Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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GIÙ PER LA SCALA - Robert Franklin Young
Titolo originale: Down the ladder

Era soprattutto d'estate che Jeff aveva l'abitudine di andare alla Casa.
- Senti - diceva a sua madre, - penso che farò un salto alla Casa. - E lei capiva subito di che casa si trattava, perché Jeff ci andava spesso.
A sua madre la Casa non era mai piaciuta, e ci metteva raramente piede. Già ai suoi tempi era un edificio vecchio e malandato. Si diceva che non fosse più stata verniciata dagli anni della Guerra Civile, ma questo, naturalmente, era un'esagerazione. Comunque, avrebbe avuto proprio bisogno di una mano di vernice. Le assi erano quasi scoperte, alcune addirittura deformate, e le più basse cominciavano a coprirsi di muffa.
Appena costruita, la Casa era stata di forma più o meno cubica, a due piani, con il tetto spiovente. Poi, era stata aggiunta un'ala a un solo piano, con una veranda che correva per tutta la sua lunghezza. Con il passare degli anni, la porta secondaria che dava direttamente sulla nuova ala aveva soppiantato l'ingresso principale, elevando anche il giardino laterale al grado di giardino principale. Interamente ricoperto di campanule e ombreggiato da un rigoglio di arbusti di lillà, era il giardino più originale di tutta Main Street.
Sulla veranda c'erano numerose sedie e una comoda poltrona a dondolo. Era su questa poltrona che stava sempre lo zio di Jeff. Allo zio George piaceva un mondo dondolarsi avanti e indietro! Dicevano anche che fosse l'unica cosa che avesse mai fatto. Altra esagerazione. Però d'estate erano poche le volte in cui Jeff, arrivando alla Casa, non trovasse lo zio in veranda, seduto nella poltrona a dondolo, intento a masticare tabacco e a lanciare a intervalli regolari un sottile getto di succo scuro al di là della balaustra.
All'interno, la Casa era lucida come uno specchio e tenuta in perfetto ordine, se non si contavano le scatole di vecchiumi accatastate negli angoli.
La nonna di Jeff, quand'era viva, non aveva mai buttato via niente. Il corridoio d'ingresso dell'entrata principale, la cui porta era tenuta chiusa sia d'estate, sia d'inverno, e che, come il piano superiore, era "off limits" per gli ospiti, era così stipato di vecchi giornali ammonticchiati lungo le pareti, che uno doveva mettersi di traverso per raggiungere la scala. Oltre ai mucchi di vecchi giornali, l'entrata conteneva pile e pile di riviste cui la nonna di Jeff era abbonata, e scatole colme dei romanzi vittoriani di cui era appassionata lettrice.
Jeff aveva fatto questa scoperta intrufolandosi di nascosto nell'atrio, una volta che lo zio era nel granaio e il nonno sonnecchiava sulla sedia a dondolo vicino alla stufa del soggiorno. Il nonno di Jeff era ancora vivo, allora. Era un agricoltore benestante in pensione, che si era sposato tardi e che aveva proprietà sparse per tutta la città. Morendo, aveva lasciato tutto al figlio maggiore (lo zio di Jeff), a eccezione della grande casa di legno in Elm Street ereditata dal padre di Jeff che già la occupava. La casa di legno in Elm Street era quella in cui Jeff era nato.
A volte, lo zio George andava nell'entrata principale e ne tornava con qualche giornale umoristico di altri tempi, che dava a Jeff da sfogliare. Un giorno lo zio salì perfino al primo piano e ne tornò con un giocattolo, che disse di aver ritrovato quella mattina nel proprio armadio. Era il giocattolo più affascinante che Jeff avesse mai visto. Era composto di due parti. La prima era una tavoletta di legno lunga un metro, larga circa sei centimetri e spessa quasi due, verniciata di un bel rosso brillante, su cui erano disposte, nel senso della lunghezza e a una distanza approssimativa di cinque centimetri l'una dall'altra, due file parallele di chiodi da falegname da quattro soldi. I chiodi erano piantati a intervalli regolari, ma sporgevano di un bel po' dalla tavoletta, scaglionati in modo che quelli della fila di sinistra erano di circa un centimetro più in basso di quelli della fila di destra.
