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Urania - Asimov d'appendice
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LA MIA OPINIONE SULL'ALDILÀ - Isaac Asimov
Titolo originale: The subtlest difference

Dal momento che nei miei articoli tratto sempre gli argomenti più diversi, e sempre dall'alto della mia autorità di super-esperto, potrebbe fare un gran bene ai miei gentili lettori se, di tanto in tanto, dessi una dimostrazione della mia ottusità. Perciò ho deciso di darla, e la cosa non mi spiace affatto anche perché ho sotto mano parecchi esempi tra cui scegliere.
Eccone uno. Circa due settimane fa sedevo tra il pubblico di una conferenza tenuta da un investigatore privato. Argomento: la sua professione. L'oratore era un giovane di bell'aspetto, buon parlatore. Era un piacere ascoltarlo.
Raccontava in che modo aveva aiutato un grosso malfattore a cavarsela, riuscendo a dimostrare che la polizia aveva condotto su di lui un'indagine illegale. Spiegò poi di sentirsi la coscienza a posto nel cercare di togliere dai guai persone che, senz'ombra di dubbio, erano dei criminali, perché:
1) secondo la Costituzione hanno diritto anche loro alla miglior difesa possibile;
2) se i sistemi dell'accusa sono imperfetti, i criminali verrebbero comunque rimessi in libertà dopo il giudizio in appello;
3) pretendendo che il procedimento sia regolare fino all'ultimo dettaglio, proteggiamo la comunità, noi stessi compresi, da un governo che senza la nostra costante vigilanza potrebbe facilmente trasformarsi in una tirannide.
Il discorso non mi convinse. Sa il fatto suo, pensai.
Poi passò agli aneddoti umoristici, uno dei quali riguardava un professionista separato dalla moglie, che conviveva con la sua segretaria. Desiderando liberarsi anche della segretaria, il tizio aveva chiesto all'investigatore di seguirla e fare in modo che lei si accorgesse di essere pedinata. La segretaria sarebbe quindi andata da lui per dirgli che era seguita, e lui avrebbe potuto dirle: - Tesoro, è senz'altro mia moglie. Mi sta alle calcagna. Dobbiamo separarci.
Ma, nonostante che l'investigatore avesse fatto di tutto per essere notato, la segretaria non se n'era data per intesa, e il piano era fallito.
A quel punto alzai la mano e, per pura ottusità, feci una domanda decisamente sciocca. - Posso capire le questioni costituzionali implicite nel prestare la propria opera a un criminale - dissi, - ma qual è la questione costituzionale implicita nell'aiutare un individuo a giocare uno sporco tiro a una povera donna? Perché vi siete prestato al gioco?
L'investigatore mi guardò sbigottito e rispose: - Ma mi aveva pagato!
Tutto il pubblico ridacchiava sotto i baffi, e qualcuno si dava perfino di gomito, facendomi capire che, lì dentro, l'unico che avesse bisogno di farsi spiegare certe cose ero io.
In effetti l'ilarità che avevo suscitato fu tanto evidente che non ebbi il coraggio di fare la domanda successiva, che sarebbe stata questa: - Ma se la professione di investigatore privato vi espone alla tentazione di fare lavori poco puliti solo per denaro, perché non cambiate mestiere?
Suppongo che anche per questa domanda esista una risposta semplicissima, che la mia ottusità m'impedisce di vedere.
A questo punto, dopo avervi avvertito della mia totale incapacità di capire cose piuttosto semplici, voglio trattare un argomento decisamente difficile: il problema della vita e della morte.
Ma, tenendo presente quello che vi ho «confessato», niente di quanto dirò dovrà essere considerato come proveniente da fonte autorevole, o qualcosa di diverso dalla mia opinione personale. Di conseguenza, se non sarete d'accordo con me, sappiate che sarete anche liberi di continuare a non esserlo.

Cos'è la vita? Cos'è la morte? E come facciamo a distinguerle?
Se confrontiamo un essere umano in piena efficienza con un sasso, non c'è problema.
Un essere umano è composto di determinate sostanze chimiche, intimamente connesse con la vita (proteine, acidi nucleici e così via), e un sasso no.
Inoltre, un essere umano presenta una serie di cambiamenti chimici, che costituiscono il suo «metabolismo», per mezzo dei quali il cibo e l'ossigeno vengono convertiti in energia, tessuti organici e prodotti di scarto. Ne risulta che l'essere umano cresce e si riproduce, trasformando sostanze semplici in altre più complesse, in una apparente, ma solo apparente, sfida alla seconda legge della termodinamica. Un sasso non è in grado di fare una cosa simile.
