionaires, all the economic and political power that was previously shared between millions of drivers is now being monopolized by maybe five or ten individuals.
As I said in the beginning, this is not a prophecy. Nobody really knows how the job market, how the economy, how the political system would look like in 2050. If you don't like this particular possibility, you can still do something about it.
THE END
SAREMO IL 99,999% - Enrico Voccia
Umanità Nuova 2016 Jan / 2016 Feb
Una notizia nei giorni scorsi ha fatto il giro della rete: in occasione del World Economic Forum di Davos, l'organizzazione non governativa Oxfam ha dimostrato, cifre alla mano, come il patrimonio accumulato dall'1% dei più ricchi al mondo ha superato lo scorso anno quello del 99% della popolazione mondiale, con un anno in anticipo rispetto alle previsioni. Inoltre, all'interno di questo dato, i 62 uomini più ricchi del mondo hanno una ricchezza equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale - all'incirca 62 contro 3.600.000.000, più o meno 1 contro 58.064.516: in pratica, ognuno di questi uomini guadagna all'incirca quanto un numero di essere umani pari al numero degli abitanti dell'Italia.
Il dato è certo impressionante, ma ancora di più dovrebbe impressionare la rapidità di crescita del fenomeno di concentrazione della ricchezza in poche mani: solo per fermarsi al numero dei "paperoni" la cui ricchezza era pari alla metà della popolazione mondiale più povera, solo cinque anni fa, nel 2010, erano 388 - sei volte tanto. Questo come altri dati similari segnalano una progressiva e velocissima polarizzazione della distribuzione delle risorse economiche, a livello sia mondiale, sia locale.
Di la dell'aspetto episodico, vale la pena analizzare il fenomeno a livello di storia delle società industriali, in quanto, da un certo punto di vista, esso non è nuovo, da un altro punto di vista, ci permette di ripercorrere il rapporto tra distribuzione della ricchezza e lotte sociali.
Primi Momenti del Capitalismo Industriale
I dati documentari inerenti i primi momenti della storia delle società industriali - 1740 ca / 1850 ca - sono molto frammentari, perciò è difficile capire quali siano state le dinamiche precise, in termini di distribuzione/polarizzazione delle ricchezza, rispetto alle società preindustriali. Ciononostante, un dato è evidente: l'industrializzazione ha comportato da subito un aumento della ricchezza prodotta, a vantaggio soprattutto dei detentori del capitale necessario all'acquisto ed alla conduzione delle nuove imprese: è perciò pressoché sicuro, anche se la quantificazione precisa è difficile, che il reddito del padrone di fabbrica relativamente al lavoratore dipendente superasse di molto la differenza di reddito tra il latifondista ed il suo fittavolo.
In ogni caso, vari studi hanno sicuramente dimostrato che le condizioni di vita medie, intese in termini di reddito/accesso ai beni, di un contadino dell'età preindustriale erano migliori, e di molto, di quelle dei lavoratori della prima fase della industrializzazione (e, ancora oggi, di quelle dei lavoratori delle fabbriche delle zone di "recente industrializzazione" - in altri termini, i paesi dove si tende a "delocalizzare" la produzione). Lo stesso si può dire per un confronto tra le condizioni di vita degli artigiani e degli operai.
Anche questi sono indici sicuri dell'avvio di un processo di polarizzazione della ricchezza sin dagli inizi della società industriale; non che prima non esistessero disuguaglianze sociali, ma la cosiddetta "forbice" del fenomeno cominciò ad assumere dimensioni imparagonabili a quelle delle società preindustriali.
Dalla metà dell'Ottocento alla Prima Guerra Mondiale
Nel periodo centrale del XIX secolo, la formazione delle prime associazioni operaie dovette - ma anche qui i dati non permettono una quantificazione precisa del fenomeno - portare ad un miglioramento facilmente avvertibile nelle condizioni di vita del proletariato: in ogni caso la ricerca storica è pressoché unanime sul tema. La formazione della Prima Associazione Internazionale dei Lavoratori e la Comune di Parigi sono il momento più alto di questo processo, che vede anche la definizione delle principali correnti teoriche del socialismo, un processo che viene però interrotto dalla "Grande Depressione" che va dal 1873 al 1896.
Come in quella successiva del 1929, la Grande Depressione del 1873 iniziò con una serie di crolli in borsa (il fenomeno qui però nacque in Europa, alla Borsa di Vienna l'8 Maggio, per poi successivamente spostarsi negli Stati Uniti il 18 Settembre), cui seguirono la chiusura di molte imprese, forti riduzioni salariali ed occupazionali, l'indebolimento del movimento operaio e socialista e, dal punto di vista che qui stiamo privilegiando, una concentrazione della ricchezza ed una "forbice" in termini di possibilità di accesso a beni e servizi che si incrementò sempre più.
La fine della crisi coincise con la ripresa in grande stile delle lotte operaie (è il periodo della formazione delle grandi centrali anarco-sindacaliste, che saranno le protagoniste di questo risveglio di attività e di conquiste): le conquiste salariali ed in termini di accesso ai servizi sociali innescò il meccanismo economico del moltiplicatore, portando ad un periodo di relativo benessere passato alla storia come la Belle Époque.
La genesi del periodo storico della Belle Époque è raramente associata alla ripresa delle lotte operaie, preferendo la maggioranza degli storici soffermarsi sulla questione delle conquiste coloniali. Molti studi empirici, però, hanno mostrato come, in realtà, dal punto di vista del rapporto costi/benefici, le colonie fossero, per l'occidente, un affare in piena perdita. Di conseguenza, la fine della Grande Depressione è da attribuirsi in maniera pressoché esclusiva alle conquiste operaie in termini di reddito e di accesso a servizi.
Il relativo benessere conquistato dal proletariato non interrompe, però, la tendenza che si era andata delineando alla concentrazione della ricchezza in poche mani. Fino all'inizio della Prima Guerra Mondiale, anzi, questa si concentra sempre più visibilmente: è il periodo dei grandi monopoli/oligopoli, della "finanziarizzazione" dell'economia tramite la creazione di enormi banche anch'esse tendenzialmente oligopolistiche, dei primi "paperoni" che divengono anche personaggi mediatici. In effetti, lo sviluppo economico delle possibilità di consumo delle classi lavoratrici è una conquista completamente dovuta al ciclo di lotte dell'epoca, che vede il padronato costretto a concedere maggiori fette di reddito. Nel frattempo, però, aumenta sempre più il divario tra le classi che possiedono il capitale ed il resto della società. Secondo il documentato studio di Piketty, in questo periodo nei paesi maggiormente industrializzati la disuguaglianza raggiunse il picco tra il 1900 e il 1910: l'1 per cento superiore della popolazione possedeva circa il 50 per cento delle ricchezze, il 10 per cento superiore circa il 90 per cento ed il resto della società il rimanente (per la maggior parte in forma di proprietà delle case di abitazione).
Insomma, una situazione paragonabile a quella denunciata da Oxfam per il presente, caratterizzata anche da un altra somiglianza: la tassazione sui redditi da capitale, nel periodo considerato, così come oggi, a livelli minimi. Qui, ovviamente, si è trattato, ieri come oggi, di una decisione politica: la concentrazione delle ricchezze mostra, perciò, una sensibile dipendenza dalle politiche statali, come si vedrà adesso.
