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Urania - Racconti d'appendice
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DIVIETO DI CACCIA - John christopher
Titolo originale: Specimen
Fino all'ultimo momento non fu sicura se sarebbe andata in viaggio con lui.
Da qualche tempo le cose erano peggiorate. Si trattava di un lento distacco più che di un vero e proprio disaccordo. Lui lavorava sodo e alla fine delle sue lunghe giornate era stanco.
C'erano dunque delle buone ragioni per il fatto che si vedevano sempre meno; ma non si trattava solo di quello: c'era un senso di distacco, la sensazione che i loro sguardi puntassero in direzioni diverse, anzi opposte.
E certo per lei il viaggio non presentava nessuna attrattiva; non le era mai piaciuto andare a caccia anche se sua madre e suo padre erano stati degli appassionati cacciatori. Non provava nessun piacere ad ammazzare uccelli e animali e tuttavia ci metteva molta abilità.
Questa riluttanza, questa avversione erano qualcosa che lei accettava come una debolezza; in questo sentiva di seguire il giudizio dei suoi genitori.
Tuttavia, stranamente, proprio la caccia era stata all'origine del loro matrimonio. Lei aveva raggiunto i genitori alla fine di un safari e lì l'avevo incontrato. Suo padre l'aveva elogiato: era un ottimo tiratore; poi le aveva fatto la corte e lei ne era; rimasta lusingata. Adesso capiva che l'approvazione del padre aveva avuto molto a che fare con tutto questo; naturalmente, però, lui le piaceva anche per altre ragioni. Era attraente, affascinante e pieno di attenzioni. E poi era attirata dal fatto che, diversamente da altri corteggiatori guardati con favore dai suoi genitori, lui non aveva né soldi né un nome alle spalle.
Era un funzionario coloniale stipendiato con una carriera da fare e con parecchia strada davanti prima di riuscirci.
La sua presenza al safari era dovuta in parte alla sua abilità come cacciatore e in parte a un prudente risparmio al centesimo fatto in precedenza.
La corte era stata breve. Ben presto le aveva chiesto di sposarlo ed era stato accettato. C'era stato uno splendido matrimonio e poi era tornata con lui alla sua sperduta postazione coloniale.
Per un mese erano stati febbrilmente felici, per altri sei più pacatamente contenti. Adesso erano sposati da quasi un anno.
Nelle ultime settimane, con del tempo a disposizione per pensare, aveva analizzato se stessa e il marito.
Il loro matrimonio, vide, era stato tutto un calcolo.
Per quanto riguardava lui, aveva capito fin dall'inizio di essere una specie di preda, sia per la posizione del padre al governo sia per la grande ricchezza ereditata dalla famiglia e per la sua posizione sociale.
Ma anche sapendo questo, sentiva di non, aver afferrato esattamente che cosa lei significasse per il marito, e neppure capito in che luce lui la considerasse.
«Preda» non era la parola esatta: «trofeo» era più indicata. Dopo tutto, era un cacciatore. Non erano tanto i suoi soldi o la posizione sociale che lui cercava, quanto la realizzazione di un piano difficile. E lei si chiedeva amaramente se, dopo averlo portato a compimento, non l'avrebbe presto rinchiusa in una cassa di vetro come il luccio di tre metri che teneva sulla parete di fronte alla sua scrivania.
Tentò di essere onesta e obbiettiva anche con se stessa.
C'era sempre stato un forte contrasto tra lei e i suoi genitori, contrasto che affondava le radici in due uguali necessità, di cedere al loro volere e di sfidarli.
Lui le aveva offerto una via d'uscita decorosa, anzi vittoriosa. Pur ammirandolo come cacciatore, essi certo non lo desideravano come genero; ma avendogli dato la loro stima prima che lei lo incontrasse non potevano ritirare l'apprezzamento se non basandosi su esplicite questioni finanziarie e sociali. E il loro orgoglio, come lei ben sapeva, lo impediva.
Avevano ritenuto del tutto corretto ostacolare la sua relazione, ma sollevare questioni così specifiche sarebbe stata una grossolanità inammissibile.
Non era la prima volta, rifletteva, che un matrimonio si basava su bisogni e speranze diverse e ci si poteva aspettare che il disaccordo tra di loro diventasse evidente alla fine della luna di miele. Il problema era cosa sarebbe successo dopo.
Se permettevano che la cosa non si fossilizzasse, tutto si sarebbe assestato: o in un matrimonio di convenienza o nel divorzio. La prima soluzione era più probabile. Lui non avrebbe ceduto volentieri un trofeo, per poco che significasse per lui.
