Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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LETTURA ACCELERATA - Phyllis Murphy
Titolo originale: Time was

Barney era un tipo simpatico. A volte, sento ancora la mancanza, e anche i ragazzi, credo, non lo hanno dimenticato. Ripensando al passato, ora che ho tempo di farlo, mi rendo conto che il nostro fidanzamento fu travolgente, non per passione, ma per la fretta. Barney aveva semplicemente fretta. Aveva sempre fretta, lui. Io lo ricordo soprattutto così: perennemente di corsa.
Prima che me ne rendessi conto, ci eravamo sposati, la luna di miele era finita, avevamo una casa nostra, la seconda macchina e un bambino in arrivo. «Non abbiamo tempo da perdere» mi diceva Barney, e mentre stava uscendo: non gli piaceva fermarsi a chiacchierare.
Quando aveva cinque minuti liberi, Barney trovava sempre il modo di impiegarli. Tirava fuori i vestiti, metteva in ordine le scartoffie della sua cartella, trascriveva note sul taccuino o si lucidava le scarpe. In dieci minuti lavava la macchina oppure scendeva in cantina a sistemare un intero scaffale di libri. Era straordinario. Mai che facesse un giro a vuoto, su e giù per le scale. Veniva giù una o due volte al giorno, oltre a quando scendeva al mattino e risaliva alla sera, ed era sempre carico di cose da rimettere a posto.
In confronto a lui, mi sentivo una buona a nulla. Non so quante volte mi ha fatto la predica sulla importanza di risparmiare tempo. «Un minuto non ritorna due volte» mi diceva. «Tienilo bene da conto.» Io mi sforzavo di seguire i suoi consigli, ma temo di avergli dato varie delusioni. Non ero fatta per queste cose. Perdevo talmente tanto tempo a studiare il modo di non perderlo che, alla fine, non me ne rimaneva per fare qualcosa.
Mi viene in mente la volta in cui Barney lesse un libro sul sonno. L'autore era sicuramente un suo fratello spirituale, perché, in quel libro, sosteneva che il sonno non era altro che una perdita di tempo e suggeriva diversi sistemi per imparare a farne a meno.
Dopo aver letto il libro, Barney decise di ridurre a quattro le sue ore di sonno e cominciò immediatamente gli allenamenti. L'ammiravo, mio malgrado. Scendeva a colazione con gli occhi velati e la mente annebbiata dal sonno, ma credete che fosse disposto ad ammetterlo? Bastava chiederglielo. «Non sei stanco, Barney?»
«Ma no. Che cosa te lo fa dire?»
«Non lo so. Ma stamane volevi darmi il bacio del buongiorno e non riuscivi a trovarmi.»
«Mi sento bene, anzi benone.»
Mi allenavo anch'io, e non certo di mia volontà, a saltare il sonno con Barney. Nelle ore in cui non dormiva, infatti, escogitava una quantità di cose da fare, e a furia di ascoltare dischi, di battere col martello, di dipingere, mi teneva sveglia per quasi tutta la notte. Io leggevo o guardavo la TV. Dopo un certo tempo, cominciai a risentirne le conseguenze, e il dottore mi disse che avevo bisogno di un buon sonno. Pensavo che Barney, dopo quello che aveva detto il medico, cambiasse sistema, e invece lui trovò un'altra soluzione. Impiegò una parte delle sue ore insonni ad isolare acusticamente la camera da letto, in modo che, nonostante il baccano che faceva, io potessi dormire.
L'addestramento, devo riconoscerlo, dava buoni risultati, pur provocando alcuni effetti collaterali. Ormai gli bastavano quattro ore di sonno e al mattino non aveva più l'aria insonnolita di prima. Però, invecchiava rapidamente e gli era venuto lo sguardo vitreo.
Non pensai a niente di grave la sera in cui arrivò a casa sventolando un opuscolo e salì di corsa in camera sua. Adesso, per non perdere tempo, pranzava al tavolo di lavoro e io gli tenevo pronto il vassoio. Quando salii a portargli il pranzo, lui, senza voltarsi, mi fece leggere l'opuscolo. Era la pubblicità di un corso di lettura accelerata. Non avevo mai visto Barney tanto eccitato. «Ma pensa!», mi diceva. «Riuscirò a leggere sei giornali in mezz'ora!»
