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Urania - Racconti d'appendice
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NEL 2073! - Agostino della Spada
Un giorno del 1873 io teneva fra le mani un giornale inglese, e la sua prosa rendeva in me più acuti i morsi dello spleen; scorreva sbadatamente coll'occhio quelle fitte e lunghe colonne, sbadigliava convulso...
Ma ad un tratto i miei sguardi si fermarono sopra un articolo di quel giornale e lessi dapprima senza troppo riflettere, poi sempre con maggiore attenzione, le seguenti parole:
"Il dottissimo professor Rokroktwen di Laybach ha fatto uno straordinario esperimento. Egli chiese al signor Thiers, presidente della Repubblica Francese, due comunisti destinati alla morte per ucciderli e poterli risuscitare di lì a tre mesi. Purtroppo il signor Thiers non si trovò gran che imbarazzato nel trovare gli uomini i quali con l'accusa di essere comunisti egli e il suo governo avessero condannato a morte, e tosto bene scortati, spedì al prof. Rokroktwen i nominati Firthe e Trippeau, i quali avrebbero dovuto essere fucilati a Versailles. Il metodo che tiene il suddetto professore per il suo esperimento consiste, per quanto se ne sa, nell'iniettare con una soluzione di calcio tutto il "sistema", affine d'impedire la dissoluzione; secondo questo metodo il paziente può essere richiamato in vita non solo dopo tre mesi, ma anche dopo cento o duecento anni".
Se già dapprima la lettura di quelle linee, mi aveva fatto una grandissima sensazione, come giunsi a queste ultime parole, io feci un vero salto sulla sedia...
Il signor Saturnino Saturnini, protagonista e narratore di questa storia, s'annoia infatti terribilmente del presente e ha sempre avuto l'idea fissa di poter vivere nel futuro. Convoca quindi immediatamente il prof. Rokroktwen a Torino, e...
Il giorno dell'operazione era giunto, ed io lo vidi arrivare senza trepidazione e senza paura, tanto mi era ben disposto a lasciare l'umanità per dugento anni.
Il dotto professore Rokroktwen aveva avuto lunghe conferenze con quel mio parente, Ser Giacinto, che si sarebbe preso cura di me durante il mio sonno, ed io mi era perfettamente messo d'accordo con lui. Gli feci una donazione di tutto il fatto mio, che doveva però essere rievocata quando io mi fossi svegliato in modi e tempi naturali, o l'operazione non fosse riuscita; egli per sua parte si obbligò e promise obbligare i suoi figli, ne aveva dieci, i figli dei figli e via via, perché fosse poi consegnato a me, quando fossi sveglio, un tanto per cento sui guadagni fatti sopra la mia persona addormentata, esposta ai visitatori per due lire al biglietto.
La cura di me non doveva poi dare un gran fastidio, né importava una forte spesa; bastava, secondo disse il Rokroktwen, tenermi in una stanza mediocremente illuminata, e in cui fosse ogni giorno cambiata l'aria, voltarmi e rivoltarmi ogni settimana, e pormi in bocca ogni dodici ore una pastiglia di brodo. Come si vede, l'incomodo e la spesa per la mia conservazione erano cose da nulla.
In quel dì, come ho detto, io era tranquillissimo; il Rokroktwen aveva saputo inspirarmi tanta fiducia, tanta confidenza che io non dubitava punto punto che egli sarebbe pienamente riuscito ad addormentarmi per due secoli.
Si erano fissate le due ore pomeridiane per fare l'operazione, ed io al mattino col Rokroktwen invitai parecchie persone, fra cui Ser Giacinto e tre o quattro de' suoi figli ad un lautissimo asciolvere. Si trattava d'abbandonare per sì lunghi anni il mondo, ed era giusto che io stessi un poco allegro. Si mangiò bene, si bevve meglio: alle frutta mi fecero dei brindisi ed io pure, alzato il calice spumeggiante di Sciampagna, dissi così:
"Secolo decimonono, prima di lasciarti io ti voglio mandare un ultimo saluto..."