Per quanto riguardava se stessa, non pensava di poter sopportare i sorrisi - anche se non li avrebbe mai visti - quei sorrisi che i suoi genitori si sarebbero scambiati udendo la notizia. Era una sconfitta che si rifiutava anche solo di considerare.
Così tutte queste motivazioni calcolate potevano mantenere in piedi il matrimonio, se non altro nelle apparenze. Ma anche questo pensiero la disgustava; la sconfitta sarebbe stata tutta interiore, ma proprio per questo più profonda.
Ci doveva essere una soluzione, in qualche modo dovevano tutti e due superare le proprie limitazioni e costruire un vero matrimonio. Era sicura, anche se con una punta di disperazione, che la cosa doveva essere possibile; provava ancora rispetto per lui, e credeva fermamente che anche lui la rispettasse. Pensava che lui potesse essere onesto con se stesso come cercava di esserlo lei. I loro interessi e i loro caratteri erano contrastanti ma con buona volontà e lealtà potevano costruire dei ponti. E col tempo quei ponti, ben diversi dall'arcobaleno luminoso delle illusioni, sarebbero diventati abbastanza resistenti per essere attraversati dall'amore.
Ma non sarebbe stato facile e il problema del viaggio la ossessionava. Si era sentita ferita quando l'aveva deciso; era la prima volta, dopo il matrimonio, che se ne andava.
Era stato duro non essere consultata ma solo avvertita: due settimane su per le montagne con il permesso di uccidere un orso «grizzly». Questi orsi erano una specie protetta e quindi i permessi erano molto limitati.
C'erano molte altre cose che le sarebbe piaciuto fare, forse avrebbe preferito qualsiasi altra cosa.
Naturalmente non era costretta ad andare con lui; poteva andarsene per conto suo magari a visitare una delle città in rovina.
La cosa poteva anche rivelarsi positiva perché, senza la tensione di un vincolo privo di vera intimità, sentiva che sarebbe riuscita a ragionare con maggiore chiarezza. La separazione fisica poteva aiutare il loro rapporto.
Una volta riuniti, avrebbero potuto guardarsi con occhi nuovi e con più comprensione.
O forse poteva accadere il contrario. Non andando con lui poteva farlo irrigidire nella posizione che già andava assumendo e cambiare l'indifferenza in odio.
Entrambe le alternative erano rischiose. Anche l'andare con lui presentava delle incognite.
Vivendo da soli a contatto con la natura sarebbero stati costretti a un'intimità che, da come stavano le cose, non sapeva a cosa potesse portare. Poteva costruire il primo ponte o il terreno tra loro poteva spaccarsi del tutto e lasciarli completamente e definitivamente divisi.
Alla fine decise di andare. Lui assentì ma non fece nessun commento, non mostrò né piacere né fastidio.
Dopo due giorni fu sicura di aver fatto la cosa giusta.
I loro rapporti erano più scorrevoli di quanto non lo fossero da mesi e lei sentiva che era il tipo giusto di naturalezza, una specie di sopportazione costruttiva. Non ci fu un ritorno sfrenato di passione - e lei non era stata così sciocca da pensarlo possibile - ma un modo nuovo di dare e ricevere, un'affettuosità che sembrava fondata sulla forza.
Il posto stesso era d'aiuto: si erano accampati ai piedi di una collina presso un ruscello limpido che scendeva dalle montagne sovrastanti. Per circa duecento metri tutt'intorno non c'era che natura selvaggia: animali, uccelli, pesci nei punti più profondi del ruscello e una folta abbondanza di alberi, cespugli e fiori autunnali.
Erano cadute le prime nevi. Si distinguevano, bianche, sui picchi delle montagne.
Ma ormai il tempo era di nuovo bello, i giorni limpidi e azzurri e le sere piacevolmente rinfrescate da un po' di gelo. Di notte le stelle erano enormi e risplendevano di una luce fredda, sospese pesantemente nell'immenso cielo nero.
Non vedevano al di là delle cime dei monti; lei li scrutava con nostalgia ma senza rimpianti. La bellezza dei luoghi e quello scoppio di allegria naturale colpì entrambi. Naturalmente, ne furono contagiati in modo diverso: per lei era qualcosa da accettare, da cui lasciarsi cullare; per lui erano parte di una regione e di un tempo da caccia. Però condividevano la stessa gioia e la stessa esaltazione.
Lui la lasciava indietro mentre cacciava. Lei oziava, lasciando che il sole la penetrasse tutta. Quando lui tornava con del pesce o della selvaggina, lei la puliva, preparava e cucinava. Non le dispiaceva farlo: non era la morte che detestava ma l'atto di uccidere.