Io ero preoccupata per la spesa. Eravamo già abbonati a un giornale e, per me, era fin troppo. Mi rifiutavo di pensare a quanto ci sarebbero costati sei giornali. E poi, che cosa ce ne facevamo di tutta quella carta? Barney, però, non fu d'accordo. Mi disse che ragionavo negativamente, poi compilò un modulo e spedì l'assegno per cominciare il corso la sera stessa.
Barney si buttò a corpo morto nella lettura accelerata. Vi si dedicava ogni notte per parecchie ore, seguendo per filo e per segno le prescrizioni degli insegnanti. A volte, quando apriva un libro e si esercitava a scorrere con l'indice la pagina stampata, come gli avevano indicato, mi faceva venire in mente una vecchia comica di Charlot. Lui, però, non se la prendeva quando io lo deridevo.
Il corso, immagino, procedeva bene, perché Barney, ormai, divorava una quantità enorme di roba stampata. I sei giornali ci venivano recapitati regolarmente a casa, perché Barney, al mattino, non poteva salire in treno con tutta quella carta, e ogni sera se ne ritornava con le tasche piene di libretti. Una sera, fece un nuovo esperimento e mi spiegò che era una sua invenzione. Stava leggendo un tascabile e, ogni volta che arrivava in fondo alla pagina, anziché voltarla, la strappava. Ai suoi piedi, c'era un mucchio di pagine strappate.
«Ma non è uno spreco?» gli chiesi.
«Ma no» disse lui, senza alzare gli occhi. «Il tempo è denaro, lo sai bene, e ogni minuto risparmiato è un dollaro guadagnato.» Mi ci volle un po' prima che mi entrasse in testa, e alla fine ci rinunciai.
«Ma funziona?» gli chiesi un mattino, nei cinque minuti che si riservava per la colazione. Per la lettura dei giornali, si concedeva sempre venticinque minuti.
«Che cosa funziona?»
«La lettura accelerata. Riesci davvero a leggere ogni parola andando così in fretta?» Ammetto che ero un po' gelosa. Io sono molto lenta nel leggere, e spesso, se il libro mi piace, ritorno su ciò che ho già letto.
«Ma certo» mi disse. «Non leggo proprio tutte le parole, leggo solo le più importanti.»
«Ma come fai a capire quello che leggi?»
«La maggior parte della gente spreca le parole» disse Barney, dando un'occhiata all'orologio appoggiato alla saliera. «Nella lettura accelerata si leggono solo le cose importanti e si saltano le inutili.»
Cominciavo a pensare che, forse, aveva ragione lui, quando accadde un fatto strano. Barney non era mai stato un tipo di molte parole, ma in ultimo le aveva ridotte all'osso. Invece di augurarmi buonanotte, per esempio, si limitava a una specie di «Nte» e ai bambini non diceva neppure più quello. Avevamo tre figli e Barney aveva l'abitudine di dare una buonanotte particolare a ognuno. Ormai, però, si affacciava semplicemente alla camera e, allontanandosi, li salutava con un gesto. La maggiore era sicura di sentire anche il suono della voce, mentre il papà la salutava, ma non era mai riuscita a capire cosa le diceva.
Un giorno, chiamai Barney in ufficio per dirgli che mi comprasse un cordone nuovo per il ferro. Lui staccò il microfono, mi disse «Pronto, ciao» e riappese.
Lo richiamai, ma la segretaria mi disse che era uscito. Allora lasciai a lei la commissione. Barney mi portò il cordone e io non feci mai il minimo accenno all'incidente telefonico. Probabilmente aveva più fretta del solito, pensai.
La settimana dopo, però, un sabato, vennero a trovarci degli amici. Capirono subito che c'era qualcosa di strano. Barney chiese, a un ospite sì e a uno no, che cosa voleva da bere. Quelli che non erano stati interpellati naturalmente ci rimasero male, e io cercai di prendere la cosa sul ridere. Poi, passammo in sala da pranzo. E qui, Barney aveva messo solo tre seggiole intorno al tavolo, ed eravamo in otto.
A tavola, si comportò in modo piuttosto strano e pensai che, in cucina, avesse scolato una bottiglia. Ma poi mi resi conto che l'alcool non c'entrava. Dopo pranzo, mentre parlavamo delle elezioni del collegio dei professori a scuola, lui disse: «Maledetti idioti di fondo!». Non capimmo che cosa volesse dire e ci sforzammo tutti di ridere e di mostrarci disinvolti.