"Addio secolo dell'elettricità, i cui misteri non hai che sfiorati, secolo del cotone fulminante, del gas e del vapore; fra due secoli si riderà delle tue invenzioni che pur farebbero stupire Dante e Galileo se potessero risorgere".
"Addio, addio secolo in cui sono nato, bevo alla tua salute e ti lascio colla crittogama, colla difterite, colla carta straccia e la polvere insetticida".
Questo brindisi scapigliato fu accolto con applausi, e più tardi quei buoni convitati se ne andarono; salutai affettuosamente Ser Giacinto ed i suoi figli, mi raccomandai a loro con tutta pietà, e poscia rimasi solo in una stanza col professore Rokrokwen.
Venuta finalmente l'ora stabilita, guardai ancora dalla finestra la mia Torino, la salutai e poscia mi adagiai sopra un comodissimo seggiolone che il Rokroktwen aveva fatto costruire proprio per me, e per potermi bene "operare".
Dal lato sinistro, vicino al cuore, il professore mi collocò una macchinetta che mi parve ingegnosissima e che batteva come un orologio; aveva un quadrante, e ai quattro punti era segnato quattro volte il numero 25.
"Ecco", disse il Rokroktwen, "quando questa lancetta abbia fatto due volte il giro del quadrante e siasi fermata su questo 25 che sta in alto, saranno allora passati due secoli, e la macchina manderà tale un rumore, e scaricherà sopra di voi una sì forte corrente elettrica, che sarete costretto a svegliarvi".
...Un suono acutissimo si fece sentire al mio lato sinistro e tosto il mio corpo guizzò per una forte scossa elettrica, come rana tocca dagli apparecchi galvanici; sussultando apersi gli occhi, senz'avere coscienza di me stesso; guardava ma non vedeva...
Mi stetti come dubbioso, trasognato ancora e guardai con certa attenzione attorno a me.
Io mi trovava in una camera molto ampia e illuminata da una fantastica luce paonazza, ed era lungo e disteso sopra un letto; vicino a me, a quella luce potei discernere un uomo che mi guardava...
Il risveglio
...E allora mi sorse subitamente un dubbio, che cioè non potessi essere stato assopito per due secoli.
- Che anno corre? - domandai ansioso e con voce che si era fatta più chiara e sonora.
- L'anno duemila settantatré! - rispose colui a voce bassa.
- Dove siamo? - osai ancora domandare.
- A Torino - rispose il giovane.
Il giovane poi mi domandò come stessi ed osservandomi bene disse che potevo alzarmi; mi porse abiti di una stoffa molle e flessibile e d'una materia a me sconosciuta, e in breve fui vestito.
- Di grazia, di che sono questi abiti? - chiesi al giovane.
- Tela di ragno - rispose egli.
- Ragnatele?
- Precisamente; questi animaletti forniscono stoffa ai tre quarti del mondo.
- Cosicché siamo proprio nel 2073? - domandai quando seppi che i ragni erano fornitori di stoffa.
- Sì, e ve ne accorgerete in breve osservando che il mondo è molto diverso dal secolo decimonono.
Alla finestra
Una contrada grandissima mi stava innanzi, fiancheggiata da palazzi dalle tinte vivaci e luccicanti; in mezzo correvano veicoli d'ogni specie, forma e natura, locomotive col lungo tubo da cui si sprigionavano globi di fumo, cocchi che velocemente correvano senza essere tirati da cavalli, ma per una forza impulsiva di cui fuori non si vedeva segno, carri pesantissimi cui un giovinetto guidava e spingeva standovi sopra e premendo col piede certe molle nascoste; in mezzo a quei carri, a quelle carrozze io vedeva poi persone scivolare velocissime come fossero sul giaccio coi pattini, e tosto m'accorsi che avevano ai piedi alcune macchinette che in cotal modo le facevano correre. Ai lati di quella larghissima via, sopra ampi marciapiedi, camminava una folla di gente vispa ed allegra.