Infine, un essere umano presenta la caratteristica della «adattabilità comportamentale», che si esplica in uno sforzo verso l'autoconservazione, nella fuga dal pericolo e nella ricerca della sicurezza, sia attraverso i meccanismi inconsci fisiologici e biochimici, sia per mezzo della volontà consapevole, mentre un sasso non può fare altrettanto.
Ma l'antitesi uomo-sasso offre una distinzione tra vita e morte talmente semplice da risultare banale, e perfino insignificante. Quindi quello che dobbiamo fare è prendere in considerazione un caso più complesso.
Invece di esaminare le differenze tra un essere umano e un sasso, vediamo dunque di mettere a confronto una persona viva con una morta. Cerchiamo poi di complicare ulteriormente le cose chiedendoci quale sia la differenza essenziale in un essere considerato poco prima e poco dopo la morte, diciamo cinque minuti prima e dopo.
Quali cambiamenti avvengono in questi dieci minuti?
Le molecole ci sono ancora tutte, così come le proteine e gli acidi nucleici. Ciò nonostante, «qualcosa» ha cessato di essere presente, perché dove il metabolismo e l'adattabilità comportamentale erano in funzione, per quanto debolmente, prima della morte, dopo la morte non lo sono più.
Una scintilla di vita è svanita. Di cosa si tratta, in realtà?
Relativamente a questo punto una prima congettura può riguardare il sangue. È molto facile supporre che esista un rapporto particolare tra il sangue e la vita, un rapporto assai più stretto e intimo che tra vita e altri tessuti. In fin dei conti, quando una persona perde sangue, s'indebolisce gradualmente ma costantemente, finché non sopraggiunge la morte. Allora, forse, è il sangue la vera essenza della vita, o meglio, la vita stessa.
Un residuo di questa teoria lo si può trovare nella Bibbia, che in alcuni passi identifica la vita con il sangue.
Ad esempio, dopo il Diluvio Universale, Noè e la sua famiglia, unici esseri umani scampati alla catastrofe, ricevono da Dio l'insegnamento su quello che possono mangiare. In una parte di questa pratica di dietetica, Dio dice: «Solo non mangerete la carne che abbia ancora la sua vita cioè il sangue». (Genesi, 9:4).
In un altro passo sull'alimentazione, Mosè riferisce che Dio è stato anche più esplicito e ha detto: «Ma guardati assolutamente dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita: non mangiare dunque la vita con il sangue». (Deuteronomio, 12:23). Espressioni simili sono ripetute nel Levitico (17:11 e 17:14).
Evidentemente, la vita è il dono di Dio e non può essere mangiata, ma una volta che il sangue sia stato tolto, quello che rimane è essenzialmente una cosa morta, lo è sempre stata, e perciò può essere mangiato.
Da questo punto di vista le piante non possono essere considerate veramente vive, poiché non hanno sangue. Le piante non vivono, più semplicemente vegetano, e il loro unico scopo è di fornire cibo.
Per esempio, nel Genesi (1:29,30) Dio dice agli esseri umani che ha appena creato: «Ecco, io vi do ogni erba producente semente che è sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero che ha frutto di albero producente seme: vi servirà da cibo. Ad ogni animale della terra, ad ogni volatile del cielo, a tutto quanto striscia sopra la terra ed ha anima vivente do per cibo il verde dell'erba».
Le piante possono solo «produrre seme», mentre gli animali hanno «anima vivente».
Oggi, naturalmente, questa distinzione non esiste più per noi. Le piante sono vive quanto gli animali, e in loro la linfa compie funzioni analoghe a quelle del sangue. Tuttavia, anche considerando soltanto gli animali, la teoria del sangue non potrebbe più essere sostenuta. Infatti, sebbene la perdita di una certa quantità di sangue porti inevitabilmente alla morte, non è vero il contrario, dato che è possibile morire anche senza perdere una sola goccia di sangue. Succede, anzi, molto di frequente.
Concludendo, dal momento che la morte può sopraggiungere, stando all'evidenza, anche quando non si perde niente di materiale, la scintilla di vita che andiamo cercando va trovata in qualcosa di più impercettibile del sangue.
Si potrebbe allora prendere in considerazione il respiro. Tutti gli esseri umani e tutti gli animali respirano.