La Grande Guerra dei Trent'Anni del Novecento
Lo storico inglese Hobsbawm ha definito a ragione il periodo che va dal 1914 al 1945 la "Grande Guerra dei Trent'Anni del Novecento". In effetti, fu un periodo in cui lo stesso gruppo di potenze, con qualche aggiustamento in corso d'opera delle alleanze, si batterono continuamente: a parte l'invasione francese di alcune parti della Germania negli anni venti ed il periodo spagnolo del 1936-1939 (Albert Camus, ma non solo lui, negli anni cinquanta, suggeriva di considerare il 1936 il vero inizio della Seconda Guerra Mondiale), basta spostare l'attenzione al resto del mondo, particolarmente all'Asia invasa dalle truppe giapponesi molti anni prima dell'epopea spagnola per accorgersi che i periodi di pace tra le potenze in lotta, in quei trent'anni, furono ben pochi. Il che comportò un enorme sforzo economico per sostenere il continuo impegno bellico; uno sforzo che ricadde, come sempre, sulle spalle delle classi lavoratrici ma, per l'enormità delle spese in gioco, gli Stati cominciarono ad innalzare anche le tasse sui redditi da capitale e da profitti di impresa.
Questo comportò una qual certa riduzione della forbice della ricchezza tra le classi sociali, perché la tassazione sui redditi delle classi superiori fu davvero consistente. Lo Stato, in questo periodo, ripaga però in qualche modo le classi abbienti della diminuzione dei loro redditi tramite le politiche istituzionali totalitarie, che misero in ginocchio il movimento operaio e socialista, dando al padronato un comando assoluto sulla forza lavoro. Inoltre, le ingenti spese statali danno fiato anche a tutta una serie di imprese medio/piccole, quasi del tutto scomparse durante il periodo precedente.
All'interno di questo periodo, avvenne la Grande Depressione (la Grande Crisi, se si preferisce) del 1929 che, come quella del 1873, comportò la chiusura di molte imprese, forti riduzioni salariali ed occupazionali, l'indebolimento del movimento operaio e socialista ma, appunto, mancò l'aspetto che aveva caratterizzato la crisi del 1873, insomma l'aumento della concentrazione della ricchezza e della forbice di essa tra le classi sociali. Il che, ovviamente, non implicò affatto un miglioramento delle condizioni di vita della classi lavoratrici che persero enormi quote di reddito e, nonostante le favole sulle "politiche sociali" dei governi totalitari, di accesso ai servizi sociali.
I Trent'Anni Gloriosi
Gli anni che vanno dal Secondo Dopoguerra sono oramai passati alla storia come i "Trent'Anni Gloriosi", per il notevole incremento del reddito e dei servizi dedicati alla classi lavoratrici che, nelle fasce generazionali che l'hanno attraversata, pensano ad essa come ad una sorta di "periodo d'oro" delle loro condizioni di vita e di lavoro. Anche in questo caso, gli storici sottovalutano il ruolo delle lotte dei lavoratori nel portare a questi "anni gloriosi" (sempre relativamente al presente, ovvio).
Innanzitutto, non è casuale che le prime esperienze di "stato sociale" avvengano, a partire dal 1933, in quegli Stati Uniti dove il nazifascismo non era riuscito a prendere piede e, nonostante una democrazia dai caratteri decisamente autoritari, il movimento operaio era molto forte, radicato e dai caratteri marcatamente libertari - il che, come abbiamo visto per la ripresa che portò alla Belle Époque, non è un dato secondario.
Insomma, in un luogo dove era più facile che la crisi del 1929 (che tra l'altro aveva "buttato a sinistra" e non a destra le classi medie) portasse a sbocchi rivoluzionari e, di conseguenza, le classi dominanti erano più propense a concessioni. Inoltre, nel dopoguerra europeo, le masse lavoratrici uscivano dall'esperienza resistenziale - in altri termini, erano armate (anche se non ufficialmente) e facilmente disposte ad esiti insurrezionali: lo "stato sociale" di matrice keynesiana nasce anche qui come meccanismo di mediazione sociale. Questo meccanismo di mediazione è funzionale allo scopo ma è altrettanto costoso, dal punto di vista del capitale, della "Grande Guerra dei Trent'Anni" ed ha comportato un sistema di tassazione progressiva notevolmente oneroso per le classi ricche. Diremo meglio: per i "paperoni", in altre parole per quelli che il sociologo statunitense Vance Packard analizzò in un suo famoso testo, non a caso pubblicato nel 1989 quando era oramai evidente che questi si erano riaffacciati sulla scena, insieme alla concentrazione delle ricchezze in poche mani ed ad un nuovo allargamento della forbice sociale delle condizioni di vita.
Infatti, come negli anni dal 1914 al 1945, le enormi spese pubbliche (stavolta fortunatamente in buona parte rivolte ai servizi sociali), si riversarono non solo a favore del proletariato, ma anche delle classi medie; inoltre anche il numero delle aziende di medie e piccole dimensioni aumentò, portando ad una redistribuzione della ricchezza, nel senso di una maggiore diffusione di essa, anche tra le classi davvero ricche e non semplicemente benestanti. A metà degli anni Settanta, però, terminata la paura della rivoluzione e dietro il paravento ideologico del "nuovo che avanza", il vecchio tornò alla grande.
I Quarant'Anni Ingloriosi. Il Presente
In un certo senso, quindi, il "neo"liberismo è stato ed è tuttora un gioco al massacro, che ricorda la saga Highlander - ne resterà solo uno... La "rivoluzione capitalistica" preconizzata dai Chicago Boys ed attuata da Thatcher e Reagan ha utilizzato ancora una volta la chiave della leva fiscale per una redistribuzione della ricchezza che portasse le cose ai tempi della Belle Époque, con i suoi monopoli/oligopoli ed i suoi Rockfeller, ma senza tutte quelle fastidiose imprese medio/piccole, quelle classi medie non proletarizzate, quel miserabile proletariato "che voleva il figlio dottore" e quei servizi sociali inutili a chi scuole, cliniche, trasporti li possiede direttamente.
Un esempio italiano per tutti, dato lo spazio ridotto - l'IRPEF. Alle sue origini, l'Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche era stata pensata in senso "keynesiano", come una tipica imposta progressiva e redistributiva della ricchezza: istituita con la riforma del sistema tributario del 1974, conteneva trentadue aliquote (dal 10% al 72%) per gli scaglioni di reddito da 2 a 500 milioni di lire. Gradatamente, il "nuovo che avanza" e la "riduzione delle imposte" (per i ricchi, ma questo non lo specificano) hanno "semplificato" gli scaglioni di reddito: senza farla lunga a ripercorrere le varie modificazioni, comunque sempre peggiorative, oggi abbiamo da trentadue siamo scesi a soli cinque scaglioni: 23% fino a 15.000 euro, 27% da 15.001 a 28.000 + 27% della parte del reddito eccedente 15.000, 38% da 28.001 a 55.000 + 38% della parte del reddito eccedente 28.000, 41% da 55.001 a 75.000 + 27% della parte del reddito eccedente 55.000, 43% da 75.00 euro in poi + 43% della parte del reddito eccedente 75.000. In pratica, relativamente alla situazione di partenza. una diminuzione netta del carico fiscale man mano che si diventa più ricchi, un aggravio man mano che si diventa più poveri.
La storia dell'IRPEF italiana è esemplificativa della tendenza generale a livello mondiale: la situazione descritta all'inizio di questo articolo, con questa impressionante e rapidissima polarizzazione della ricchezza, la povertà sempre crescente, ecc. è stata coscientemente voluta da scelte di politica economica e fiscale degli Stati.