Io non rifiniva più d'ammirare quel brulichio animatissimo e di cose tanto nuove per me, allorché Cristiano mi disse di guardare anche in alto.
Guardai in su e vidi per l'aria un'infinità di globi che correvano con una velocità straordinaria in ogni senso e direzione.
- Che cosa sono? - chiesi a Cristiano che mi guardava sorridendo.
- Sono palloni aerostatici.
- Ah! Si è dunque trovato a dirigerli?
- Perfettamente, come un convoglio de' vostri tempi; solo che allora camminavate al più al più con una velocità di sessanta o settanta chilometri all'ora, e coi palloni si trovò a quintuplicare questa velocità.
Io stetti un momento come fossi ancora trasognato mirando il cielo e contemplando quelle centinaia di globi, e poi mi rivolsi a Cristiano.
- Come va - gli chiesi - che voi m'avete detto che eravamo a Torino? Torino è in pianura e là osservo templi, palagi e case sopra colline.
- Voi supponete dunque - mi rispose Cristiano - che Torino siasi sempre mantenuta nella stessa cerchia del 1873; essa invece si è estesa fuori misura; da un lato si unì Moncalieri, dall'altro San Mauro e verso Susa s'incorporò Rivoli; guardate, su quel colle sorgeva il paese di Rivoli.
- Quanti abitanti conta Torino?
- Sei milioni di abitanti.
- Misericordia! Via, usciamo presto, che io ho fretta di vedere questo mondo!
In giro per Torino
Scambiammo ancora alcune parole, e poi Cristiano mi condusse ad un cortile ove stava una carrozza di forma singolare e che non aveva sbarre a cui attaccare il cavallo; il giovane fece girare per più minuti una piccola manovella che stava alla cassetta, e se volete salire, mi disse, la carrozza è pronta.
Posi il piede sulla staffa, e appena toccatala mi sentii come prendere e sollevare, e mi trovai comodamente seduto sopra uno dei morbidi sedili.
Cristiano allora toccò un piccolo bottone sotto l'andito e tosto si spalancò una gran porta che metteva in istrada, e quella non era ancora aperta che il giovane mi era seduto accanto.
Tosto da se stessa la carrozza, caricata come un orologio, si spinse avanti; toccando due molle, Cristiano le fece prendere il suo giro nella via, e poscia incominciammo a correre come se fossimo trascinati dai migliori cavalli del mondo.
Altre cento, mille carrozze dalle forme più svariate, correvano velocissime per quell'ampia strada, e pure, benché non tirate da cavalli, non s'incontravano od urtavano mai.
Ad otto o nove passi di distanza ci stava, a mo' d'esempio, proprio davanti una locomotiva; parea che ci dovesse venire addosso, prenderci sotto, subissarci; ma Cristiano toccava un tasto col piede, e la nostra carrozza guizzava come un pesce un poco a man diritta; quei che guidavano la locomotiva facevano altrettanto, e carrozza e locomotiva si passavano vicine senza toccarsi, ratti come il folgore.
Era una cosa che metteva la vertigine.
- Ma non succedono mai disgrazie? - domandai io con un certo affanno.
- Non più di quelle che accadessero quando usavate i cavalli.
Io non mi stancava intanto d'osservare a diritta ed a manca; sui larghi marciapiedi vedeva gente camminare lesta, e distinsi donne, vidi signorine, giovanette, che mi parevano di buona famiglia, andare da sole... Erano vestite con semplicità e con certe tuniche che mi ricordavano la moda greca; non avevano poi in testa quelle piramidali cataste di capelli che deformavano le donne del 1873.
- E ditemi un poco - mi feci a chiedere - si è poi trovato a volare?
- Guardate - mi rispose Cristiano e mi fece segno di guardare in alto.
Io guardai e vidi infatti alcune persone che, volando, fendevano l'aere. Avevano ali che mi parevano di tela e quelle agitavano con un movimento di braccia e di gambe e meglio che uccelli, avrei detto essere pipistrelli.
