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Urania - Racconti d'appendice
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IL CURIOSO CASO DI HENRY DICKENS - Robert Franklin Young
Titolo originale: The curious case of henry dickens

L'individuo magro e trasandato, in doppio petto nero e lobbia nera, che trascinava una vecchia valigia di cuoio la cui esistenza venne in seguito recisamente negata dall'ispettore di bordo, fu registrato sull'elenco passeggeri del volo orbitale n. 54 col nome di Henry Dickens, di Salem, Massachusetts. A parte il contrasto del suo abbigliamento antiquato in mezzo alla vivacità di calzoni e calzoncini, camicie e gonne degli altri passeggeri, niente di particolare lo distingueva fra i turisti che affollavano la scaletta di imbarco, anche se più tardi la signorina Shaw, la hostess di primo grado, si ricordò di aver notato in lui una certa aria arrogante che «si riscontra raramente in gente della classe media».
Appena giunto nel compartimento passeggeri del veicolo orbitale, lui si mise a sedere esattamente in mezzo all'ultimo sedile doppio («come se volesse far credere che, essendo quello un sedile singolo, poteva tenerlo tutto per sé», osservò un'altra turista, una certa signorina Halloran, entrata proprio dietro di lui), e spinse la valigia sotto il sedile. Può darsi che la signorina Halloran abbia ragione, e può anche darsi di no. Comunque sia, sembra improbabile che dopo aver passato due mesi nella lista d'attesa della Compagnia per le escursioni orbitali e sapendo com'era difficile ottenere anche un posto solo, Henry Dickens fosse tanto ingenuo da credere di poterne occupare due con uno stratagemma così puerile.
Il compartimento passeggeri di un'astronave adibita a questi viaggi nello spazio, come sa chiunque ne abbia fatto uno, ricorda molto l'interno di un tipo di veicoli da trasporto terrestri, ora scomparso, noto come Bus Transatlantico. Infatti, anche se nei nuovi modelli il posto di guida (cabina di pilotaggio) si trova in coda anziché davanti, rimangono ancora le due file di sedili doppi col solito corridoio in mezzo, e se le toilette degli uomini e delle donne sono spostate sul muso invece che dietro, tuttavia il boccaporto di emergenza occupa quasi la stessa posizione della vecchia porta di emergenza. L'impressione che si prova, entrando in questo compartimento, di fare un salto indietro nel passato viene rafforzata dalla presenza degli oblo quadrati, disposti a intervalli regolari lungo lo scafo, uno per ciascun sedile doppio. Sembrano proprio finestrini, e si chiamano anche così.
Ma è una impressione che dura poco. L'impronta dell'era spaziale prende il sopravvento: con i visori rettangolari inseriti nel pavimento davanti a ogni sedile doppio, e paralleli al soffitto che, da cima a fondo e da un lato all'altro, forma un unico schermo gigantesco il quale giunti in orbita, trasmette la visione del cielo con tutte le sue meraviglie. L'effetto è talmente nitido e incredibile che il turista viene afferrato da fascino riverenziale, e per tutti e cinque i giri orbitali previsti d voli turistici si dimentica persino che esiste un tetto.

È inutile chiedersi, in ogni caso, se Henry Dickens volesse veramente occupare entrambi i sedili: rimase solo per poco, fino all'arrivo dell'ultimo turista che, non trovando altri posti liberi, andò a sedersi accanto a lui. Dickens lo fece accomodare senza storie, ma l'ultimo arrivato, il signor Artemus Solnitz di Pittsburg, Pennsylvania, capì subito lo stesso che il suo vicino era un tipo solitario, «un misantropo di prima grandezza», come disse in seguito. Il signor Solnitz è un ingegnere sanitario in pensione, che vive con la madre. Prima si occupava di fognature, e dopo aver dedicato i migliori anni della sua vita a raccogliere i vari e inevitabili sottoprodotti della vita civilizzata, come ama dire, ora colleziona libri rari. È anche membro della Società del Santo Fratello, una congregazione della Nuova Chiesa Presbiteriana Riformata, e canta ogni domenica nel coro.