Se riflettiamo sul respiro, vediamo che, rispetto al sangue, rispecchia in modo molto più adeguato il concetto di essenza della vita. Noi espiriamo e inspiriamo senza interruzione. L'incapacità di inspirare dopo aver espirato porta inevitabilmente alla morte. Se ad una persona viene preclusa la possibilità di inspirare, sia con una pressione fisica sulla trachea, sia a causa di un osso che le si conficchi in gola, sia per immersione in acqua, quella persona muore. La mancanza di respiro è sicuramente fatale quanto la perdita di sangue, anzi la morte per soffocamento è molto più rapida di quella per dissanguamento.
Per di più, mentre il contrario non è vero per il sangue (perché si può morire anche senza perdere sangue), per il respiro lo è, nel senso che non si può morire se si è ancora in grado di respirare. Un essere umano in vita continua a respirare, sia pure debolmente, non importa quanto vicino sia a morire. Ma, dopo la morte, non respira più, e questo è sempre e inevitabilmente vero.
Oltre a ciò, il respiro stesso è qualcosa di estremamente impalpabile. È invisibile, intoccabile e quindi ai popoli antichi appariva immateriale. Era proprio quella specie di sostanza che poteva e doveva rappresentare l'essenza della vita, e di conseguenza anche l'impalpabile differenza tra la vita e la morte.
Perciò nel Genesi (2:7) la creazione di Adamo è così descritta: «Allora il Signore Iddio con la polvere del suolo modellò l'uomo, gli soffiò nelle narici un alito di vita e l'uomo divenne essere vivente».
La parola «respiro» in lingua ebraica è «ruakh», che viene reso con «spirito».
Questa identità fra «respiro» e «spirito» sembra alquanto forzata, ma in realtà non lo è. Le due parole sono letteralmente uguali. Il verbo latino «spirare» significa «respirare» e il sostantivo «spiritus» equivale a «respiro». La parola greca «pneuma», che vuol dire «respiro», si riferisce anche allo «spirito». La parola inglese «ghost» (spirito, e anche spettro) deriva da un vocabolo anglosassone che significa «respiro». La parola, sempre della lingua inglese, «soul» (anima) è di origine incerta, ma sono convinto che se ne conoscessimo l'origine anche in questo caso ci ritroveremmo di fronte la parola «respiro».
Poiché in inglese abbiamo la tendenza a usare vocaboli di derivazione latina e greca, dimenticandone poi il significato originario, attribuiamo imponenza a concetti che non ne hanno.
Infatti noi parliamo degli «spiriti dei morti». Il significato sarebbe esattamente lo stesso, e farebbe molto meno impressione, se parlassimo del «respiro dei morti». E «Spirito Santo» vuol dire essenzialmente «respiro di Dio».
Si potrebbe obiettare che il significato letterale delle parole non significa niente, che i più importanti concetti esoterici devono essere espressi con parole semplici, e che queste parole traggono il loro significato dai concetti e non viceversa.
D'accordo. Forse, se si crede che la conoscenza venga instillata nell'uomo direttamente da una rivelazione soprannaturale, si può anche accettare questo punto di vista. Ma io ritengo che la conoscenza provenga dal basso, dall'osservazione empirica, dal pensiero semplice e naturale che costruisce un concetto primitivo, il quale poi cresce a grado a grado in complessità e astrazione, in proporzione all'aumento della conoscenza complessiva. Perciò l'etimologia è la traccia che va seguita per arrivare al pensiero «originale», ormai soffocato da millenni di astrusa filosofia. Ritengo anche che la gente comune avesse notato nel modo più ovvio e diretto la connessione esistente tra il respiro e la vita, e che tutti i concetti filosofico-teologici di spirito e anima siano stati elaborati successivamente.

Lo spirito umano è forse così impersonale e informe come il respiro da cui prende, il nome? E gli spiriti di tutti gli esseri umani ormai morti sono proprio amalgamati in una massa confusa e omogenea di vita generalizzata e indefinita? È arduo credere a teorie del genere. Dopo tutto, ogni essere umano è distinto dagli altri, e ne differisce per vari aspetti, sia impercettibili, sia meno impercettibili. Può quindi sembrare naturale supporre che l'essenza della sua vita sia in qualche modo diversa da quella degli altri. Perciò ogni spirito dovrebbe mantenere questa differenza, conservando in certa misura l'aspetto del corpo in cui ha dimorato e al quale ha conferito una vita individuale.