Come vedete adunque - soggiunsemi Cristiano - si è trovato anche il mezzo di volare; vi dirò tuttavia che l'invenzione non è troppo perfezionata, e che sono pochi quelli che si avventurano al volo, ma fra poco otterremo certo un miglioramento...
Io stetti coll'occhio alzato a guardare quei volatori, pio mi si tolsero dalla veduta e chinai gli sguardi alla via.
Le case che erano ai lati, avevano architettura svariatissima, si vedevano palazzi di stile romano, altri di stile ionio, case fabbricate alla svizzera, altre costruite alla persiana, padiglioni cinesi, il che formava il maggiore diletto per me, uso all'uniformità di Torino due secoli prima.
Giungemmo poscia ad una piazza che io ravvisai per quella che a' miei tempi si chiamava dello Statuto.
- Come si chiama ora questa piazza? - mi feci a domandare.
- Degli Uomini Buoni - mi rispose Cristiano. Infilammo dopo una contrada che doveva essere la Dora Grossa, ma allora io la trovai fiancheggiata da magnifici portici e portava il nome di Via della Generosità.
- Avrei creduto - dissi a questo punto a Cristiano - che in questi tempi alle vie avreste dato piuttosto i nomi de' grandi uomini...
- Noi onoriamo i grandi uomini - rispose Cristiano - ma alle strade, alle piazze pensammo dar piuttosto denominazioni di virtù e di cose buone e virtuose; d'altra parte venne a qualcuno una buona idea, quella d'innalzare un tempio agli uomini veramente grandi; l'idea divenne un fatto ed il tempio eccolo là di fronte.
E Cristiano distese l'indice e siccome ci trovavamo già al principio della strada che nel 1873 chiamavasi di Po, così vidi innanzi a me le colline, ma tutte rivestite di case e palazzi, e in mezzo sull'alto scorsi primeggiare un molto nobile e grande edificio.
- Ma ora - aggiunse il giovane - è tempo di ritirarci in casa, ove ci attendono pel desinare.
A pranzo
Mentre io discorreva con Valente, Cristiano e Speranza si erano ritirati e tosto ricomparvero con alcune stoviglie e alcune scatole di latta, dicendo a me:
- Se volete vedere, ora si prepara il desinare.
Essi furono vicini ad una tavola e si posero a preparare qualche cosa attorno ad una cassetta di una certa grandezza che stava là sopra. Io mi feci ad esaminare quella cassetta, ed era di metallo lucentissimo con certe cesellature fini, rappresentanti piatti colmi di ogni sorta di vivande, frutta e di altre cose mangerecci; ai quattro lati erano collocate belle statuette in metallo bianco molto simile all'argento.
Speranza, poiché m'ebbe lasciato osservare attentamente, mi disse:
- Vedete questa statuetta, è la gastronomia, questa l'ospitalità, questa la temperanza e quest'altra la salubrità.
- Vuol dire - soggiunsi io a mia volta - che questa bella ed elegante cassetta non è altro che una cucina.
- Per l'appunto, ed una cucina in cui i cibi sono preparati.
La fanciulla aperse la mirabile cassetta, ed io vidi vari buchi circolari in cui v'erano posti dei vasi, l'uno dei quali, non so per quale meccanismo, si empì tosto d'acqua; indi Speranza aperse una di quelle scatole di latta e ne tolse una certa sostanza che io non riconobbi.
- Cos'è cotesto? - interrogai.
- È carne, e fra poco la mangerete lessata.
- In quantità sì piccola? - mi scappò detto.
- Fu compressa da una macchina - mi rispose Speranza - e in breve vedrete come diverrà grossa...
Il vino era secco, saporito, leggermente piccante, un vero Grignolino.
- È de' vostri beni? - domandai, rivolto a Valente.
- Dei miei e di tutti.
- Non intendo.