Poco dopo l'arrivo del signor Solnitz, entrò nel compartimento la signorina Shaw. Con il solito discorsetto informò i passeggeri sulle meraviglie celesti di cui fra poco avrebbero goduto e spiegò, nell'eventualità assai improbabile di un caso di emergenza, come srotolare e indossare le leggere tute spaziali riposte sotto i cuscini dei sedili. Poi, toccò un piccolo interruttore vicino al boccaporto di emergenza, e i sedili ribaltabili si trasformarono in cuccette, quindi raccomandò a tutti di rilassarsi durante l'accelerazione, promettendo che entro breve tempo la gravità sarebbe tornata quasi normale. Poi la signorina Shaw tornò nella cabina di comando, chiuse dietro di sé le tendine di fili metallici che separavano il locale dal compartimento passeggeri, e si sdraiò sulla cuccetta anti-accelerazione che divideva con la signorina Nicely, la seconda hostess, di fianco ai sedili ribaltabili e imbottiti occupati dal pilota spaziale Archie Murdock e dal secondo pilota Bix Braxton. Pochi istanti dopo comparve la scritta «PARTENZA» e l'astronave cominciò il suo volo verso le stelle.
Il sistema di propulsione a ioni funzionò perfettamente, in nessun momento il dispositivo anti-gravitazionale venne meno. Tutti avvertirono una piccola, piacevole scossa quando entrò in azione il compensatore di gravità. La signorina Shaw tornò nel compartimento per riportare il piccolo interruttore alla posizione iniziale, e le cuccette ripresero la forma normale di sedili.
- Ehi! - esclamò il signor Solnitz, che era un tipo corpulento e soffriva spesso perché gli mancava il fiato. - Non è stato affatto uno scherzo, vero?
Henry Dickens non disse niente. Era intento a guardare fuori dal finestrino.
«Era come se non respirasse nemmeno più. Sembrava diventato una statua» osservò più tardi il signor Solnitz.
Un po' alla volta il compartimento si riempì di «oho» e «aha», a mano a mano che i passeggeri, uno dopo l'altro, vedevano finalmente coi propri occhi le meraviglie promesse dal programma di gite celesti: le immagini riflesse nello schermo del soffitto, quelle visibili dai finestrini e, soprattutto, l'esplosione di verde e blu che apparve ai loro piedi, proprio davanti alla punta delle scarpe.
- Guarda! - gridò qualcuno. - Sembra un pallone da spiaggia.
Tutti risero. Tutti, tranne Henry Dickens.
Lui continuava a guardare fuori dal finestrino. Immobile.

«Anche se non lo vedevo in faccia» dichiarò la signorina Shaw all'inchiesta, «potevo stabilire dal riflesso nel vetro che guardava verso il basso. L'inclinazione dello sguardo non era sufficiente a consentirgli di vedere la Terra, quindi si capiva che ciò che lo affascinava tanto, qualunque cosa fosse, si trovava poco al di sotto della rotta orbitale seguita dall'astronave. E considerata la velocità a cui viaggiavamo e la fissità del suo sguardo, doveva trattarsi di un panorama piuttosto che di un singolo oggetto. Seguii la direzione del suo sguardo» aggiunse la signorina Shaw «ma non vidi niente. Cioè, niente oltre una manciata di stelle lontane, assolutamente normali, almeno per me, e che non potevano giustificare una simile concentrazione.»