L'altra parte del giocattolo consisteva in un pupazzetto intagliato in un foglio di compensato dello spessore di mezzo centimetro. Aveva le braccia spalancate, perpendicolari al corpo, su cui era dipinto uno strano vestito. La faccia, appena abbozzata, aveva un'espressione comica e le labbra rivolte in su, in un sorriso fisso. Per far "scendere" la "scala" all'ometto, si doveva metterlo in modo che le braccia appoggiassero sui due chiodi più alti, e poi lasciarlo andare. Così un braccio sarebbe scivolato giù dal primo chiodo, fermandosi sul secondo, poi sarebbe scivolato l'altro braccio, e poi di nuovo il primo e così via, clicchete-clic-clic-clic, finché l'ometto, dondolando da una parte e dall'altra, non fosse arrivato in fondo, sul pavimento.
Per tutto il tempo che Jeff giocò con la "scala", lo zio George sembrò nervoso, come se fosse pentito di aver portato giù il giocattolo, e comunque dopo un poco lo riportò di sopra, e non andò a riprenderlo mai più. Ma Jeff non se ne dimenticò, e parecchi anni dopo, durante la veglia funebre del nonno, quando tutti erano troppo occupati per accorgersene, sgattaiolò di sopra, prese il giocattolo dall'armadio dello zio George, lo nascose e se lo portò a casa. Chiuso nella sua stanza, giocò per ore e ore con l'ometto, facendogli scendere la "scala" infinite volte, tanto che per miracolo non gli si staccarono le braccia. Alla fine Jeff, che cominciava ad annoiarsi, sollevò di qualche centimetro la "scala" dal pavimento prima di lasciare andare l'ometto. Questi, dopo essere scivolato giù dall'ultimo "gradino", fece una capriola completa in aria e atterrò perpendicolarmente sulla testa. Entusiasta, Jeff sollevò la scala ancora più in alto. Questa volta, quando toccò terra, l'ometto si ruppe in tre pezzi. Jeff si infuriò, spezzò in due la scala e la gettò nella pattumiera insieme ai resti dell'ometto. Aveva paura che lo zio George, non trovando più il giocattolo, lo accusasse di averlo preso. Ma lo zio non ne parlò mai. Si limitò a lanciargli una strana occhiata la prima volta che Jeff andò alla Casa.
Dietro la Casa c'era un'ampia distesa di terreno che arrivava fino al ruscello. Apparteneva tutto al nonno di Jeff (e più tardi a suo zio). Oltrepassato il granaio, si arrivava a un sentiero erboso che un tempo era stato una carrettiera, poi si passava tra due file di capannoni cadenti in cui erano conservate attrezzature agricole ormai in disuso. Subito dopo si arrivava a una lunga depressione poco profonda che un tempo era stata gora e bottaccio di un mulino. La tagliava in due un sentiero rialzato, attraversato il quale si scendeva per un leggero pendio fino a un grande meleto. Già allora gli alberi non venivano più potati, e passare per il frutteto era come camminare in una giungla. Al di là del meleto il terreno digradava bruscamente. Qui, un tempo, c'era l'argine, quando il ruscello era molto più ampio. Adesso, dove un tempo scorreva l'acqua (e dove ancora scorreva talvolta, durante i disgeli primaverili) crescevano platani, salici e pioppi. Aperto un varco tra i platani, i salici e i pioppi, si arrivava infine al ruscello. D'estate Jeff passava giorni e giorni a guadarne le acque basse. A volte portava con sé una canna da pesca che si era fatto da solo, ma la usava raramente. Trovava molto più divertente catturare i gamberi di fiume a mani nude. Si divertiva a strappare loro le chele e a guardarli contorcersi quando li ributtava in acqua.

I colpi leggeri sulla porta del retro ripresero, e ancora una volta Jeff si alzò dal divano del soggiorno, in cui si era sprofondato a bere birra e a guardare la televisione. Andò in cucina, aprì la porta interna e sbirciò attraverso la zanzariera di quella esterna. La volta precedente aveva lasciato accesa la luce della veranda, ma anche così non vide nessuno. Chiuse con rabbia la porta interna, rabbrividendo alla fredda aria notturna che era penetrata nella stanza, poi tornò in soggiorno e si sedette di nuovo sul divano. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarsi innervosire da quel bussare. Si era quasi alla vigilia di Ognissanti ed era naturale che i bambini del vicinato fossero in giro a fare scherzi, e ancora più naturale che se la prendessero con lui. Quella era la sua prima sera nella Casa Nuova: lui era dunque l'ultimo arrivato nel quartiere e, di diritto, la vittima più logica.
La Casa Nuova sorgeva nello stesso posto della Vecchia. Era una villetta rettangolare a un piano, con annesso garage doppio. Una parte del garage ospitava la vecchia Biscayne da cui non era ancora riuscito a separarsi, l'altra una nuova El Dorado.