I giorni passavano e lui non era ancora riuscito a prendere il «grizzly». Ne parlava e lei ascoltava, cercando di vincere i suoi scrupoli e in gran parte riuscendovi. Aveva trovate delle orme e le aveva seguite, ma senza successo. Alla fine era sicuro che nella zona c'erano orsi, doveva solo aver pazienza.
- Potresti usare il canotto aereo - gli diceva - invece di seguire le orme a piedi. Non è più facile scovarlo dall'alto?
- Si deve cacciare a piedi.
- Perché il permesso dice così? Ha tanta importanza? Nessuno verrebbe a saperlo.
- È la regola - rispose lui. - E le regole vanno rispettate.
La cosa era completamente priva di senso per lei ma non discusse. Pensava che in un certo senso fosse ammirabile avere delle regole. Quello che importava era che lui fosse felice che ci fosse un contatto tra loro.
- Naturalmente - riprese lui - se non avrò fortuna prima che sia tempo di tornare, può darsi che cambi idea.
Sorrise: - Voglio quella pelle!
Sorrise con lui. Era infantile ma faceva tenerezza e, essendo una confessione, li avvicinava ancor di più.
Aveva proprio fatto la cosa giusta.
Lui uccise il «grizzly» quando aveva ancora un giorno a disposizione e usò il canotto per riportarlo al campo.
Lo scuoiò e quella sera le diede bistecche d'orso da cucinare. Era un maschio piuttosto anziano che misurava circa tre metri e mezzo dal naso alla coda.
Era molto compiaciuto con se stesso. Seduto presso il fuoco, sotto le stelle, disse:
- È andato tutto bene.
- Sì. Ne sono felice.
- Pensavo... c'è qualcosa che vorresti fare? Qualcosa in particolare?
Lei in questo vide un altro segno del nuovo, e in potenza più forte, legame che li univa. Lui aveva soddisfatto i propri desideri ed era già qualcosa che adesso pensasse a lei. In realtà non c'era niente che lei volesse - le bastava la situazione stessa - ma capì che era importante dare una risposta.
Disse:
- Pensavo...
- Sì?
- Sarebbe simpatico andare su una montagna con il canotto.
- Perché no? - rispose lui. - Ci andiamo domani.
Il fuoco del falò rovinò giù e lui vi gettò sopra un altro ceppo. Scoppiettò e le fiamme guizzarono in alto. Lei guardò le stelle: erano lontane e senza importanza.
Il tempo cambiò durante la notte; da ovest arrivò una corrente d'aria calda portando con sé un velo sottile di pioggia. Anche questo cambiamento gli fece piacere. Dal momento che il tempo bello aveva resistito abbastanza a lungo da permettergli di uccidere il suo orso, era giusto che adesso cambiasse. Calcolò che le nubi fossero a un livello basso, e quindi si sarebbero presto alzati al di sopra di esse, usando il canotto. Il calcolo era giusto. Il canotto si alzò attraverso un grigiore oscuro fino a raggiungere un grigio più luminoso, poi un abbagliante chiarore di perla e alla fine un azzurro limpido che sovrastava un increspato mare di bianco.
Le montagne innalzavano le loro punte innevate al di sopra del mare di nubi. Si diressero verso una cima scelta da lei, attraverso un mondo privo di vita se non per loro e un'aquila solitaria che si librava in alto. Si chiese se lui volesse ucciderla e fu contenta quando vide che non era così. Fecero colazione sulla neve e si sdraiarono a un sole caldo e abbagliante.
Il giorno se ne andava lasciandoli intorpiditi e felici.
Nel pomeriggio il mare di bianco sotto di loro cominciò ad aprirsi, lasciando vedere, dapprima, degli scorci e poi valli piene di una selvaggia ricchezza di verde, di vita.
Aveva conosciuto pochi giorni così pieni di pace; forse nessuno. Ma non provò nessun rimpianto quando lui decise che era tempo di tornare: erano stati lì insieme e insieme stavano per andarsene. C'erano ancora poche macchie di nuvole. Lui guidò il canotto verso il basso finché non furono a venticinque metri dalle cime degli alberi.
Seduta vicino a lui, guardava la campagna ondulata e boscosa, punteggiata da ruscelli e piccoli spazi aperti.
Degli animali fuggirono, spaventati dall'ombra del canotto. Lui era indifferente. C'è una fine a tutto, pensò lei, anche alla frenesia di uccidere.
Poi lui esclamò:
- Guarda!
- Cosa?
Fu spaventata dall'impeto e dall'eccitazione della sua voce.
- Là...
Virò e tornò indietro. Lei dapprima non vide niente, tranne un folto gruppo di alberi ai bordi di uno spazio libero dove scorreva un ruscello. Poi qualcosa si staccò dagli alberi e corse dentro il ruscello schizzando via lungo dì esso. Lo riconobbe subito anche se non ne aveva mai visto uno prima, se non in fotografia.