Sessantadue? Ancora Troppi
Le politiche di detassazione (dei ricchi) portano inevitabilmente, come dicevamo, ad una progressiva e velocissima polarizzazione della distribuzione delle risorse economiche, a livello sia mondiale, sia locale. La cosiddetta "globalizzazione" ha a suo fondamento una uniformazione delle politiche economiche e fiscali a livello globale, che, salvo dove siamo stati in presenza di rivolte davvero di massa, dal carattere libertario e molto decise, dura da quarant'anni ed il ritornello dei politici d'ogni risma è: deve continuare, non c'é alternativa. Non abbiamo ancora visto niente e ci sbagliamo di grosso se pensiamo che i potenti della terra abbiamo una minima intenzione di fare marcia indietro.
I processi di proletarizzazione delle classi medie, di immiserimento generale, di distruzione dei servizi sociali, in mancanza di una reale e molto decisa opposizione di massa, continueranno imperterriti: la prospettiva che abbiamo davanti è degna delle migliori utopie al negativo. In Europa la situazione è resa difficile dal fatto che è meno tempo - rispetto a luoghi come l'Islanda, gli Stati Uniti, l'America Latina, dove sono avvenute rivolte che hanno portato a significative inversioni locali di tendenza - che qui si applicano le ricette dei Chicago Boys e, di conseguenza, siamo mediamente più esposti ai loro inganni ideologici.
Chi soggettivamente vorrebbe opporsi in buona fede - il caso più eclatante è quello dei grillini - nella maggior parte dei casi non riesce ad uscire dalla logica Highlander delle politiche economiche degli ultimi anni e continua a credere che i mercati correggono efficientemente le crisi e realizzano l'ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi, abbassano i prezzi e le tariffe, che la spesa pubblica sia la causa del debito pubblico, è la causa delle tasse ai meno abbienti, della recessione, ecc., per cui questi oppositori spesso e volentieri non sanno far altro che proporre la stessa cosa che si fa ingloriosamente da quarant'anni: tagliare la spesa pubblica sociale, diminuire le tasse (ai ricchi), privatizzare... Questo quando non si crede anche che riducendo salari e diritti dei lavoratori, facilitando licenziamenti e rendendo impossibili gli scioperi, i costi di produzione calano, si diventa più "competitivi", la disoccupazione diminuisce, la domanda interna non cala, gli investimenti aumentano e magari diventiamo tutti più ricchi, e via favoleggiando - oggi, come ai tempi della Belle Époque, non a caso caratterizzati dalla stessa ideologia dominante.
Come uscire da questa gabbia? La via di fuga volge sia verso il passato, sia verso il futuro. Verso il passato, perché occorre che i movimenti di opposizione comprendano che non c'è granché di nuovo nella situazione presente, nessun "nuovo che avanza", ma un "vecchio che ritorna" ed è alle forme di organizzazione (società di mutuo soccorso, sindacalismo rivoluzionario e libertario) che hanno saputo reinvertire la rotta (non a caso il movimento new global ed Occupy ne hanno mutuato varie forme sotto l'influenza ideologica dell'IWW) che bisogna rivolgere lo sguardo. Verso il futuro, perché stavolta dovremmo avere la chiarezza che qualunque piccola concessione il potere conceda, la ritirerà appena possibile e la realizzazione di una società radicalmente egualitaria ed autogestionaria dovrà restare sempre presente nell'azione quotidiana come obiettivo da non dimenticare. Mai.
FINE
WHY HUMANS RUN THE WORLD - Yuval Noah Harari
TED 2015 Jun
Seventy-thousand years ago, our ancestors were insignificant animals. The most important thing to know about prehistoric humans is that they were unimportant. Their impact on the world was not much greater than that of jellyfish or fireflies or woodpeckers.
Today, in contrast, we control this planet. And the question is: "How did we come from there to here?"
How did we turn ourselves from insignificant apes, minding their own business in a corner of Africa, into the rulers of planet Earth?
Usually, we look for the difference between us and all the other animals on the individual level. We want to believe - I want to believe - that there is something special about me, about my body, about my brain, that makes me so superior to a dog or a pig, or a chimpanzee.
But the truth is that, on the individual level, I'm embarrassingly similar to a chimpanzee. And if you take me and a chimpanzee and put us together on some lonely island, and we had to struggle for survival to see who survives better, I would definitely place my bet on the chimpanzee, not on myself. And this is not something wrong with me personally.
I guess if they took almost any one of you, and placed you alone with a chimpanzee on some island, the chimpanzee would do much better.
The real difference between humans and all other animals is not on the individual level, it's on the collective level. Humans control the planet because they are the only animals that can cooperate both flexibly and in very large numbers.
There are other animals - like the social insects, the bees, the ants - that can cooperate in large numbers, but they don't do so flexibly. Their cooperation is very rigid.
There is basically just one way in which a beehive can function. And if there's a new opportunity or a new danger, the bees cannot reinvent the social system overnight. They cannot, for example, execute the queen and establish a republic of bees, or a communist dictatorship of worker bees.
Other animals, like the social mammals - the wolves, the elephants, the dolphins, the chimpanzees - they can cooperate much more flexibly, but they do so only in small numbers, because cooperation among chimpanzees is based on intimate knowledge, one of the other.
I'm a chimpanzee and you're a chimpanzee, and I want to cooperate with you. I need to know you personally. What kind of chimpanzee are you? Are you a nice chimpanzee? Are you an evil chimpanzee? Are you trustworthy? If I don't know you, how can I cooperate with you?
The only animal that can combine the two abilities together and cooperate both flexibly and still do so in very large numbers is us, Homo sapiens.
One versus one, or even 10 versus 10, chimpanzees might be better than us. But, if you pit 1000 humans against 1000 chimpanzees, the humans will win easily, for the simple reason that a thousand chimpanzees cannot cooperate at all.
And if you now try to cram 100000 chimpanzees into Oxford Street, or into Wembley Stadium, or Tienanmen Square or the Vatican, you will get chaos, complete chaos. Just imagine Wembley Stadium with 100000 chimpanzees. Complete madness.
In contrast, humans normally gather there in tens of thousands, and what we get is not chaos, usually. What we get is extremely sophisticated and effective networks of cooperation.
All the huge achievements of humankind throughout history, whether it's building the pyramids or flying to the Moon, have been based not on individual abilities, but on this ability to cooperate flexibly in large numbers.
Think even about this very talk that I'm giving now. I'm standing here in front of an audience of about 300 or 400 people, most of you are complete strangers to me. Similarly, I don't really know all the people who have organized and worked on this event. I don't know the pilot and the crew members of the plane that brought me over here, yesterday, to London. I don't know the people who invented and manufactured this microphone and these cameras, which are recording what I'm saying. I don't know the people who wrote all the books and articles that I read in preparation for this talk. And I certainly don't know all the people who might be watching this talk over the internet, somewhere in Buenos Aires or in New Delhi.
Nevertheless, even though we don't know each other, we can work together to create this global exchange of ideas.
This is something chimpanzees cannot do. They communicate, of course, but you will never catch a chimpanzee traveling to some distant chimpanzee band to give them a talk about bananas or about elephants, or anything else that might interest chimpanzees.
Cooperation is, of course, not always nice. All the horrible things humans have been doing throughout history - and we have been doing some very horrible things - all those things are also based on large-scale cooperation.
Prisons are a system of cooperation, slaughterhouses are a system of cooperation, concentration camps are a system of cooperation. Chimpanzees don't have slaughterhouses and prisons and concentration camps.
Now suppose I've managed to convince you perhaps that yes, we control the world because we can cooperate flexibly in large numbers. The next question that immediately arises in the mind of an inquisitive listener is: "How, exactly, do we do it? What enables us alone, of all the animals, to cooperate in such a way?"
The answer is our imagination. We can cooperate flexibly with countless numbers of strangers, because we alone, of all the animals on the planet, can create and believe fictions, fictional stories. And as long as everybody believes in the same fiction, everybody obeys and follows the same rules, the same norms, the same values.