Oltre a essere una ragazza molto attraente, la signori Shaw è anche un'acuta osservatrice. Le dobbiamo molto. Non sappiamo se sia vero o no quello che la signorina Nicely ha malignamente insinuato più di una volta dopo la tragedia; cioè che la prima hostess alterna le sue notti col pilota Archie Murdock e col suo vice Bix Braxton, a eccezione del martedì, il suo giorno libero, quando probabilmente va a letto col fidanzato. Tuttavia questa presunta libertà di costumi della signorina Shaw non diminuisce in alcun modo la sua attendibilità di testimone; può anche darsi benissimo che sia solo un'astiosa invenzione della signorina Nicely, la cui abilità nel respingere gli uomini è inferiore solo a quella della signorina Shaw nell'attirarli.
Il signor Solnitz, che per quasi un'orbita e mezzo di seguito è rimasto seduto accanto a Dickens, resta il nostro miglior testimone. Ha avuto la possibilità di osservarlo da vicino meglio di qualsiasi altro, ed è grazie a lui che sappiamo qualcosa di più su questo strano e inquietante personaggio.
«Come età, mi è sembrato sulla quarantina» ha detto all'inchiesta il signor Solnitz, uno dei pochi collezionisti di libri rari che possiedono le opere complete di Warwick Deeping, Somerset Maugham e John Galsworthy. «Ma qualche volta, sbirciandolo con la coda dell'occhio, ho avuto la conturbante diabolica impressione che fosse molto più giovane o molto più vecchio di quanto avevo pensato. Non dimenticate però che ero costretto a basarmi solo sul suo profilo, perché non si è mai voltato nemmeno una volta a guardare verso di me, nemmeno quando si è alzato e mi è passato davanti per andare nel corridoio.»
«In quell'occasione» ha chiesto J. P. Modd, il magistrato che ha condotto l'inchiesta, «non avete sospettato dal suo atteggiamento o dall'espressione quali potevano essere le sue vere intenzioni?»
«Oh no! No davvero» ha risposto il signor Solnitz. «Pensai semplicemente che andasse alla toilette».

Gli apparecchi impiegati nelle escursioni spaziali seguono sempre la stessa orbita sopra l'equatore, con un perigeo di circa duecentodieci chilometri e un apogeo di duecentotrenta. Anche l'astronave che portava Henry Dickens verso il suo destino percorreva questa rotta continuamente battuta. Qualunque sia stata la cosa da lui vista e che in definitiva l'ha spinto ad agire come ha agito, non può essere perciò imputata al passaggio in una zona sconosciuta dello spazio. D'altra parte tutti i turisti, eccettuato il signor Solnitz, erano e sono d'accordo nel dire che lui non ha potuto vedere niente di insolito.
«Per tutti i diavoli!» ha detto più tardi Jennifer Grossi, una graziosa ragazzina che occupava il sedile esterno proprio davanti a lui. «Non c'era niente da vedere là fuori. Solo le solite stelle insulse, quella vecchia forma di gruviera che è la luna e la vecchia, grande e stupida Terra. Se ci fosse stato qualcos'altro, l'avrei visto anch'io.»
Lo stesso parere, anche se con parole diverse e meno colorite, è stato dato da tutti gli altri turisti prima, durante, e dopo l'inchiesta. A eccezione sempre del signor Solnitz.
Da quest'ultimo sappiamo che per tutta la durata di un'orbita e mezzo, periodo durante il quale lui poté osservare il suo vicino, Dickens non staccò mai una volta gli occhi dal finestrino, se non per cambiare un po' la posizione della testa ogni quarto d'ora o giù di lì, probabilmente per non prendersi un torcicollo. E quando il signor Solnitz richiamò la sua attenzione su un'immagine particolarmente suggestiva dell'Himalaya, durante la prima parte della seconda orbita, la sola risposta che il collezionista di libri rari ricevette in cambio di questo gesto amichevole fu uno scatto di collera. - Che crepi l'Himalaya fottuto! Che crepi tutta la fottuta Terra - disse il signor Dickens.
Il signor Solnitz, naturalmente, non tentò più di farlo parlare.