E se ogni spirito reca l'impronta che dava al corpo le sue caratteristiche proprietà, si è tentati di supporre che lo spirito, sebbene in maniera indefinibile, eterea e impalpabile, possiede la forma e l'apparenza del corpo che un tempo abitava. Questa opinione può essere stata sostenuta dal fatto che non è raro vedere in sogno persone morte, come se fossero ancora vive. Nei tempi antichi (e anche in quelli moderni, se è per questo) si attribuì spesso ai sogni il significato e l'importanza di messaggi provenienti da un altro mondo, cosa che li rendeva una valida prova, apparente, del fatto che gli spiriti somigliavano ai corpi che avevano lasciato.
Per salvarne il pudore, non per altro, questi spiriti vengono solitamente raffigurati con bianchi abiti dai contorni indefiniti, fatti di nebbia luminescente o addirittura di luce radiosa, il che ha dato origine, nei fumetti, alle vignette di spettri e spiriti vestiti con lenzuola di bucato.
Inoltre, è naturale supporre che uno spirito sia immortale. Infatti, come può morire la reale essenza della vita? Un oggetto materiale può essere vivo o morto, secondo che contenga o non contenga l'essenza della vita, ma quest'ultima non può che essere viva, sempre.
Questo ragionamento è analogo alla constatazione che una spugna può essere umida o asciutta, secondo che contenga o non contenga acqua, mentre l'acqua in sé non può che essere umida, o che una stanza può essere illuminata o buia, secondo che i raggi solari vi penetrino o non vi penetrino, mentre i raggi solari possono essere solo luce.
Posto che si abbia una certa quantità di spiriti o anime viventi per l'eternità, che alla nascita entrano in una massa informe di materia dandole vita e l'abbandonano successivamente lasciandola morire, dovrebbe esistere un enorme numero di spiriti, uno ogni essere umano che è mai vissuto e che mai vivrà. Questo numero sarebbe poi destinato a crescere in modo spropositato, nel caso esistessero spiriti anche per altre forme di vita. Potrebbe invece diminuire se gli spiriti venissero, per così dire, riciclati, qualora cioè lo spirito di un morente si trasferisse nel corpo di un neonato.
Le due teorie hanno entrambe i loro sostenitori, sia singolarmente sia insieme, cosicché vi sono alcuni che credono nella trasmigrazione delle anime attraverso tutto il regno animale. Una persona che abbia tenuto una condotta di vita particolarmente riprovevole, in base alla teoria composita può quindi rinascere, poniamo, nel corpo di uno scarafaggio, e viceversa uno scarafaggio può rinascere uomo, se il suo comportamento è sempre stato nobile e virtuoso.
Comunque l'interpretiate, sia che gli spiriti siano esclusiva degli esseri umani o che siano diffusi in tutto il regno animale, sia che esista la trasmigrazione delle anime o che non esista, deve per forza esserci sempre un buon numero di spiriti tenuti in serbo per dare la vita e riprendersela. Ma dove li metteranno, intanto?
In altre parole, una volta accettato il concetto di spirito, si deve accettare anche l'esistenza di un intero mondo di spiriti, che può essere collocato sottoterra, o molto in alto nel cielo, o altrove in qualche parte nell'universo, su un altro mondo o su uri altro «piano»
L'ipotesi più semplice è che gli spiriti dei morti si trovano accatastati tutti insieme sottoterra, forse perché la pratica di seppellire i morti è antichissima, mentre la loro dimora sotterranea è generalmente immaginata come una grigia zona di oblio, simile all'Ade greco o allo Sheol ebraico, in cui lo stato normale è quasi un'ibernazione perpetua. Nella Bibbia lo Sheol è descritto così: «Ivi i malvagi cessano dall'ira, ivi gli stanchi riposano. I prigionieri stanno insieme tranquilli, non odono la voce dell'aguzzino. Piccolo e grande colà si trovano; e il servo è libero dal padrone» (Giobbe 3:17,18).
Questo non essere per molti è insufficiente, e il bruciante senso di ingiustizia che gli deriva dalle vicissitudini della vita li induce a immaginare un luogo di tortura post-mortem, dove gli spiriti delle persone che detestano ricevono la giusta punizione. Vedansi il Tartaro greco o l'Inferno cristiano.
Il principio di simmetria esige quindi che esistano anche luoghi di beatitudine per le persone che loro amano, come il Paradiso, le Isole dei Beati, Avalon, i Felici Territori di Caccia...