All other animals use their communication system only to describe reality. A chimpanzee may say, "Look! There's a lion, let's run away!". Or, "Look! There's a banana tree over there! Let's go and get bananas!". Humans, in contrast, use their language not merely to describe reality, but also to create new realities, fictional realities.
A human can say, "Look, there is a god above the clouds! And if you don't do what I tell you to do, when you die, God will punish you and send you to hell". And if you all believe this story that I've invented, then you will follow the same norms and laws and values, and you can cooperate. This is something only humans can do.
You can never convince a chimpanzee to give you a banana by promising him, "After you die, you'll go to chimpanzee heaven... and you'll receive lots and lots of bananas for your good deeds. So now give me this banana". No chimpanzee will ever believe such a story. Only humans believe such stories, which is why we control the world, whereas the chimpanzees are locked up in zoos and research laboratories.
Now you may find it acceptable that yes, in the religious field, humans cooperate by believing in the same fictions. Millions of people come together to build a cathedral or a mosque or fight in a crusade or a jihad, because they all believe in the same stories about God and heaven and hell. But what I want to emphasize is that exactly the same mechanism underlies all other forms of mass-scale human cooperation, not only in the religious field.
Take, for example, the legal field. Most legal systems today in the world are based on a belief in human rights. But what are human rights? Human rights, just like God and heaven, are just a story that we've invented. They are not an objective reality, they are not some biological effect about homo sapiens. Take a human being, cut him open, look inside, you will find the heart, the kidneys, neurons, hormones, DNA, but you won't find any rights. The only place you find rights are in the stories that we have invented and spread around over the last few centuries.
They may be very positive stories, very good stories, but they're still just fictional stories that we've invented. The same is true of the political field. The most important factors in modern politics are states and nations. But what are states and nations? They are not an objective reality. A mountain is an objective reality. You can see it, you can touch it, you can even smell it. But a nation or a state, like Israel or Iran or France or Germany, this is just a story that we've invented and became extremely attached to.
The same is true of the economic field. The most important actors today in the global economy are companies and corporations. Many of you today, perhaps, work for a corporation, like Google or Toyota or McDonald's. What exactly are these things? They are what lawyers call legal fictions. They are stories invented and maintained by the powerful wizards we call lawyers.
And what do corporations do all day? Mostly, they try to make money. Yet, what is money? Again, money is not an objective reality, it has no objective value. Take this green piece of paper, the dollar bill. Look at it - it has no value. You cannot eat it, you cannot drink it, you cannot wear it. But then came along these master storytellers - the big bankers, the finance ministers, the prime ministers - and they tell us a very convincing story: "Look, you see this green piece of paper? It is actually worth 10 bananas". And if I believe it, and you believe it, and everybody believes it, it actually works.
I can take this worthless piece of paper, go to the supermarket, give it to a complete stranger whom I've never met before, and get, in exchange, real bananas which I can actually eat. This is something amazing. You could never do it with chimpanzees. Chimpanzees trade, of course: "Yes, you give me a coconut, I'll give you a banana". That can work. But, "You give me a worthless piece of paper and you except me to give you a banana? No way! What do you think I am, a human?"
Money, in fact, is the most successful story ever invented and told by humans, because it is the only story everybody believes. Not everybody believes in God, not everybody believes in human rights, not everybody believes in nationalism, but everybody believes in money, and in the dollar bill.
To conclude, then: We humans control the world because we live in a dual reality. All other animals live in an objective reality. Their reality consists of objective entities, like rivers and trees and lions and elephants. We humans, we also live in an objective reality. In our world, too, there are rivers and trees and lions and elephants. But over the centuries, we have constructed on top of this objective reality a second layer of fictional reality, a reality made of fictional entities, like nations, like gods, like money, like corporations.
And what is amazing is that as history unfolded, this fictional reality became more and more powerful so that today, the most powerful forces in the world are these fictional entities. Today, the very survival of rivers and trees and lions and elephants depends on the decisions and wishes of fictional entities, like the United States, like Google, like the World Bank - entities that exist only in our own imagination.
THE END
STATO SOCIALE: NO GRAZIE - Mario Bertelli
A-Rivista Anarchica 1996 Feb
Vorrei rispondere all'iracondo comunista «rifondato» Gianni Melillo che su A rivista anarchica numero 221 ha accusato noi anarchici di non far nulla per difendere lo stato sociale.
Come prima cosa, bisogna farla finita una volta per tutte con quell'ingiustificato complesso di inferiorità che tanti anarchici ancora provano verso l'ideologia e il movimento comunista. Quello tra anarchici e comunisti è stato storicamente, senza eccezioni, un rapporto tra massacrati e massacratori, tra epurati e ed epuratori. I comunisti alla Melillo non hanno alcun titolo per dar lezioni a chicchessia, né a noi, né ad altri, perché le loro idee hanno partorito regimi tra i più efferati della storia, dove il massimo della miseria si è coniugata col minimo di libertà. L'anarchismo, rifiutando ogni forma di stato, non può che essere avverso anche al cosiddetto «stato sociale», che altro poi non è se non un gigantesco imbroglio con cui alcune classi parassitarie altolocate (politici e politicanti con annesse clientele, burocrati, grossi industriali protetti dallo stato, e altri ceti intellettuali) estorcono con la forza ricchezze a coloro che le producono (operai, lavoratori dipendenti del settore privato, artigiani, piccoli imprenditori, e così via).
Non conoscevo prima d'ora la dottrina anarco-capitalista, ma mi sembra che la sua idea centrale (quella, se ho ben capito, secondo cui nessuna autorità può schiavizzare l'individuo, costringendolo a disporre, in favore di altri, del proprio tempo e della propria fatica) sia molto vicina a quella che dovrebbe essere l'ispirazione autentica dell'anarchismo. Pur essendo all'oscuro delle teorizzazioni di questi libertari americani, non avevo mai dubitato della natura essenzialmente criminale di tutte quelle strutture statali e parastatali (INPS, USL, IRI, e così via) che compongono lo «stato sociale». Se c'è una categoria che viene quotidianamente depredata dallo stato, con il pretesto della socialità, è proprio quella operaia. Lo sa Gianni Melillo che, tra imposte dirette, indirette, tasse e contributi, la nomenklatura preleva dalla busta paga di un operaio quasi il 60% del suo salario? Un lavoratore dipendente che guadagna, ad esempio, unmilionecinquecentomila netto al mese versa alla burocrazia che gestisce lo «stato sociale», sempre ogni mese, novecentomila all'INPS, centocinquantamila all'INAIL, più di duecentomila al servizio sanitario nazionale, e circa trecentomila lire di IRPEF (per non parlare delle imposte indirette sui generi di consumo, sulla benzina, sulle sigarette, e così via).
Mi piacerebbe fare una scommessa con Melillo: lasciamo ogni lavoratore libero di decidere se continuare a finanziare lo «stato sociale», o se amministrarsi da solo i propri guadagni, rinunciando ai servizi offerti dal settore pubblico. Io sono convinto, e pronto a giocarmi tutto, che il 95% di loro fuggirebbe a gambe levate, ma con lo stipendio raddoppiato, dal-l'INPS, dalle USL, dalle scuole pubbliche e da ogni altra costrizione statale. I contributi sociali sono obbligatori e non volontari proprio perché, altrimenti, migliaia di inutili politici, burocrati, sindacalisti e approfittatori vari vedrebbero svanire la fonte delle loro entrate e del loro potere clientelare. Con le cifre iperboliche che ogni mese un operaio paga all'INPS, qualsiasi investitore privato potrebbe offrirgli, al termine della vita lavorativa, un vitalizio di duecento o trecentomilioni superiore alla pensione da fame pubblica. Provi Melillo a fare due conti! Gli artefici e i sostenitori del racket pensionistico di stato, invece di lamentarsi, dovrebbero piuttosto risarcire ogni lavoratore italiano del danno subito, e garantire col proprio patrimonio il pagamento delle pensioni future.