«Non ce ne fu bisogno, in ogni caso» dichiarò Solnitz nella sua testimonianza, «perché poco dopo quell'accesso di rabbia, Dickens si mise a parlare da solo. Lo fece più di una volta. Era un borbottio convulso, in tutte le possibili lingue del mondo, o almeno così mi sembrò di sentire. Io ho solo un'infarinatura di latino e di francese, che mi è rimasta dagli anni beati della scuola superiore, e così, del suo monologo riuscii a capire soltanto le frasi pronunciate in inglese. Una volta disse in questa lingua: "Avrei giurato che il trono era più grande". Un'altra volta: "Quei bastardi hanno lasciato che andasse tutto in malora. Parola mia mangeranno merda quando prenderò io le redini in mano!". E una terza volta disse: "Scommetto che sarà sorpresa di vedermi, dopo tutti questi anni! Ero la pecora nera eh? Non ha pensato all'era spaziale, però. Vedremo chi la spunterà stavolta!".»
Queste tre singolari affermazioni vennero confermate da Jennifer Grossi, che le aveva sentite anche lei.
Abbiamo già espresso la nostra ammirazione per lo spirito di osservazione della signorina Shaw. Grazie al suo grado, era esonerata dal dedicare il suo tempo a lavori come la preparazione dello spuntino di metà viaggio, che veniva confezionato nel cucinino sul lato posteriore della cabina di comando, e l'inventario delle provviste nella dispensa attigua; poteva così fermarsi a lungo nel compartimento passeggeri a fare commenti e dare informazioni su questa o quella meraviglia celeste, e a mostrare le Pleiadi, Messier 31, le Nubi di Magellano, e tanti altri spettacoli celesti. I passeggeri l'ascoltavano attentamente, tutti tranne uno, naturalmente.
«La sua posizione e la sua indifferenza per quello che dicevo» ha osservato in seguito la signorina Shaw, a proposito di Dickens, «mi ricordarono una volta che da bambina ero stata lontana da casa per frequentare la scuola media, per un periodo che allora mi sembrò un'eternità. Tornando finalmente nel mio quartiere di periferia con la monorotaia, durante tutta la seconda metà del viaggio avevo tenuto il naso schiacciato contro il vetro del finestrino, senza staccare gli occhi dalle immagini familiari di case, viali, negozi che scorrevamo via. Ricordo che non risposi mai ai ripetuti tentativi di mia sorella maggiore di farmi parlare del più e del meno. Ero insensibile a tutto tranne che a quelle pietre piene di nostalgia, che prima non avevo mai preso in considerazione e che in quel momento invece mi apparivano così care. E ogni volta che vedevo sfilare un palazzo malandato o un viale con l'erba incolta, provavo una specie di affronto personale e un fiero sdegno contro le autorità che avevano lasciato andare in rovina tutte quelle meraviglie.
«Tuttavia, ripensandoci più tardi» continuò la ragazza, «ho capito che la vera causa di quei ricordi d'infanzia non era la posizione né l'indifferenza di Dickens, ma l'acuto senso di solitudine che una ragazza qualche volta prova nello spazio, anche quando è al sicuro su un'astronave in mezzo ad altri esseri umani.»

Circa a metà della seconda orbita, Henry Dickens riprese da sotto il sedile la sua valigia e passato davanti al signor Solnitz si incamminò nel corridoio, apparentemente in direzione della toilette. Fu allora che il collezionista di libri poté vedere più da vicino la faccia del suo compagno di viaggio. Rimase colpito, in particolare, dalla grossezza e dai segni impressi sul naso di Henry Dickens.