Lui gli lanciò il galleggiante dietro e nello stesso tempo afferrò il fucile dalla sacca.
Lei urlò:
- Non puoi!
- Ma è molto bello!
- Sono una specie protetta, lo sai.
- Tranne nel caso di autodifesa. Chi dirà che non è stato così? A volte attaccano.
Si ricordò le parole che lei stessa gli aveva detto parlando del «grizzly»: «nessuno verrebbe a saperlo». Era proprio vero.
Ma disse ancora:
- Non puoi, non devi. Non rispose neppure. Era tutto preso dalla caccia. La bestia correva lungo il ruscello che serpeggiava tra un gruppo di alberi chiusi. Gli era difficile ottenere una visuale chiara per sparare. Ma lei vide un'altra cosa: poco lontano il ruscello scorreva di nuovo in uno spazio aperto.
Allora avrebbe avuto una buona visuale. Lei trattenne il respiro e capì che se n'era accorto anche lui. Ma all'ultimo momento la bestia lasciò il ruscello. Deviò velocemente a sinistra, precipitandosi di corsa nel sottobosco mentre lui aveva in canna solo un colpo. Lo sbagliò e subito dopo l'animale era al sicuro, nel fitto groviglio della boscaglia che sembrava estendersi per chilometri.
Bestemmiò; lei non disse niente mentre faceva ruotare il canotto di un arco stretto. La caccia era finita e lui non ce l'aveva fatta. Non si poteva localizzare qualcosa al coperto e poi, comunque, non c'era posto dove atterrare.
Si stava facendo buio: non poteva certo cominciare a dargli la caccia a piedi, e l'indomani mattina dovevano ritornare alla postazione.
Si sarebbe arrabbiato, ma lei poteva consolarsi della sua rabbia pensando che non ce l'aveva fatta. Non avrebbe potuto sopportare che l'ammazzasse e la rabbia non era poi una gran cosa.
Ma guardandolo vide che tutta la sua ira se ne era già andata.
Disse, pensosamente:
- Sono molto furbi. Che sia una trappola? Mi chiedo...
Riportò indietro il canotto, seguendo il ruscello nella direzione opposta, e raggiunsero lo spazio aperto con il fitto gruppo di alberi da cui era uscita la bestia. Portò il canotto molto in basso, quasi a sfiorare i rami più alti. Poi esclamò, tutto eccitato:
- Ecco! Lo pensavo.
Al secondo passaggio sparò a caso tra gli alberi. Qualcosa si mosse e corse via, non all'aperto ma nella boscaglia.
Era in gran parte visibile. Sollevò di nuovo il fucile e lei gli gridò con più orrore di prima:
- No! Non vedi che è una femmina... non vedi che è gravida?
Ma lui aveva già sparato. Lei si aggrappò al fucile e, nello stesso tempo, vide la bestia barcollare e cadere.
Lui fece virare il canotto e atterrò vicino alla sua preda; uscirono e rimasero insieme a guardarla.
Giaceva su un fianco e col suo peso aveva abbattuto un piccolo cespuglio di mirtilli. Il sangue che le usciva dalla schiena macchiava i mirtilli e tutto il terreno intorno.
Lei guardò la bestia morta: le pelli che aveva indossato per coprirsi erano scivolate via e lasciavano vedere la pelle bianca e senza peli. Appariva miserevole e grottesca.
Era difficile credere che quel povero mammifero bipede avesse una volta governato questo pianeta e costruito le grandi metropoli che i loro antenati, scendendo dai cieli, avevano distrutto.
Il suo trofeo, quel che rimaneva di antenati rettili infinitamente più remoti era sfiorito, pallido, senza più vita.
Non ci aveva guadagnato nulla. Non avrebbe mai potuto esporre quell'esemplare. La specie, destinata a estinguersi, era assolutamente protetta e la scusa dell'autodifesa non sarebbe servita nel caso di una femmina gravida. Era stato uno spreco inutile.
E con questo, lo sapeva, il loro matrimonio era finito del tutto; sarebbe continuato nella forma - i loro diversi orgogli avrebbero provveduto a questo - ma come un cadavere marcio non come una cosa viva.
L'altro cadavere giaceva ai suoi piedi. C'era un nome per la femmina, si ricordava.
DONNA.
Non provava più neppure pietà. Quella bestia, con la sua esistenza e la sua morte, aveva distrutto le sue speranze.
La odiava anche più di quanto odiava lui.
Si voltò, reprimendo il selvaggio istinto di straziare quella carne nuda con le unghie, e corse verso il canotto.
FINE