Questi non sono gli unici esempi dell'accanimento dello «stato sociale» nei confronti dei poveri: basti pensare alla famiglia operaia costretta a pagare imposte per finanziare gli studi universitari del notaio o del chirurgo; oppure i teatri e le manifestazioni culturali frequentate dalle classi più elevate, e così via. Dovrebbe dunque essere evidente che l'adorazione e la divinizzazione dello stato, con cui i comunisti si sono ideologicamente intossicati, è quanto di più lontano vi possa essere dall'idea anarchica, che è idea di libertà, anche di poter godere per intero (e non solo al 40%) dei frutti del proprio lavoro.
FINE
CAPITALISMO, MERCATO E ANARCHIA - Pietro Adamo
A-Rivista Anarchica 1985 May
Al saggio in difesa dell'anarco-capitalismo pubblicato nelle pagine precedenti, Pietro Adamo replica mettendo in luce le ambiguità di quel pensiero. A partire dall'assurda pretesa di conciliare il capitalismo - cioè una forma di dominio - con l'anarchismo che del dominio è la negazione
Nel 1969, durante il raduno della YAF (Young American for Freedom), l'organizzazione giovanile del partito repubblicano, non pochi astanti rimasero probabilmente sbalorditi di fronte alla totale polarizzazione della convenzione: da un lato i fiancheggiatori della contro cultura, contrari all'impegno bellico in Vietnam, favorevoli alla liberalizzazione del consumo delle «droghe» (o delle sostanze ritenute tali) e allarmati dal peso crescente dell'«intrusione» governativa nelle vite dei cittadini, dall'altro gli esponenti della nuova destra, legati alla maggioranza silenziosa prosaicamente borghese, sensibili alle influenze del fondamentalismo religioso, vicini al maccartismo. Il risultato fu la spaccatura nell'organizzazione. Negli anni successivi i giovani repubblicani «libertari» avrebbero fondato riviste, organizzato movimenti e scritto libri, costruendo una visione politico-economica complessa, a cui è stato spesso conferito il titolo di «anarco-capitalismo». Nel 1971 fu fondato il Libertarian Party, che alle elezioni presidenziali del 1976 divenne addirittura il terzo partito. I testi probabilmente più significativi dal punto di vista teorico sono stati pubblicati nei primi anni settanta, da Jerome Tuccille (Radical Libertarianism: a Right-Wing Alternative, 1970), Linda e Morris Tannehill (The Market for Liberty, 1970, 1972), Murray Rothbard (For a new Liberty, 1973), David Friedman (The Machinery of Freedom, 1973), cui bisogna aggiungere i contributi di molti altri, tra cui Karl Hess, Leonard Liggio, Roy Childs e soprattutto Robert Nozick (Anarchy, State and Utopia, 1971), il cui testo divenne un'importante fonte d'ispirazione per il movimento. In Italia gli anarco-capitalisti comparvero nel 1977, con i tre numeri di CLAUSTROFOBIA (diretto da Riccardo La Conca). Oggi nel movimento - e nei suoi dintorni ultraliberali e antistatisti - si muovono intellettuali dalla matrice più diversa: per esempio, tra quelli conosciuti anche nel nostro paese, Paul Johnson, James Buchanan e Thomas Szasz.
Libertari di destra?
I punti di riferimento degli anarco-capitalisti sono estremamente compositi. Per molti versi essi si propongono come i legittimi eredi della tradizione liberal-radicale che, nelle sue molteplici sfaccettature, attraversa l'intero spettro del pensiero americano: da Thomas Paine a Thomas Jefferson, da Henry David Thoreau a Walt Whitman, da Albert Jay Nock a H. L. Mencken. In questa prospettiva rientrano anche gli anarco-individualisti, in particolare Lysander Spooner e Benjamin Tucker (e non, pace Piombini, Josiah Warren, estraneo al quadro intellettuale della «destra libertaria»). Inoltre, alcuni si rifanno al cosiddetto «obbiettivismo», la «filosofia» di Ayn Rand, uno strepitoso miscuglio di esaltazione superomistica, disprezzo per i valori comunitari e solidaristici e progetti di «minimizzazione» dello stato, nella convinzione della suprema funzione regolatrice e creatrice del capitalismo. Altra ispirazione significativa è quella proveniente dagli scritti della scuola economico-filosofica austriaca (von Hayek, von Mises, Schumpeter, eccetera), della quale Murray Rothbard - per certi versi il maggior esponente dell'anarco-capitalismo - si considera allievo, e alla quale viene spesso accostata - per assonanze politico-intellettuali - la scuola di Chicago di Milton Friedman, altro economista-filosofo liberale ultrà.
Concordo pienamente con la conclusione di Guglielmo Piombini: qualche robusta iniezione di anarco-individualismo non farà che bene al libertarismo italiano, a volte platealmente ricompreso entro orizzonti e prospettive più tipici della tradizione comunista che della sua. Inoltre, mi piace immaginare la società anarchica del futuro negli stessi termini usati dal nostro amico anarco-capitalista: una «struttura di fondo» che permetta la coesistenza degli esperimenti economici - e intellettuali, sociali, ecc. - più diversi, in modo da valorizzare al massimo opzioni e scelte individuali. Come scrisse John Milton - ahimè, ripreso persino da Milton Friedman - freedom is choice: la libertà consiste nella scelta. E tuttavia, non credo affatto che si possa trovare un'adeguata descrizione/prescrizione di questa struttura di fondo negli scritti dei teorici del Libertarian Party e nei loro affiliati, anche se non pochi sono i suggerimenti in questo senso forniti da Rothbard e compagni. Le analisi degli anarco-capitalisti sono fondate sull'accettazione di un ethos in cui le categorie di autorità e dominio sono ancora fortemente presenti: in molti casi la logica libertaria dei loro scritti si sviluppa lungo le linee di un banale, semplicistico e limitato antistatalismo. Mi pare che lo stesso scritto di Piombini ne metta in evidenza le caratteristiche concettuali e culturali meno convincenti: una teoria del dominio limitata, una definizione astratta - quasi astorica - del potere regolatore del capitalismo, una frettolosa equiparazione tra società di mercato e capitalismo reale. Inoltre, mi pare che Piombini - anche in questo riflettendo le opinioni di non pochi maitres a pensée statunitensi - pensi alla tradizione anarchica nei termini di un'epocale confronto tra istanze individualiste e istanze collettiviste e ritenga che queste ultime siano prevalenti: ma, per esempio, potrei assicurargli che tra i collaboratori di «A - rivista anarchica» - parlo di persone che conosco - non pochi rifiuterebbero di essere in qualsiasi modo identificati non solo con opzioni collettiviste, ma persino con opzioni socialiste. Condivido pienamente le critiche di Piombini e dei suoi eroi a ogni collettivismo coartato. Devo però ricordargli che idee di questo genere sono rare nell'anarchismo. #200; peraltro mia opinione che il collettivismo, in qualsiasi sua forma - coartata o meno - sia incompatibile con i principi fondanti dell'anarchia: per dirla con Camillo Berneri, la società anarchica non può essere «la società dell'armonia assoluta, ma la società della tolleranza», della differenza, della pluralità. #200; vero che in molti settori dell'anarchismo italiano contemporaneo la «tentazione socialista» è ancora formidabile: ma non pochi di questi social-libertari intendono la loro scelta come strategia contingente, dettata dalle concrete circostanze storiche piuttosto che da motivazioni teoriche di fondo. #200; anche vero che altri continuano a dirsi anarco-comunisti nel solco kropotkiniano: ammetto anche che ogni tanto - ma solo ogni tanto - alcune loro pagine o alcuni loro brani mi provocano brividi alla schiena.