Tutta questa massiccia struttura escatologica ha origine dal fatto che i vivi respirano e i morti no, e anche dal fatto che i vivi vogliono disperatamente credere che non moriranno mai del tutto.
Naturalmente al giorno d'oggi sappiamo che il respiro, proprio come il sangue, non ha niente a che fare con l'essenza della vita, e che, come il sangue, è semplicemente un elemento che ci mantiene in vita. Né è immateriale, inconsistente e misterioso come si credeva. Il respiro è materiale come il resto del corpo, ed è composto di atomi non diversi da tutti gli altri atomi.
Eppure c'è ancora chi, nonostante tutto, crede nella vita dopo la morte, non importa quanto sappia, a livello di scienza, sui gas, sugli atomi e sul ruolo dell'ossigeno. Perché?

La ragione principale è che la gente, senza curarsi dell'esistenza o della mancanza di prove sperimentali, vuole credere. E, credendo, viene spinta a credere anche all'irrazionale.
La Bibbia parla di spiriti, di anime e di vita dopo la morte. In un passo, persino Saul convince una strega a evocare dallo Sheol lo spirito del defunto Samuele (Libro Primo di Samuele 28:7,20). Questo è quanto basta a milioni di persone per credere, ma le moderne generazioni, laiche e scettiche, non sono affatto disposte ad accettare indiscriminatamente le affermazioni contenute in quella grande collezione di antiche leggende e poesie della tradizione ebraica, che è la Bibbia.
Ma ci sono le prove di testimoni oculari, mi si dirà. Allora chiedo: quante persone hanno riferito di avere visto spettri e spiriti? Milioni? D'accordo. Ma se anche nessuno dubita della realtà di un così elevato numero di testimonianze, chiunque può dubitare che questi milioni di persone abbiano realmente visto quello che dicono di aver visto. Io non posso assolutamente credere che un individuo razionale accetti come vere queste favole.
Esiste poi addirittura il culto dello «spiritismo», che proclama la capacità, da parte di «medium», di entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Questo culto ha prosperato e ha attratto non solo gli ignoranti, gli incolti e i semplici, ma anche, e nonostante la scoperta di innumerevoli trucchi grossolani, personaggi di notevole levatura intellettuale, come A. Conan Doyle e Sir Oliver Lodge. Tuttavia la grande maggioranza delle persone ragionevoli non crede affatto nello spiritismo.
E ancora, circa vent'anni fa venne pubblicato un libro intitolato «The Search of Bridey Murphy», in cui si raccontava di una donna che si supponeva posseduta dallo spirito di una irlandese morta decenni prima, con la quale si poteva anche comunicare, una volta ipnotizzata l'«ospite». Per un certo periodo questo fatto fu portato come prova della vita dopo la morte, ma oggi non viene più preso sul serio.
Ma allora c'è o non c'è qualche prova della vita dopo la morte che possa considerarsi scientifica e razionale?
Da poco, pochissimo tempo, c'è chi afferma che tale prova esiste. Un medico, Elizabeth Kuhler-Ross, ha presentato un certo numero di dichiarazioni, che lei dice di aver ricevuto da persone in punto di morte, che sembrano indicare l'esistenza di una vita dopo la morte. Dopo di che sono stati pubblicati interi scaffali di libri sull'argomento, dato che ogni libro diventa ovviamente un grosso successo di vendita tra i creduloni.
Secondo queste voci recenti, un certo numero di persone, che per un periodo più o meno lungo di tempo si sono trovate nello stato di «morte clinica», sono comunque riuscite ad aggrapparsi alla vita, a guarire, e poi a raccontare le esperienze fatte durante la «morte».
A quanto pare rimanevano tutte coscienti, si sentivano in pace e felici, osservavano il proprio corpo dall'alto, andavano e venivano attraverso oscure gallerie, incontravano gli spiriti di parenti e amici defunti, e in qualche caso s'imbattevano in uno spirito amichevole, splendente di luce, che doveva condurli in qualche posto.
Fino a che punto si deve credere a queste dichiarazioni?
A mio parere neanche un po'.
E non è neppure necessario ritenere che le persone «morte» mentano sulle loro esperienze. Un individuo tanto vicino alla morte da essere considerato «clinicamente morto» non può aver conservato il pieno possesso di tutte le sue facoltà mentali. Per alcuni istanti la sua mente potrebbe avere sofferto di allucinazioni del tutto uguali a quelle che colpiscono la mente umana per mille altre ragioni: alcool, droga, mancanza di sonno. Il o la morente avrebbe quindi sperimentato quello che si aspettava o voleva sperimentare (Nessuna delle dichiarazioni, comunque, parla di inferno o di demoni).