«Non era un naso normale» disse al magistrato. «Era rosso, come se quel tipo avesse preso un brutto raffreddore, e se lo fosse soffiato continuamente, e tutto butterato. Anche la faccia e il collo, almeno per quel poco che potei vedere, erano butterati. Non vidi molto bene gli orecchi, o meglio quello dalla mia parte, perché l'altro mi era completamente nascosto. Notai però un folto ciuffo di peli rossi che uscivano dall'orecchio semicoperto da ciocche cespugliose di capelli rossi che spuntavano da sotto il cappello. A proposito, in quel momento capii finalmente anche da dove veniva l'odore sottile che avevo avvertito fin da quando mi ero seduto accanto a lui. Prima non ci avevo fatto troppo caso e avevo pensato che fosse qualche sgradevole emanazione proveniente da uno dei tanti congegni meccanici che si trovano dappertutto a bordo di un'astronave.»
Quest'ultima osservazione, assieme ad altre dichiarazioni fatte dal signor Solnitz sullo stesso argomento, venne cancellata dai verbali dell'inchiesta su ordine di J. P. Modd. «In considerazione del fatto che nessun altro passeggero e nessun membro dell'equipaggio ha sentito questa "vaga emanazione di zolfo"» concluse il coroner, «è mia fondata opinione che coni ogni probabilità essa sia nata solo dalla fantasia del signor Solnitz.»
Raggiunto il corridoio, Henry Dickens si era messo a camminare verso il salone. Dapprima lo notarono solo altri due turisti (oltre, naturalmente, al signor Solnitz). Anche loro però, come il collezionista di libri rari, pensarono che fosse diretto verso la toilette, per quanto sembrasse strano, ricordò in seguito uno dei due, che in questo caso si fosse portato dietro la valigia. Sfortunatamente, durante la rapida successione dei misteriosi eventi che seguirono la signorina Shaw si trovava in cabina (intenta ai suoi giochetti erotici con l'equipaggio, se dobbiamo prestar fede alla signorina Nicely) e così abbiamo perso un testimone di prim'ordine della tragedia. Comunque, riunendo i racconti dei vari turisti e dando un senso logico a quello del signor Solnitz, è possibile ugualmente ricostruire con ragionevole precisione i momenti finali vissuti da Henry Dickens dentro e fuori il veicolo spaziale.
Non andò affatto nella toilette, né altrove. Avanzò lungo il corridoio fino al boccaporto di emergenza, e qui si fermò, afferrò la leva che chiudeva il portello interno e la tirò con forza. Ma non successe niente.
Il portello sporgeva di quasi un metro nel compartimento passeggeri, e subito dietro c'era seduta la signora Mary Hentz col piccolo Vinnie.
- Mamma, mamma - gridò il bambino, - gli occhi dell'uomo cattivo bruciano!
In un primo momento Mary Hentz si limitò a guardare. Poi, quando un torrente delle «imprecazioni più oscene e più indecenti mai sentite in vita mia» cominciò a scorrere dalle labbra di Henry Dickens, la donna prese il figlio e «se lo strinse al seno per proteggerlo».
Henry Dickens tirò una seconda volta la leva con forza. Poi una terza. Le parolacce che uscivano dalla sua bocca crebbero di varietà e di intensità, riempirono l'intero compartimento e attirarono lo sguardo di tutti sulla figura magra, terribile, vestita di nero, che lottava rabbiosamente contro la resistenza di quel congegno meccanico «che avrebbe messo a dura prova la pazienza di un santo».
«Con tutto quel baccano nel compartimento passeggeri» chiese J. P. Modd ad Archie Murdock, il primo pilota, quando venne il suo turno di testimoniare, «com'è possibile che voi, stando nella cabina di comando, non abbiate sentito niente?»
Una vampata di rossore salì dal collo di Archie Murdock fino alle guance dalla linea un po' infantile.
«Bix e io stavamo calcolando il punto di rientro, ed eravamo intenti a bere il caffè che la signorina Nicely aveva scaldato nel cucinino e che la signorina Shaw ci aveva appena portato. E poi quelle tendine di fili metallici che si usano oggi creano in pratica un isolamento acustico. Inoltre...»