Quando gli anarco-capitalisti si occupano delle tendenze generali della società moderna alla soppressione dell'individualità, al controllo mentale e materiale dei singoli, all'esproprio di alcuni diritti fondamentali da parte delle diverse istituzioni statali, parastatali, democratiche, liberali, ecc., i loro argomenti e le loro pagine non differiscono da quelle degli altri espositori anarchici del tema: l'«afflato libertario» - ha ragione Piombini - è lo stesso. Anche all'interno del Libertarian Party che è appunto un partito e quindi partecipa alla elezioni - l'atteggiamento da tenere nei confronti dello stato è stato più volte dibattuto. Alcuni adottano strategie tipiche del movimento anarchico - realisti almeno quanto il re - rifiutandosi di votare; altri insistono sulla teoria dello «stato minimo», richiamandosi ad Ayn Rand o magari a Robert Nozick, per il quale lo «stato» si configura in sostanza come una libera associazione tra libere associazioni. La retorica degli anarco-capitalisti è violentemente antistatista: ciò che li distingue dai loro «compagni» di altre impostazioni è quindi il giudizio sul capitalismo.
Capitalismo ideale, reale o immaginario
Anche in questo caso si registrano differenti interpretazioni: vi è grande distanza tra l'esaltazione del bigbusiness di Ayn Rand - che ritiene i grandi imprenditori, insieme agli artisti, l'espressione più compiuta della creatività individuale - e i sospetti verso il grande capitale corporato che animano gli scritti di David Friedman o dei due Tannehill. Questa frattura ha una storia emblematica e a mio parere fondamentale per comprendere la genesi e la struttura del pensiero anarco-capitalista. La peculiare esperienza degli Stati Uniti ha forgiato un immaginario fondato sui valori della differenza individuale come contributo alla crescita collettiva: in questo senso deve intendersi l'enfasi sulla proprietà privata, il libero scambio, la soppressione dei monopoli, la competizione. Gli stessi anarchici hanno costruito i loro modelli sociali, politici ed epistemologici elaborando una specifica nozione di «società aperta» - affine alla «società della tolleranza» di Berneri - in termini di suprema garanzia di libertà: «l'equa competizione ha il potere di regolare infallibilmente tutto», scrisse Josiah Warren, «il mero capitalista diverrà il più debole e il più dipendente degli uomini quando la moneta scientifica ed equa sarà adottata». In questa ottica il «capitalismo» viene inteso come lo strumento che permette la costruzione di una «società di mercato» basata non solo sulla difesa del consumatore, ma sulla sostituzione delle funzioni associate allo stato - la protezione degli individui - e alla grande impresa - la produzione di merci. La libera iniziativa, con tutti gli annessi e connessi, si configurava quindi come liberazione dei singoli dalle costrizioni dei monopolisti e delle istituzioni: in questo senso imprenditori erano gli artigiani indipendenti, i farmers proprietari delle loro terre, i piccoli oommercianti, persino i lavoranti a giornata, ecc. Questa concezione della società di mercato in termini difensivi vantava peraltro un punto di riferimento storicamente concreto e identificabile. Oggi siamo ben consapevoli della rilevanza dello slogan «piccolo è bello», che si ritrova in forme diverse in più teorizzazioni anarchiche (non ultima, per esempio, la stessa proposta di democrazia municipale di Bookchin). Per Warren, Greene, Andrews, Spooner, Haywood, ecc., questa era la dimensione naturale del pensiero: la piccola comunità rurale o urbana, il villaggio del midwest, la cittadina della Nuova Inghilterra, gli esperimenti comunitari cui parteciparono Warren e Andrews. Qui - in un ambiente autonomo e indipendente - divenire imprenditore significava sottrarre spazio alle grandi istituzioni, si trattasse dello stato o delle grandi aziende: non per niente questi anarchici progettavano la sovversione della società esistente soprattutto con una riforma (dal basso) dei sistemi creditizi, con l'adozione di strategie mutualistiche sia per l'emissione di denaro sia per la sua gestione.
Questo panorama quasi idilliaco è stato squassato dall'inarrestabile avanzata del leviatano: la guerra civile accelerò tutti i processi di accentramento, sia quelli statali che quelli industriali. Toccò a Benjamin Tucker affrontare questo nuovo stato di cose ed egli lo fece restando sostanzialmente fedele all'originale lezione di Warren: riforma del credito, sistemi mutualistici, costo limite del prezzo. Le simpatie di Tucker e Spooner per la «società aperta» - intesa nel senso di una società che valorizzi differenze e individualità - non giunsero mai sino all'ammissione della liceità dello sfruttamento industriale. I due giustificarono sì il lavoro salariato o altre forme di lavoro dipendente, ma solo a condizione che esse si situassero in una rete di rapporti economici (compresi quelli riguardanti il lavoro) basati sul principio dell'equo scambio, e non su quello del profitto causato dall'usura e dal monopolio. Nel 1881- anno di fondazione di Liberty - Tucker prese in esame la proposta di costringere le grandi aziende a distribuire il sei per cento del profitto ai loro impiegati, esprimendo un'opinione inequivocabile:
che chiunque lo desideri si prenda la sua mezza pagnotta. Noi non cesseremo mai di ripetere che essa spetta interamente e di diritto a quelli che coltivano il grano, lo macinano trasformandolo in farina e lo cuociono rendendolo pane. Nulla spetta ai truffatori che ingannano le masse irriflessive facendosi concedere il monopolio delle opportunità di compiere queste operazioni industriali, per poi riaffittarle indietro alla gente a condizione che gli sia data metà pagnotta.
Ancora più significativo, per comprendere appieno la valutazione del capitalismo di Tucker (e di Spooner), è il suo giudizio sulle «combinazioni industriali» (o trust). Negli anni ottanta dell'Ottocento, quando il capitalismo rampante non aveva ancora dispiegato le sue piene potenzialità, il direttore di Liberty difese in linea di principio il diritto all'associazione, compresa quella degli industriali, ritenendo che il mercato - inteso come area libera da «quelle arbitrarie limitazioni della concorrenza che risiedono nei monopoli e nei privilegi creati dalla legge», alludendo alla legislazione sui brevetti e sui diritti d'autore, alla rendita e all'interesse - potesse prendersi esso stesso cura dei trust, senza bisogno di incidere sulla fondamentale libertà d'associazione. Questo era il modo in cui l'anarchismo, «la dottrina che in tutti i campi debba esserci la maggior libertà individuale compatibile con la libertà di tutti», intendeva proporre la soluzione del problema (vale a dire con l'usuale strumentazione warreniana): nel 1886 Tucker credeva ancora a un capitalismo difensivo, in grado di proteggere gli interessi dei cittadini dallo strapotere dell'alleanza tra lo stato e i monopoli. Vent'anni dopo la sua opinione era radicalmente mutata: i monopoli «hanno reso possibile il moderno sviluppo del trust e il trust è ormai un mostro che, io temo, neppure la più totale libertà di concorrenza, se fosse istituita, varrebbe oggi a distruggere». Tucker giudicò quindi necessaria - a dispetto dei suoi presunti allievi odierni - un serie di confische forzate che abolissero le concentrazioni industriali: la «soluzione economica proposta dall'anarchismo» sarebbe divenuta nuovamente concepibile solo dopo «il grande livellamento».