Quando gli ospiti se ne furono andati, mentre Barney mi aiutava a riordinare il soggiorno, accennai per caso a com'era dimagrito uno dei nostri amici. Alludevo, in effetti, a Tim Hart, uno dei nostri amici più cari.
«Chi?» chiese Barney.
«Tim» risposi.
«Quando visto?» disse Barney.
Se interpretavo giusto, Barney mi chiedeva quando avevo visto Tim. Gli chiesi se intendeva dire questo e lui mi accennò di sì. «Ma un momento fa, qui in casa, da noi» gli dissi, con un terribile presentimento. «Stasera stessa.»
Allora disse qualcosa di molto confuso. Pareva arrabbiato e io riuscii solo a afferrare le parole «andare in giro».
«Barney, ma tu non mi ascolti!» dissi.
«Capito» disse lui.
«No, che non hai capito. Come puoi capire quello che dico, se non sai neppure che Tim era qui stasera e ti parlava? Come avrei potuto andarmene in giro con lui, se era qui?»
Barney prese una bracciata di oggetti da portare di sopra e salì a rintanarsi in camera sua. Mi sforzai di rimanere sveglia, aspettando che venisse a letto, ma non ce la feci. Non ne potevo più.
Ero molto preoccupata. Non sapevo ancora, allora, che Barney aveva dei guai in ufficio e quando lo appresi era troppo tardi e non riuscivamo già più a comunicare tra noi. Barney, probabilmente, mi capiva, ma io ero fortunata se riuscivo ad afferrare due parole di tutto quello che mi diceva nel corso di una giornata.
Fu il suo capufficio a dirmi che cosa stava capitando. Era preoccupato per Barney e un giorno mi telefonò per consigliarmi di portarlo da un medico, o meglio da uno psichiatra. Non che dubitasse dell'onestà di Barney, mi capite, ma occorreva fare qualcosa, per via degli errori contabili che commetteva. «Salta intere colonne di numeri!» mi disse il capufficio. «Ci fornisce dei totali assurdi!»
Dissi che avrei fatto il possibile, ma che non avrei portato Barney da un medico. Barney, in fondo, era l'unico a non darsi pensiero di ciò che gli accadeva. I bambini lo fissavano spaventati, mentre lui correva su e giù per la casa con i suoi strani borbottii. Lui, invece, era felice. Stava risparmiando moltissimo tempo, e realizzava la sua grande aspirazione.
Non mi rimaneva molto da fare, tranne aspettare la fine. E la fine, come tutto ciò che riguardava Barney, non tardò a venire.
Abitavamo in un quartiere nuovo, formato di migliaia di casette, tutte uguali. Quel fatto, per noi, non aveva nessuna importanza e spesso ci scherzavamo su, immaginando di entrare, una sera, in una villetta non nostra. In realtà, non ci era mai capitato di sbagliare casa. Mi accorsi, però, che Barney adesso stentava a ritrovare casa nostra. Lo vedevo arrivare di corsa per la strada, controllando i numeri al volo. Una volta o due, ritornò sui suoi passi per leggere il numero del nostro vicino. Decisi, per ogni eventualità, di mettermi alla finestra nell'ora in cui di solito rientrava.
Un venerdì sera, accadde ciò che temevo. Ero alla finestra e vidi Barney che arrivava correndo, forse più in fretta del solito. Presa da uno strano presentimento, corsi alla porta e la spalancai. «Barney!» chiamai. Lui non si fermò. «Barney!» non si voltò neppure. Continuò a correre, senza neanche fermarsi a guardare i numeri.
Barney aveva saltato la nostra via, e, forse, tutto l'intero quartiere! Gli corsi dietro, finché fui costretta a fermarmi per riprendere un po' di fiato.
Lo vidi scomparire, sempre di corsa. Mi chiesi che cosa avrei detto ai bambini. E ai vicini. E al suo capufficio.
Non lo rividi mai più, come non lo rividero più quelli che lo conoscevano. Ci aveva saltati, tutti quanti. Mi sentii un poco offesa, perché non mi aveva ritenuta abbastanza importante per non saltarmi. Poi, col tempo, mi passò. Di tanto in tanto, però, ne sento ancora la mancanza, quando mi capita di pensarci. E ci penso ancora. Davvero buffo.

FINE