Prese la bottiglia di birra dal tavolino e stava per portarsela alle labbra quando si accorse che era vuota. Andò in cucina, ne prese un'altra dal frigo, tornò in soggiorno e riprese posto davanti al televisore.
Mandò giù un terzo della birra fresca e posò la bottiglia sul tavolino. Si era messo a bere più del solito da quando sua moglie Dolores aveva ottenuto il divorzio per crudeltà mentale, e un osservatore occasionale avrebbe potuto concludere che Teff avesse ormai varcato la linea di demarcazione tra i pochi bicchieri bevuti in compagnia e le sbronze programmate cui aveva cercato di resistere per gran parte della sua vita. Ma niente avrebbe potuto essere più lontano dalla verità. Teff teneva sotto controllo il suo vizio: non toccava mai un goccio d'alcool prima delle otto di sera e non beveva mai altro che birra. E ogni mattina alle sette in punto, elegantemente vestito e rasato di fresco, arrivava al proprio ristorante.
Il ristorante era il suo orgoglio e la sua gioia. Aveva sempre desiderato lavorare in proprio, ma la sfortuna l'aveva perseguitato da sempre e aveva frustrato ogni suo tentativo, finché non era arrivata l'eredità. Con quella, finalmente, era riuscito a realizzare i suoi progetti, a realizzarsi e a prendere il proprio posto nel mondo degli affari.

I colpi alla porta ripresero. Questa volta Teff decise di ignorarli. Il rumore continuò per un poco, poi cessò.
Aveva fatto radere al suolo la Casa Vecchia poco dopo la morte dello zio George. Cristo! Era stato costretto a farlo. Restaurarla sarebbe stato come ricostruirla. Certo, c'erano molte altre case vecchie in Main Street, ma erano sempre state tenute bene e ridipinte ogni tre o quattro anni. Di recente qualcuna era stata anche ricoperta con un rivestimento in alluminio e sembrava nuova. Ma la Casa era troppo malandata per giustificare una tale spesa. Demolirla era stata l'unica cosa possibile. Eppure Teff non aveva agito d'impulso. Aveva fatto il giro della Casa con molta attenzione, controllando le travi portanti e i pavimenti, ispezionando le fondamenta, sondando i muri. Una volta, ci aveva passato la notte. E gli era bastato. Con i fruscii, gli scricchiolii e gli acciottolii che continuavano a venire dalla stanza da pranzo, dalla cucina e da quasi ogni parte era riuscito a malapena a chiudere gli occhi. Quel maledetto posto doveva essere infestato dai topi. Come lo zio George fosse riuscito a sopportare una cosa del genere, non l'avrebbe mai capito.
Comunque, aveva pagato un banditore e si era liberato di tutto quello che la Casa conteneva: i mobili, la stufa della cucina, con piatti, pentole e padelle, i libri vittoriani, le vecchie riviste, i vecchi giornali, le scatole piene di cianfrusaglie accatastate negli angoli (avevano comprato tutti come tanti invasati e a prezzi incredibili; avevano persino comprato i vecchi giornali). Poi aveva fatto venire un demolitore a buttare giù tutto. Senza dubbio lo zio George si era rivoltato nella tomba, ma non si poteva fare diversamente. E poi il vecchio non era mai stato al passo con i tempi, mai, in tutta la sua vita insulsa. Era sempre rimasto seduto sulla veranda a dondolarsi mentre la Casa andava in rovina, aveva lasciato che i lillà impedissero la vista della casa, che il granaio e i capannoni degli attrezzi agricoli crollassero, che nel bottaccio da mulino prosperassero arbusti ed erbacce; che il meleto si trasformasse in una boscaglia, che il bosco vicino al ruscello diventasse rifugio di corvi e merli rossi... Jeff aveva posto rimedio a tutto. Dopo aver fatto abbattere la Casa, aveva venduto gli attrezzi agricoli come ferrovecchio, ingaggiato una squadra di operai con bulldozer, ruspe e seghe elettriche, e fatto demolire i capannoni e quanto era rimasto del granaio, riempire il bottaccio da mulino e spianare il frutteto e il bosco. Dopo di che aveva fatto scavare un piccolo lago artificiale e sistemare un percorso da golf con prati e buche.
Il risultato era magnifico. Proprio magnifico!

Il grosso guaio con i vecchi ricordi è che, entrato il primo, gli altri gli si affollano dietro. E poi, quelli brutti a volte soppiantano quelli belli...