Dall'anarchismo al libertarismo (di destra)
Le considerazioni di Tucker sono uno spartiacque epocale per l'anarchismo statunitense, poiché definiscono - per così dire - la natura del capitalismo reale nella sua essenza «mostruosa». Il sogno dei libertari americani dell'Ottocento - un capitalismo difensivo, basato sui principi del libero scambio, della piena concorrenza, volto alla costruzione di una società di mercato senza impedimenti, controlli, interventi legislativi, eccetera - era stato distrutto: restavano i monopoli, gli slums, l'agenzia Pinkerton, mentre il paesaggio ideale della sperimentazione anarchica - la piccola comunità indipendente e autonoma - si avviava all'estinzione. Ciò incoraggiò da un lato lo sviluppo dell'anarco-comunismo - a sua volta destinato a dissolversi di fronte al comunismo reale, come impararono a loro spese il principe Kropotkin, Alexander Berkman ed Emma Goldman - e dall'altro il ripiegamento dei libertari verso forme di accettazione del sistema economico vigente, in un incredibile processo di autoaccecamento: il capitalismo «mostruoso» venne programmaticamente contrabbandato per quello «difensivo» agognato da Tucker e dai suoi predecessori. In questo senso buona parte dei libertari del primo Novecento accettò una teoria del dominio palesemente monca: la critica dell'esistente si ridusse a un violento antagonismo con lo stato, mentre altre relazioni altrettanto coercitive e autoritarie - per esempio quelle imposte ai singoli dal funzionamento stesso dei trust «mostruosi» e dalla loro influenza nella determinazione dei modelli di vita e dei rapporti politici, con la programmatica limitazione dell'individualità - non erano prese in considerazione. Si veda il seguente elogio della «società aperta» di Albert Jay Nock (uno dei trait d'union tra il libertarismo post-tuckeriano e gli anarco-capitalisti):
Un individuo non è costretto a lavorare per la Standard Oil a meno che non desideri farlo. La sua accettazione delle regole della compagnia è frutto di un libero contratto. Egli non è coartato: se vuole può andarsene. Salario, orario e condizioni di lavoro sono fissate in base al suo consenso: se non gli aggradano, è libero di rifiutarle. Sotto questo sistema l'individuo è considerato l'unità del valore ultimo. La logica di questa posizione è che la società nella sua interezza ha più da guadagnare dall'azione e dall'iniziativa aggregata di gruppi che perseguono scopi diversi in libera associazione e con i mezzi che liberamente a loro sembrano migliori, piuttosto che dagli sforzi di gruppi che perseguono fini definiti sotto coartazione.
Due elementi balzano agli occhi. In primo luogo, Nock costruisce il suo argomento contrapponendo la «società aperta» a quella comunista, delineando una strategia in seguito divenuta usuale (presente, mi pare, anche nello scritto di Piombini). In secondo luogo, il ragionamento presuppone che il capitalismo di cui si sta discutendo, sia quello «difensivo» delineato da Tucker e dai libertari. Ciò è evidente nella palese finzione che l'individuo in questione possa rifiutare l'impiego della Standard Oil scegliendo un lavoro di diverso tipo in una vasta gamma di possibilità: in tempi di sostanziale monopolio delle grandi aziende sul lavoro tout court (Nock scriveva all'epoca della seconda guerra mondiale), questa libertà di scelta si riduceva praticamente a zero, tranne qualche rara eccezione. Nel quadro concettuale elaborato da Warren e dai suoi allievi - Spooner e Tucker compresi - un individuo insoddisfatto delle condizioni avanzate dalla Standard Oil avrebbe potuto rivolgersi ad altra organizzazione, poiché il regime di libera concorrenza e di assenza di monopolio avrebbe assicurato varietà nell'offerta, oppure - ipotesi preferita dagli anarchici dell'Ottocento - avrebbe potuto diventare egli stesso imprenditore, approfittando di strumenti creditizi e bancari pensati appositamente per incoraggiare imprese del genere. Friedrich von Hayek - altro «libertario», secondo molti - ha conferito maggiore chiarezza concettuale al ragionamento di Nock, svelandone con più compiutezza i presupposti e le implicazioni:
Che una persona sia libera o meno non dipende dalla gamma delle scelte, bensì dal fatto che essa può aspettarsi di modellare la sua condotta di base a quanto si prefigge, oppure dal fatto che qualcun altro ha il potere di manipolare le condizioni in modo da costringerla ad agire secondo la volontà altrui e non secondo la propria. La libertà, pertanto, presuppone che l'individuo abbia una sua sicura sfera privata e che l'ambiente attorno a lui sia tale da non permettere a nessuno di interferire.
Il concetto chiave è l'ammissione che la libertà non ha nulla a che fare con la «gamma delle scelte» - una concezione esattamente agli antipodi degli intendimenti degli anarchici americani del secolo scorso. La condotta individuale sarebbe quindi del tutto libera, ma in relazione a circostanze date, che dipendono dalle forze impersonali della storia, dalle necessità scientifiche dell'economia, dai bisogni definiti secondo una «razionalità basata sul rapporto mezzi e fini da perseguire in un contesto che assegni all'uomo bisogni illimitati di fronte alla limitatezza dei beni» (come ha di recente scritto un antieconomista anarchico). Forze, necessità e bisogni determinano quindi un contesto e una «gamma di scelte»: l'inevitabilità storica del capitalismo si configura infine come la restrizione - ovviamente «razionale» - delle opzioni disponibili. #200; all'interno di questo campo «necessario» che deve dispiegarsi la libertà dell'uomo. Quest'ultima sarà assicurata, secondo von Hayek, in primo luogo con la sanzione dell'esistenza delle «sfere private», in cui non è permesso l'accesso ad alcun potere «manipolatore», e in secondo dal disciplinamento dell'accesso alla «gamma di scelte». In questo secondo frangente lo stato ha una sua utilità: a esso viene infatti conferito in esclusiva «il potere della coercizione». Si tratta naturalmente di un potere limitato e basato su norme conosciute da tutti: e quindi «quasi mai l'individuo sarà sottoposto alla coercizione se non si è messo da sé in una situazione in cui sa che la dovrà subire». Anzi, «gli atti coercitivi dello stato assumono addirittura il carattere di dati sui quali l'individuo può basarsi nei suoi progetti». Applichiamo i principi di von Hayek alla considerazione di Nock: chi ritiene le condizioni richieste dalla Standard Oil ingiuste e sfruttatrici, in quanto fondate su presupposti «monopolisti» e «usurai», non farà saltare in aria lo stabilimento, perché consapevole che questo suo «progetto» lo sottoporrebbe agli «atti coercitivi dello stato». Inoltre - e questo mi sembra più rilevante nella nostra discussione - egli non diverrà concorrente della Standard Oil, perché gli strumenti di cui potrebbe servirsi - e di cui, secondo gli anarchici americani, avrebbe diritto di servirsi (libero accesso al credito, uso di procedimenti brevettati, ecc.) - sono al di fuori della «gamma di scelte» razionalmente e oggettivamente identificabile.