Il magistrato lo interruppe. «Torniamo alla leva del boccaporto. Non mi soffermerò sulla curiosa presenza di un aggeggio simile, relativamente rozzo, a bordo di un'astronave in un'epoca in cui la miniaturizzazione è diventata una religione. Spiegatemi soltanto, per favore, come può un congegno di quel genere, dalla cui facilità di manovra potrebbero dipendere anche le vite dei passeggeri, bloccarsi a tal punto che nemmeno un adulto riesce ad azionarlo?»
Il pilota Archie Murdock si strinse nelle spalle. «Non li costruisco io i veicoli spaziali. Io mi limito a portarli in orbita. E poi, quel tale ce la fece a spostare la leva, alla fine.»

Quando la leva cedette, il portello girò su se stesso e si aprì. Henry Dickens si lanciò nel boccaporto e rinchiuse violentemente il portello dietro di sé. Immediatamente cominciò a lampeggiare una luce rossa. - Oh, mio dio! - gridò Mary Hentz. - Morirà!
Un avviso a grandi lettere nere sulla porta avvertiva: «È vietato in qualsiasi caso tentare di aprire quando la luce rossa è accesa». Forse è per questo che nessuno cercò di impedire che Henry Dickens compisse il suo folle gesto.
Più probabilmente, la vera ragione è che i turisti di tutte e due le file di sedili si erano precipitati a guardare fuori dai finestrini del lato destro.
Presto l'attesa generale fu accontentata: il corpo fluttuante di Henry Dickens entrò nel campo visivo.
«Galleggiare» è la parola esatta. Pur essendosi buttato fuori, il suo corpo restava nella scia della nave come se ne facesse parte e anzi, avrebbe dovuto continuare a farvi parte per tutto il resto del volo, o almeno fino al momento del rientro. Il fatto che invece non sia andata così è un altro aspetto increscioso di questo caso già increscioso di per sé.
In effetti, lui continuò a galleggiare per qualche tempo sotto gli occhi incantati della gente. La visibilità non era ideale, perché in quel tratto la Terra si trovava fra l'astronave e il Sole, e l'unica luce era il pallido riflesso delle stelle. Anche se non c'erano dubbi che Henry Dickens fosse morto, la faccia e la bocca non presentavano tracce di soffocamento e di lesioni polmonari. Sembrava sostanzialmente sereno mentre galleggiava là fuori. Per un attimo rimase ancora a galleggiare supino, le spalle rivolte alla Terra e valigia di cuoio appoggiata sopra lo stomaco. In quel momento sembrava quasi una grossa boa. Poi, per un capriccio dello spazio, o forse a causa di un lieve sbandamento dell'astronave, si rovesciò sullo stomaco, ma continuò miracolosamente a trattenere la valigia, e scivolò via rapido con una leggera angolazione verso il basso. Pochi istanti dopo, uscì dal campo visivo.

Riguardo alla singolare scomparsa di Dickens, la versione del signor Solnitz si discosta totalmente da quelle degli altri turisti ed è stata la causa della sproporzionata pubblicità data all'inchiesta.
«Mentre lo guardavo, affascinato» testimoniò, «un paio di ali da pterodattilo spuntarono all'improvviso dalle sue spalle e si dispiegarono con grazia sui due lati del corpo. Poi lui volò via allontanandosi dall'astronave, e raggiunse la sua destinazione; dopo, naturalmente, divenne invisibile ai nostri occhi mortali come il mondo celeste a cui era approdato. So benissimo» aggiunse il signor Solnitz, rispondendo forse a un'occhiata sorpresa di J. P. Modd «che le ali non servono a niente nel vuoto. Ma sono anche convinto che le ali di Henry Dickens non erano... cioè, non sono di tipo normale. Esse sono di natura tale da poter funzionare solo nel vuoto; anzi, senza il vuoto non è nemmeno possibile vederle. Sono convinto inoltre che intorno alla Terra, a un'altezza di circa duecento chilometri, esiste una realtà che noi siamo incapaci di percepire fisicamente ma della cui esistenza siamo consapevoli spiritualmente per tutto il corso della nostra vita. Solo che siamo abituati a collocarla, quando ci curiamo di farlo, molto più vicino alla superficie del nostro pianeta: in genere, appena sopra le nubi.