- Ecco, una grande società ha assunto l'impresa di fabbricare un vino tipo, eguale sempre, e lo distribuisce dalle sue immense cantine a tutti gli abbonati per mezzo di canali sotterranei, precisamente come se fosse gas o acqua potabile. E così quasi tutta la città non beve che questo vino, e tutti lo possono bere, che il suo prezzo è relativamente minimo; non v'è poi pericolo che sia alterato o men che ottimo, perché un'apposita commissione ne fa il saggio e in ogni caso il lamento sarebbe tanto generale da farne immediatamente cessare e cambiare la distribuzione...
In quella si sentì un fischio prolungato alla porta di casa.
- Sarà Umano - osservò Valente guardando la figliola.
- È lui di certo - disse questa.
- Chi è? - mi feci a domandare, rivolgendomi a tutti e tre.
- È il mio amante - rispose Speranza col tono più tranquillo del mondo, mentre quella parola nel secolo decimonono avrebbe fatto svenire venti fanciulle prima di essere pronunciata.
Quindi la fanciulla andò a guardare in uno specchio dove, per mirabili congegni di lenti e di prismi vedevasi ciò che accadeva di fuori e si voltò a noi dicendo:
- È proprio Umano, giunto sulla sua locomotiva.
Più tardi però, ad ogni buon conto, si spiegherà che nel 2073 la parola "amante" ha significato puramente spirituale. E quanto all'emancipazione femminile:
- Scusate se io salto di palo in frasca, la curiosità mi fa, per così dire, tanta ressa alla mente che vorrei saper tutto in un momento e non posso mantenere molto ordine nelle mie domande; ora vorrei sapere se la donna è emancipata...
Umano sorrise guardando la sua fidanzata e poi rivolto a me disse:
- È emancipata in questo senso, che essa in tutte le parti del globo è diventata davvero la compagna dell'uomo e davanti alla legge civile gode d'eguali diritti, ma a capo della famiglia è pur sempre l'uomo.
- Cosicché la vera emancipazione quale era intesa dai filosofi romantici dei miei tempi non esiste ancora?
- Non esiste e non esisterà mai...
Gita al tempio degli immortali
Passata la via della Generosità e la piazza che ai miei tempi chiamavasi di Castello, ed ora della Fratellanza, ed essendoci inoltrati d'alquanto per la via di Po, mi vidi in faccia di lontano la collina ora tutta rivestita di case e sulla quale in alto torreggiava il tempio degli Immortali.
L'edificio maggiore di questo tempio terminava in una cupola che per grandezza ed altezza di là pareami maggiore di quella di San Pietro a Roma; quell'enorme cupola ricoperta di lamine di metallo lucentissimo e che scintillava come fosse di fuoco, era sostenuta da molte colonne, il che era dilettevolissimo all'occhio; quella rotonda aveva poi ai lati altri edifici che mirabilmente le facevano corona; erano lunghe gallerie a colonne, a statue, altri templi a cupole minori, palazzi a terrazzini e tra l'uno e l'altro vedevansi larghi spazi di verzura a varie tinte, il che formava la più bella veduta del mondo.
- Quello è adunque il tempio degli Immortali? - dissi io rivolto a Cristiano e indicandolo: - Credete che ci dobbiamo andar subito a visitarlo?
- Andiamoci dunque, che io ardo di voglia di vedere questa meraviglia.
Cristiano fece un segno, fermossi una locomotiva che tirava parecchie carrozze, vi salimmo sopra e via a precipizio, sicché in un attimo fummo sulla sponda del Po.
E qui uno spettacolo nuovo, inatteso, sorprendente, stupendo: non era più il Po che mi stava dinnanzi, non era più quel fiume che sebben re degli altri fiumi, se ne stava nel secolo decimonono chiuso tra brevi sponde! Era un porto di mare, quello che mi stava dinanzi. La piazza della Gran Madre di Dio era sparita tutta quanta con tutte le case, sparito il Borgo Po, il Rubatto, e per quei larghi spazi s'ingolfava l'acqua formando così un vero porto sopra cui si barellavano molte e grandi navi di varia forma e natura. Un poco in su, le sponde erano congiunte da due altissimi ponti, risplendenti per marmi, magnifici per le statue che li osservano, ponti sotto il cui arco unico ed immenso passavano e ripassavano navi di grandissima mole.