Come è evidente, gli argomenti di Nock e quelli di von Hayek convergono nell'accettazione del capitalismo - nella sua versione «mostruosa» - quale cornice concettuale in cui inserire ogni discussione relativa alla libertà, allo difesa dell'individualità, allo sviluppo della personalità. Nel contempo questo stesso capitalismo è dipinto in stile Ayn Rand, attribuendogli cioè le virtù dell'imprenditoria ottocentesca che tanto piacevano anche agli anarchici statunitensi: creatività, spontaneità e individualità si contrappongono così al monopolio, all'«usura», all'intervento dello stato, al dirigismo delle grandi burocrazie. Come tutti sappiamo, la realtà del capitalismo corporativo, delle multinazionali, della globalizzazione economica, dell'accorpamento tra grande impresa e stati nazionali, disegna una prospettiva del tutto diversa. #200; questa contraddizione che ritroviamo al cuore dell'anarco-capitalismo: l'apologia della società di mercato - in tutte le sue specifiche componenti, ben descritte da Piombini - viene proposta in un quadro che non prescinde dalle «mostruosità» del capitalismo reale. #200; vero che le accuse rivolte a Rothbard e «compagni» di occuparsi solo delle libertà del capitalismo sono «ingenerose»: è altrettanto vero che l'affermazione del «diritto inalienabile e fondamentale di ciascuno alla protezione da ogni aggressione esterna» costituisce il perno di una teoria del dominio che si infrange rumorosamente sulle mura dei palazzi delle corporations e degli zaibatsu. Le dottrine degli anarco-capitalisti ruotano intorno all'idea della proliferazione di libere associazioni economiche e di libere agenzie di protezione e arbitrato in un regime di piena concorrenza e assenza di monopolio. Il soggetto di questo «mercato», come rileva lo stesso Piombini, è l'homo oeconomicus: il «paradigma scientifico» è quindi quello della produzione e del consumo. #200; in quest'ottica che viene accettato l'ethos del capitalismo «mostruoso»: nella prospettiva di Rothbard e compagni nulla vieta che all'interno delle cosiddette «libere associazioni» si riproducano - ma ora «liberamente», senza l'intervento dello stato e in assenza di «aggressioni esterne» - quegli stessi rapporti di autorità e gerarchia - se preferite, di dominio - che regolano a tutt'oggi il funzionamento del capitalismo reale. Il «mercato» è inteso come un fine in sé: esso produrrà «naturalmente» l'abbattimento di tutte le catene della sopraffazione e dell'ingiustizia prodotte artificialmente dallo stato e dai monopoli. Agli occhi di Warren, Spooner e Tucker il «mercato» era invece lo strumento che permetteva l'affermazione di una società fondata sui principi dell'individualità e dell'autorealizzazione. Il direttore di Liberty scoprì infine che il successo del capitalismo «mostruoso» poteva pervertire la logica del mercato sino a farla divergere da quella della libertà: questa consapevolezza è ben poco presente negli scritti degli anarco-capitalisti, disposti a far rientrare nei loro schemi quelle stesse manifestazioni «aberranti» del capitalismo condannate senza equivoci da Tucker.
Stato, azienda e dominio
Queste mie riflessioni si limitano a suggerire una possibile chiave di lettura e non pretendono di essere una disamina complessiva delle implicazioni e della progettualità dell'anarco-capitalismo. Posso però constatare che la contraddizione vive, in modo diverso, negli stessi scritti dei maggiori esponenti della tendenza. David Friedman ha accoratamente esaminato l'ipotesi che la libera associazione delle imprese possa prendere l'aspetto delle «corporations gigantesche e gerarchiche quali ora esistono». «Io spero di no, non mi sembra un modo attraente di vivere», ha commentato, esprimendo tuttavia l'opinione che «in una società libera» chi lo volesse «sarebbe libero di associarsi in tal modo». Friedman non si pone un classico problema di filosofia politica: sino a che punto tollerare gli intolleranti? La logica delle grandi corporations «gigantesche e gerarchiche quali ora esistono» è antitetica ai valori della società di mercato: la presenza della Mitsubishi o della General Motors non limiterebbe forse in modo pressoché automatico la «gamma di scelte» presenti sul mercato stesso? La competizione perderebbe molto presto il suo carattere «equo» (per dirla alla maniera di Josiah Warren).
Ancora più emblematico mi sembra l'atteggiamento di Murray Rothbard. Quest'ultimo ha dimostrato - con un celebre saggio - in che senso la «monetaromania» di Spooner e Tucker era «inconsistente». L'incipit dello scritto è rivelatorio: il fondatore del Libertarian Party si dichiara un erede dei due anarchici, precisando che la sua «divergenza» dalle loro teorie «non è di natura politica, ma economica», non è «etica», ma «scientifica». Dopo di che, individua i motivi degli errori dei due nell'«incapacità di comprendere la natura del denaro e dell'interesse»! Sarebbe come dichiararsi allievo di Locke e ritenere irragionevole la separazione tra stato e chiesa, oppure confessarsi pienamente marxisti e giudicare priva di fondamento la teoria del plusvalore. Rothbard spezza il legame tra la teoria del dominio elaborata da Spooner e Tucker e la loro feroce critica delle istituzioni statuali, rendendo possibile adottare la seconda senza accettare le analisi e le proposte che scaturiscono dalla prima. Senza entrare nel merito della «scientificità» della loro dottrina monetaria, è innegabile che nella costruzione complessiva dei due essa abbia la funzione di allargare la «gamma di scelte» disponibile e di assicurare, nel contempo, la possibilità di accedere liberamente al mercato ai singoli individui: senza di essa non vi sarebbe garanzia alcuna che le potenzialità libertarie di questo stesso mercato si manifestino pienamente. Senza di essa ai monopoli sorretti dallo stato e dal diritto vigente si sostituirebbero i monopoli del capitale e del potere tradizionale, riproducendo ancora e in altra forma le catene del dominio. Ma forse questa è un'ipotesi che al fondatore del Libertarian Party non dispiace del tutto.
Lascio il commento finale a Bob Black, anarchico di tendenza grouchista, teorico dell'abolizione del lavoro e profondo conoscitore dell'anarco-capitalismo e del «libertarismo» di destra (nel passo il termine «libertario» è usato in senso tecnico, in riferimento agli adepti del Libertarian Party):
Il mio bersaglio è ciò che la maggior parte dei libertari hanno in comune, sia tra loro sia con i loro dichiarati nemici. I libertari servono lo stato al meglio proprio perché declamano contro di esso. In sostanza essi vogliono quello che esso vuole. Ma non potete volere ciò che vuole lo stato senza volere lo stato, perché quello che quest'ultimo ricerca sono le condizioni in cui si sviluppa. Il mio (non amichevole) approccio alla società moderna consiste nel considerarla una totalità integrata. Le stupide teorie dottrinarie che considerano lo stato un'escrescenza parassitica della società non possono spiegare la sua persistenza nei secoli, la sua continua usurpazione di ciò che una volta era terreno di mercato e la sua accettazione da parte della stragrande maggioranza della gente, comprese le sue dimostrabili vittime. Una teoria molto più plausibile è che lo stato e - come minimo - questa forma di società abbiano una simbiotica (e sordida) interdipendenza, che lo stato e istituzioni come il mercato e la famiglia nucleare siano, in molte maniere, modi di gerarchia e controllo. La loro articolazione non è sempre armoniosa [ ... ] ma essi condividono un interesse comune nel consegnare i loro conflitti alla risoluzione delle élite o degli esperti. Demonizzare l'autoritarismo dello stato ignorando nel contempo identiche soluzioni servili - per quanto consacrate da contratti nelle grandi corporations che controllano l'economia mondiale - è feticismo al suo peggio. E tuttavia, tanto per citare il più rumoroso dei libertari radicali, il professor Murray Rothbard, non c'è nulla di illibertario «nell'organizzazione, nella gerarchia, nel lavoro salariato, nella concessione di fondi da parte di milionari libertari e in un libertarian party». Ma davvero! Questo è il motivo perché il libertarismo è solo conservatorismo con una riverniciatura razionalista/positivista.
FINE