I sostenitori della vita oltre la morte controbattono dicendo che persone di ogni condizione sociale, persino dell'India non cristiana, raccontano cose analoghe, e questo li porta a credere che nelle allucinazioni vi sia un fondo di verità oggettiva. Cosa che io non accetto per due motivi:
1) - Racconti sull'aldilà sono diffusi in tutto il mondo. Quasi tutte le religioni hanno un aldilà, e poi i missionari cristiani e la tecnologia occidentale delle comunicazioni hanno portato ovunque le «nostre» nozioni in merito.
2) - E ancora, qualunque sia l'allucinazione sperimentale, le persone uscite dal coma, probabilmente ancora deboli e disorientate, devono descriverla, e come dev'essere facile che la descrivano proprio così, in modo tale da soddisfare l'intervistatore, che solitamente è un entusiasta della vita oltre la morte, ansioso di provocare le risposte più opportune.
Chi ha esperienza di processi giudiziari sa benissimo che un essere umano, persino sotto giuramento e sotto la minaccia di una punizione, può, in tutta sincerità, ricordare male, contraddirsi e testimoniare delle assurdità. Sappiamo anche che un abile avvocato, con idonee domande, può indurre il teste, per quanto onesto, intelligente e sincero sia, a rilasciare qualsiasi testimonianza, o quasi. Ecco perché è necessario che le regole dell'evidenza logica e del doppio confronto siano sempre rigidamente seguite.
È quindi ovvio che ci vorrebbe parecchio a farmi attribuire importanza alle dichiarazioni di una persona malata, messa sotto torchio da un intervistatore ansioso, che è anche un vero credente.

Ma, in questo caso, che ne è della mia affermazione iniziale, che nel passaggio dalla vita alla morte di un uomo dev'esserci qualche cambiamento? Un cambiamento che produce una differenza non riguardante atomi e molecole?
La differenza non riguarda nemmeno il sangue, né il respiro, ma deve pur riguardare «qualcosa»!
Ed è così. C'è qualcosa che è presente durante la vita e che manca dopo la morte, e questo qualcosa è immateriale, e produce un'impalpabile differenza, la più impalpabile di tutte.
Il tessuto vivente non consiste semplicemente di molecole complesse, ma di molecole complesse in una «organizzazione complessa». Se questa organizzazione comincia a essere sconvolta, il corpo si ammala; se viene sconvolta a sufficienza, il corpo muore. La vita allora se n'è andata, anche se tutte le molecole sono ancora li, intatte. Lasciate che mi spieghi con un'analogia.
Immaginate che con migliaia e migliaia di piccoli mattoni si costruisca un'intricata struttura che abbia l'aspetto di un castello medievale, con torri e merli, passaggi a volta, segrete sotterranee e via dicendo. Chi guardasse il prodotto finito potrebbe essere troppo lontano per vedere i singoli mattoni, ma vedrebbe il castello nel suo complesso.
Adesso, immaginate che un enorme gigante abbatta con una manata il castello, sparpagliandone in giro tutti i mattoni e riducendolo a un ammasso informe. I mattoni ci sono ancora tutti, non ne manca uno. E tutti, senza eccezione, sono ancora intatti e integri. Ma dov'è il castello?
Il castello esisteva solo come «organizzazione» dei mattoni, e quando l'organizzazione viene distrutta, il castello cessa di esistere. Né esiste da qualche altra parte. Il castello era stato creato dal nulla, mettendo insieme i mattoni, ed è svanito nel nulla, una volta scompigliati e dispersi i mattoni.
Secondo la mia opinione, le molecole del mio corpo, unitamente alle altre molecole che hanno via via assorbito, si sono organizzate in una forma sempre più complessa e in una foggia unica, dissimile dall'organizzazione di ogni altro essere mai vissuto. Durante il processo, io mi sono a poco a poco evoluto in un'entità consapevole che chiamo «Io», che esiste solo come organizzazione. Quando l'organizzazione sarà per sempre scomparsa, come avverrà alla mia morte, anche l'«Io» sarà svanito per sempre.
E questo mi va bene. Nessuna concezione dell'aldilà a me nota, sia un inferno sia un paradiso, mi è mai sembrata degna di occupare la mente razionale di un essere civilizzato. Perciò preferisco di gran lunga il nulla.

FINE