Ora immagini ognuno come fosse ineffabilmente bello tale spettacolo.
Era un artistico porto chiuso in mezzo ad una città; da una parte una magnifica piazza che un tempo era la Vittorio Emanuele e lungo la medesima sponda, vaghe palazzine, ville eleganti, casini dalle tinte vivaci; dall'altra parte della collina che si innalzava superba coperta di case e da tutto quell'insieme di edifici a giardini, a viali, a colonne, a gallerie, a terrazzini, a cupole che coll'immensa cupola di mezzo sostenuta da cento colonne formava il tempio degli Immortali; ai due lati quei ponti meravigliosi che rendevano mirabile la scena, e là dove era un tempo la pittoresca chiesa dei Cappuccini sorgeva un altissimo faro che pareva la sentinella di tutta quella miriade di cose...
- Ed ora saliremo sopra - disse Cristiano.
E col dito levato indicò l'altissimo cupolone che quasi perdevasi nelle nubi.
Guardando io l'altissima mole, mi venne fatto notare come striscia che a spirale tutta la cingeva, dal fondo fino alla sommità.
- Che sia la scala quella? - dissi tra me e me - Oh! Non mi ci pigliano per una scala simile!
E mentre così fantasticavo, ratta come il folgore vidi passare per quella striscia sporgente, un qualche cosa di simile ad una locomotiva che tiravasi dietro tre o quattro carrozze.
Stetti colla bocca larga a contemplare quello spettacolo nuovissimo, ma le mie labbra non dovettero stare che un minuto in quell'attitudine "rurale", perché la locomotiva apparve, scomparve per quella spirale e tosto guadagnò la cima del cupolone.
- Che cos'è cotesta faccenda? - domandai rivolto a Cristiano.
- Dovreste comprenderlo - egli mi rispose - è una bella e buona strada ferrata sulla quale corre una locomotiva che trasporta i curiosi dal fondo alla punta della cupola. Ora discenderà, noi vi saliremo, e in breve anche noi saremo sopra quell'altissima cima.
- Misericordia!...
... Entrambi ci recammo ad un salottino e colà passammo in un atrio ove la locomotiva ad aria compressa gemeva e sbuffava pronta ad arrampicarsi per quelle alte scalee. Fummo con molte altre persone sopra una carrozza, poscia il segnale fu dato, e ratti come il folgore passammo in mezzo alle colonne, e sempre per la via a spirale ci trovammo alla cupola, e su per essa fino alla cima, dove, scesi dalla carrozza, ci posammo sopra una terrazza abbastanza ampia e circondata da una balaustra a colonne di marmo.
Da tutte le parti, fin quando giungeva la vista, erano case, case e poi case, e Torino in fondo in fondo perdevasi come in una nebbia lontanissima; sotto noi scorreva ampio il fiume, ma di là le grosse navi mi parevano barche lillipuziane; i palloni aerostatici ci passavano quasi vicini, ed io sentiva le voci dei viaggiatori, il cigolare di non so quali cardini, e il romor delle corde contro il vento. Ne' convogli terrestri i vagoni sono posti l'uno dietro l'altro, in quelli aerei invece erano posti l'uno sotto l'altro in linea verticale e benché velocissimamente corressero, l'urto dell'aria faceva ben poco divergere dalla linea retta quella pendente fila di carrozze; quegli strani convogli quasi quasi mi rasentavano, ed io aveva appena tempo a guardarli, a udirne le varie voci che di colà si dipartivano, che già erano lontanissimi da me.
Il sole era al tramonto, e nascondevasi dietro la cima dell'Alpi, e allora m'accorsi come dall'alto Monviso partissero degli strani raggi.
Avevano quei raggi vari colori e un po' si posavano sopra un luogo, un po' sopra un altro, e più volte venivano lanciati fin sulla nostra cupola ed anzi sopra una piccola torre che ancora si innalzava su quella terrazzina rotonda.