A questo punto J. P. Modd gli fece una domanda alquanto strana. «Per caso, signor Solnitz, fra i tanti libri rari in vostro possesso avete anche un'edizione di "Il Paradiso Perduto" del 1866, illustrata da Gustave Dorè?» gli chiese.
«Sì» rispose il signor Solnitz. «È uno degli esemplari più preziosi della mia collezione».
«Grazie, signor Solnitz. E grazie della vostra collaborazione. Potete andare».

Ricapitolando i fatti, a conclusione dell'inchiesta il magistrato disse: «Che il signor Solnitz abbia veramente visto quello che ha creduto di vedere o che abbia invece scambiato la realtà con una famosa illustrazione di Gustave Dorè, non ha molta importanza. La teoria dell'angelo caduto, contenuta nella sua testimonianza, non regge, ecco tutto. È smentita dalla logica. Riflettete: un angelo caduto, fornito di vere ali anche se invisibili, dovrebbe ricorrere a un'astronave per tornare in Cielo? Ma ammettiamo per un momento che sia così, ammettiamo, come il signor Solnitz vorrebbe farci credere, che le ali di una creatura simile possano funzionare soltanto nel vuoto. Avrebbe avuto bisogno di aspettare per millenni che noi, poveri mortali, riuscissimo a costruire un veicolo spaziale che lui, questo essere, grazie ai suoi vantati poteri soprannaturali, avrebbe potuto creare in un attimo? Avrebbe dovuto attendere per altri due anni ancora che gli uomini trovassero un tipo di propulsione sufficientemente economico da poter far accedere il pubblico ai viaggi orbitali? E avrebbe avuto bisogno di aspettare due mesi interi per ottenere un posto su questa astronave?
«La mia risposta è no. Secondo me, la ragione per cui Henry Dickens ha fatto quello che ha fatto è soltanto una: era stanco di vivere. Proprio come molti di noi. Poiché non esistono prove che Henry Dickens abbia inscenato una commedia per chissà quale scopo, non può esserci nessun'altra risposta. Non sapremo mai perché abbia scelto di morire in maniera tanto spettacolare, così come non sapremo perché abbia sentito il bisogno di portare con sé i suoi oggetti personali, né come abbia fatto a introdurre la valigia nell'astronave all'insaputa dell'ispettore di bordo. Comunque, le risposte a queste domande non sono indispensabili.
«Vorrei inoltre sottolineare che il fatto che le autorità inquirenti non abbiano trovato la minima prova che Henry Dickens sia mai vissuto a Salem, Massachusetts, non basta a dimostrare che quella non era la: sua residenza. Non c'è città, nel nostro paese, in cui non viva almeno una persona che se ne sta i nascosta, che nessuno conosce, e di cui non esistono tracce nei registri ufficiali.
«La mia conclusione, dopo aver soppesato attentamente tutti gli aspetti di questo caso, è che Henry Dickens era un essere umano perfettamente normale, anche se un po' fuori del comune, e che si è dato la morte volontariamente. E in questo senso farò rapporto alle autorità competenti».

Il magistrato aveva ragione, naturalmente. Come abbiamo avuto ragione noi come popolo a iniziare l'attuale confronto atomico. D'accordo, alcuni sostengono che non siamo stati noi a prendere l'iniziativa e che la minibomba che ha disintegrato Mosca è caduta dal Cielo. Gli sciocchi romantici, a quanto sembra, sono duri a morire. Che vadano al diavolo!

FINE