I colpi leggeri alla porta posteriore riprendono, e Jeff, furente, si alza, corre in cucina, spalanca la porta interna e urla: - Non so chi siete né chi pensate di essere, ma sarà meglio che ve ne andiate alla svelta se non volete che vi impallini il didietro.
Sbatte la porta così forte che gli utensili in acciaio inossidabile appesi ai ganci cromati sopra i fornelli vibrano. Mentre è in cucina, prende dal frigo un'altra bottiglia di birra e la apre tornando verso il divano.

Jeff aveva sempre vissuto nella casa di legno di Elm Street dov'era nato, e che aveva ereditato quando era morta sua madre (il padre l'aveva preceduta di cinque anni), anche con sua moglie Dolores (non avevano avuto bambini). Non l'aveva mai lasciata, tranne che negli anni subito dopo la guerra quando era stato mandato nella Germania occidentale con le forze di occupazione.
Dopo che sua madre era morta, già molto anziana, Jeff aveva continuato semplicemente a vivere lì, con la sola differenza che adesso era lui a pagare le tasse e i conti, e che quando diceva: - Senti, penso che farò un salto alla Casa - lo diceva a Dolores.
Lo zio George era rimasto a vivere da solo nella Casa dopo la morte del padre. Non gli era mai venuto in mente di sposarsi, prima, e dopo era ormai troppo tardi. Sapeva cucinare in modo passabile, teneva la cucina perfettamente in ordine e, fatta eccezione per i mucchi di cianfrusaglie negli angoli del soggiorno e della sala da pranzo, e del ciarpame ammonticchiato nell'atrio, il resto della Casa era sempre bello e pulito. Eppure, quando si recava alla Casa, Jeff non aveva mai visto lo zio George lavare un piatto o passare la scopa. Durante i mesi caldi lo trovava sempre in veranda, seduto sulla poltrona a dondolo, e durante quelli freddi vicino alla stufa del soggiorno, seduto sulla vecchia sedia di suo padre, sempre a dondolo.
I capelli dello zio George avevano cominciato a diradarsi, riducendosi gradualmente a una striscia grigia sulla nuca, e il suo corpo ad avvizzire, a farsi più piccolo e pieno di rughe. Il processo era durato anni e anni: lo zio aveva superato l'età in cui era morto suo padre e sembrava destinato a vivere il doppio della madre di Jeff.
Un giorno d'inverno in cui aveva fatto un salto alla Casa, Jeff aveva trovato lo zio George accanto alla stufa, immobile sulla sedia, che per la prima volta in vita sua non dondolava. Jeff aveva pensato che fosse morto, poi si era accorto che stava solo sonnecchiando. I lineamenti dello zio erano così tirati e minuti da farlo sembrare un folletto. La bocca sdentata era poco più di un buchetto nella faccia, e il collo, sottile come quello di una gallina, così debole da reggere a malapena la testa. Quando parlava, lo zio era costretto ad appoggiarsi all'indietro contro lo schienale, in modo da poter alzare gli occhi abbastanza da guardare Jeff in faccia.
- Jeff - aveva detto, - come probabilmente sai già, lascerò a te la Casa e la terra, ma voglio che prima tu mi faccia una promessa.
- Certo, zio George - aveva detto Jeff.
- Voglio che tu mi prometta che non butterai mai giù la Casa e non la venderai a nessuno. Lo so che ha bisogno di essere rimessa a posto, ma avrai un mucchio di soldi per farlo. Quello che non voglio è che tu la butti giù. Me lo prometti, Jeff? Mi dai la tua parola d'onore che non la demolirai e che farai in modo che nessun altro lo faccia?
- Sì, zio George.
Negli ultimi tempi la mente dello zio George tendeva spesso a divagare, e lui talvolta si dimenticava di quello di cui stava parlando e si metteva a discorrere di qualcos'altro. Perciò Teff non si era molto meravigliato (anche se era rimasto disorientato) quando il vecchio aveva detto: - Quelle creature sono strane. Se le tratti bene si fanno in quattro per te. Ma è meglio non contrariarle. Hanno certi poteri e si tengono sempre nascosto un asso nella manica in caso non ottengano quello che vogliono. La mamma, è stata lei a prenderle in casa. A lei non è mai piaciuto lavare i piatti, scopare e cose del genere. A lei piaceva starsene seduta a leggere i suoi libri e le riviste. Papà le sopportava, e io ho fatto come lui. È comodo averle per casa e non mangiano neanche molto, solo un boccone di tanto in tanto. Però, in questi ultimi tempi, sono cresciute troppo, non entrano più nei calzoni. Perciò, non voglio che tu corra dei rischi, Teff.