- Che cos'è cotesto? - chiesi al figlio di Valente.
- Credeva lo indovinaste; è né più e né meno che un telegrafo.
- Sì, un telegrafo a raggi; sull'alto del Monviso v'è una torre che manda raggi di luce qui sulla cupola del Tempio degli Immortali, dalla cima della torretta che qui vedete si rimandano in varie direzioni, di guisa che in men d'un minuto, o almeno colla stessa velocità della luce, si hanno le notizie per ogni parte...
- Magnifico - conchiusi io - di guisa che ciò che succede nel mondo è in un attimo conosciuto da tutti, ne è più monopolio di pochi furbi la trasmissione delle notizie.
- Né crediate che abbiamo solo questo sistema e ci serviamo solo della luce per trasmettere le notizie: abbiamo anche telegrafi acustici ed elettrici e cento altri; questo a raggi è nondimeno il più usato e il più popolare.
- Non vi è persona al mondo che le venti volte al giorno non guardi i muri di casa sua per vedervi dipinte le novità della terra; è cosa che costa poco e che diverte assai.
- È un giornalismo di nuovo genere, e di momento in momento vado accorgendomi come i progressi da voi fatti tocchino il limite del possibile; più in là non si può andare.
- Evvia - rispose Cristiano alzando le spalle - di qui a un secolo troveranno che al nostro tempo si era indietro.
Il giornalismo di nuovo genere
Molte ore io passava in quel salottino ove nella parete era incastrato il mio telegrafo particolare di cui ho già detto, e mi divertivo assai nel leggere le varie notizie e i dispacci che mi davano una chiara idea del come andassero le cose nei nuovi secoli.
Tutto ciò che accadeva d'importante io lo leggeva registrato entro quella larga cornice, e non solo io poteva sapere le cose d'Italia, quelle d'Europa, ma di tutta la terra. Quelle parole, poi, che apparivano così misteriosamente ad annunziare un avvenimento, e dopo alcun minuto scomparivano per dar luogo ad altre che me ne parlavano di un altro, mi rappresentavano viva alla mente la caducità di tutte le cose e la vanità della vita.
Quante volte io non rimaneva come estatico davanti a quella cornice, meditando e fantasticando sopra cento cose; mentre le notizie più svariate, più singolari si succedevano l'una dopo l'altra con una velocità quasi vertiginosa!
Quell'affare incominciava alle otto di mattina e terminava alle nove di sera, e se il quadro dovea dare una notizia un po' importante, un tintinnio elettrico me ne avvertiva.
Darò qui un cenno d'alcune di quelle notizie e di quei dispacci, perché servono mirabilmente a far conoscere la società di quei tempi.
A mo' d'esempio, un giorno, dopo un grande tintinnio, il che voleva dire essere importantissimo l'avvenimento, sul quadro vidi scritto quanto segue: "A Londra in due giorni non è morto nessuno". Come si vede la notizie era tale da rallegrare chiunque e massime uno che fosse stato al par di me attaccato così meravigliosamente alla vita. E dopo mi si diede questa altra nuova, non meno peregrina. "Gli ultimi sciami di cavallette dell'Africa furono distrutti ieri nelle vicinanze di Tetorcan, a forza di potentissime scariche elettriche, e con questo l'Africa, la Spagna e le isole del Mediterraneo restano liberate dall'orribile flagello". Ed ecco un'altra notizia che mi fece pensar molto: "La Dieta di Parigi non tiene più adunanze da dieci giorni, non avendo nulla da fare".
- Ma è proprio una cuccagna cotesta! - dissi io. - Una Dieta ed una Dieta in Francia, ed a Parigi, cervello del mondo, come lo chiamava quel poeta, che ha nulla da fare! Che popoli educati, buon Dio!