- Che creature, zio George?
Ma evidentemente la mente del vecchio aveva ripreso a vagare, perché, invece di rispondere alla domanda di Teff, lo zio George aveva ripetuto: - Mi prometti di non buttarla giù e di non venderla, Teff?
- Sì, zio George - aveva detto Teff con solennità. - Te lo prometto.
- Penso che farò un altro sonnellino. Sono contento che tu sia venuto a trovarmi, Teff. Torna presto.
Aveva pensato che forse avrebbe dovuto portare il vecchio all'ospedale. Era chiaro che stava morendo. Ma se poi non moriva in ospedale, sarebbe stato necessario metterlo in una casa di riposo o in una clinica: in entrambi i casi il patrimonio familiare sarebbe stato intaccato. E comunque allo zio George l'idea non sarebbe andata a genio. Così Teff lo salutò e se ne andò. Quando ritornò alla Casa, trovò il vecchio immobile nella sedia a dondolo, come la volta precedente. Ma adesso era davvero morto.
Le previsioni meteorologiche della televisione annunciavano pioggia durante la notte e banchi di nebbia in mattinata, con schiarite al pomeriggio. Probabilità di precipitazioni: il 60% durante la notte, il 30% in mattinata. Umidità relativa: 82%. Temperatura minima notturna: 10 °. Temperatura massima, l'indomani: 21 °. Temperatura attuale: 15 °. Venti da sud-ovest, velocità: 5-10 kmh.
Teff finì di bere la birra e andò in cucina a prenderne un'altra bottiglia. Promise a se stesso che sarebbe stata l'ultima: aveva in programma una festa per l'inaugurazione della casa la sera dopo e voleva essere in gran forma.
Stava per aprire il frigo quando i colpetti alla porta ripresero.
- Figlio di puttana! - esclamò, e attraversò la stanza barcollando un po', diede uno strattone alla porta interna e spalancò quella esterna. Questa volta abbassò lo sguardo invece di guardare avanti.
- Salve - squittì il primo dei suoi visitatori. - Adesso che vi siete finalmente accorto di noi, possiamo parlare dell'affare che ci riguarda. Dal momento che il giorno trenta dello scorso marzo avete fatto abbattere l'edificio che per più di mezzo secolo era stato il nostro domicilio, e poiché le mansioni domestiche che noi vi abbiamo svolto nel medesimo periodo di tempo ci danno diritto alla proprietà parziale del detto domicilio, noi, in virtù dei lavori domestici citati, rivendichiamo il diritto al possesso parziale della dimora eretta nello stesso posto, vale a dire questa casa, e pertanto vi traslochiamo, in conformità con l'accordo stipulato con vostra nonna e rettificato come segue: "I lavori domestici svolti precedentemente dai Contraenti della Parte Prima nella Dimora Numero Uno verranno ora eseguiti dai Contraenti della Parte Prima nella Dimora Numero Due, in cambio dei quali il Contraente della Parte Seconda promette di fornire un idoneo spazio vitale, abbondante calore e sufficiente sostentamento". E adesso, se volete farvi da parte...
- Fuori dalla mia proprietà, nanerottoli scrocconi e bastardi! - urlò Teff, cercando di chiudere la porta.
Non riconobbe subito la stanza perché era immensa. Poi si accorse che era la sua camera da letto di quando era bambino. Era supino sul pavimento e su di lui incombeva, rossa e terrificante, la scala. Quando il gigante lo raccolse e lo mise in posizione in modo che le sue braccia tese poggiassero sui due chiodi più alti, Teff cercò di gridare, ma naturalmente non poté, essendo di legno. Tutto quello che gli riuscì di fare fu sorridere con lo stupido sorriso che aveva dipinto in faccia. Clicchete-clio clic-clic! Continuò a sorridere per tutte le discese successive, mentre tentava ancora di gridare con ogni stilla di forza che aveva, facendosi piccolo davanti all'espressione crudele del gigante.
Alla fine il gigante, cominciando ad annoiarsi, sollevò la scala prima di lasciarlo andare. Clicchete-clic-clic! Jeff atterrò sulla testa con tanta forza che vide le stelle. L'espressione crudele sulla faccia del gigante si accentuò, diventò tremenda, orribile. Sollevò la scala ancora più in alto. Clicchete-clic-clic! Fu l'ultima discesa di Jeff.

FINE