"A Liverpool" scrisse il mio quadro, "è giunto un enorme carico di "dika", mandorla che macinata sostituisce con molti vantaggi la farina di frumento; ne furono spediti per mezzo dell'aerostatico il Condor, parecchi quintali alla società per l'alimentazione in Torino".
- Ne mangerò certamente - dissi io; - cotesta "dika" deve essere una buonissima cosa.
Ed ecco un'altra notizia: "Nel congresso dei dotti di Samarcanda in Bucara, si è studiato un nuovo insetto, è una specie di formica che produce il miele; questo miele è molto migliore che quello delle api e non richiede preparazione".
Scrivere ad una ad una tutte le notizie, tutti i dispacci che mi dava il mio quadro sarebbe impossibile, ma da quelle sovra accennate si capirà come andassero bene le faccende del mondo; mentre nel secolo decimonono i giornali non parlavano che di intrugli diplomatici, di probabilità di guerre, o di guerre già scoppiate, ne' nuovi secoli invece non si parlava che di cose di pace, relative all'industria, al commercio ed al benessere sociale. Della politica, di quella brutta Dea che a' miei tempi s'infiltrava dappertutto, ora non se ne discorreva più e forse non si sapeva nemmeno cosa fosse... Vo' avanti coi dispacci del mio quadro: "Si son fatte a Malta le prove d'un nuovo mezzo di comunicazione veramente straordinario. L'inventore è certo Salvatore Gaudius, ed ha saputo trovare una nave che può colla stessa facilità solcare i mari e l'aria; è nave ed aerostatico nello stesso tempo; si libra nell'aria, scorre per essa velocissimo ed aumentato il peso colla semplice pressione d'una molla, discende anche sott'acqua, dopo essersi rinchiusa a modo di sigaro allungato e diventa così un vero battello sottomarino. Le prove fattesi a Malta riuscirono perfettamente. Si vide quello strano naviglio scorrere il mare, poi sprofondarsi negli abissi delle onde, salire di nuovo a fior d'acqua, indi leggero, leggero librarsi per l'aria e perfettamente diretto scorrerla per ogni parte. Si è già formata una grande società per comperare macchine e segreto a prezzo favoloso".
- Evviva il signor Salvator Gaudius! - io gridai pieno d'entusiasmo, ma il solito tintinnio richiamava tutta la mia attenzione al quadro, ed ecco quali parole apparvero: "Oggi il congresso del mondo ha decretato che il primo premio per la più bella azione della terra venga conferito alla giovinetta Gina Semar di Madras".
Io tosto pensai che dovesse aver fatto qualche cosa di straordinario cotesta giovinetta, e il mio quadro continuò a scrivere: "Ognuno sa che nelle Filippine trovansi radunate quelle persone che professano il comunismo; nate da quella generazione che apparteneva a tale setta, ed ebbe quel territorio in dominio, credono in quegli strani principi; indi non famiglia, non proprietà e per conseguenza non commercio, non industria, non prosperità e non progresso. Si narrano cose orribili del modo con cui queli acciecati conducono la vita. Ma al racconto di tutto questo si commosse grandemente l'animo della giovinetta Gina Semar, e col coraggio del missionario, insciente la famiglia, parte da Madras e va alle Filippine. Ivi incomincia un apostolato dei più santi, de' più nuovi, e sola, coll'eloquenza della passione, coll'influenza e col fascino della bellezza in lei grandissimo, colla fermezza straordinaria di carattere, penetra in quei cuori e vi getta i sentimenti del viver civile. Le lotte che ella dovette sostenere sono inaudite, ma poté strappare più di cinquecento alla setta e ridurli a professare i nostri principi. La missione della Semar portò altri frutti che alle Filippine si comincia a discorrer molto di proprietà e di famiglia, e si è formato un partito che in onore della Gina Semar si chiama dei Ginisti, a poco a poco questi trarranno gli altri sul buon sentiero, e presto cesserà uno sconcio, onta nel nostro secolo. O mondo, onora Gina Semar di Madras!".
E anch'io avrei voluto gridare: "Onore alla giovinetta Gina!".
FINE