Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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CHI CI ASPETTA SU VENERE - Bill Pronzini
Titolo originale: And then we went to venus

Tre settimane dopo il ritorno del comandante Richard Stiles e del maggiore Philip Webber - i due componenti l'equipaggio dell'Explorer V, la prima «supernave» con uomini a bordo che fosse atterrata su Venere - ci fu un improvviso, inspiegabile e totale «black-out» di informazioni tanto da parte della NASA quanto da Washington che favorì una fuga di notizie da parte di «una fonte attendibile». Se non fosse stato per questo, i mezzi di comunicazione e la gente in generale non avrebbero mai conosciuto i particolari della missione prima di qualche mese o qualche anno, ammesso che ne sarebbero mai venuti a conoscenza.
Fino a quel momento, quello che sapevamo era che Explorer V era atterrato su Venere con Stiles e Webber, che avevano trascorso sulla superficie del pianeta dodici ore durante le quali non si erano avute loro notizie (tutto il sistema di comunicazioni di bordo si era guastato poco dopo il decollo); che le manovre per la partenza da Venere erano state effettuate dal Comando Missione e che il rientro era avvenuto in modo del tutto normale. Dopodiché, naturalmente, su tutta la vicenda era stata stesa una cortina di silenzio. Eravamo scesi sulla Luna e su Marte, e adesso gli esperti di metallurgia erano riusciti a darci un lega capace di resistere a temperature superiori ai 1000 gradi Fahrenheit, il che ci aveva permesso di atterrare su Venere segnando un'altra pietra miliare nella storia dell'umanità. Ma il coperchio ufficiale era stato abbassato e chiuso ermeticamente appena il personale della NASA aveva aperto la capsula, L'unica cosa sicura che si sapeva era che Stiles e Webber erano vivi.
Nel corso di quelle tre settimane il mondo intero rimase in ansiosa attesa, in preda a un senso di apprensione. Perché il segreto, perché il silenzio? Anch'io formulai queste domande nei miei articoli, e temevo più di qualunque altro le risposte. La professione mi ha reso scettico ormai da molto tempo circa certi aspetti «riservati» del nostro accelerato programma spaziale. Avevo l'impressione che facessimo troppe cose disponendo di dati insufficienti; la nostra sete di sapere a volte aveva la precedenza su altre considerazioni, non ultima delle quali la sicurezza della vita umana. Sotto questo riguardo, la NASA, come del resto qualsiasi altra agenzia governativa, era colpevolmente indifferente.
Il «Washington Post» divulgò la storia in una delle sue rare edizioni speciali, e nel giro di poche ore fu pubblicata sulle prime pagine di tutti i giornali di tutte le nazioni, e divulgata in tutte le lingue dalle stazioni radiotelevisive.
Due erano le rivelazioni più notevoli.
Primo, sia Stiles sia Webber erano tornati dalla missione in preda a quella che veniva definita «una grave forma di alterazione mentale».
E, secondo, si asseriva che la NASA era in possesso di prove che attestavano la presenza di una forma di vita intelligente su Venere.
L'effetto maggiore lo produsse ovviamente la seconda notizia, che diede il via a un'infinità di illazioni. Che esistesse la vita su Venere o su un altro pianeta del sistema solare era un'idea stupefacente, eccitante, anche se suscitava timori. Che tipo di vita era? Era intelligente? In questo caso, sarebbe stato possibile un contatto? Si sarebbe rivelata amichevole oppure ostile? Che tipo di civiltà poteva svilupparsi su quel pianeta umido, fumante, oscurato da nubi di vapore? E via di questo passo.
Ma per me, una delle domande chiave era: cos'è successo a Stiles e a Webber?
Le crisi economiche, politiche, sociali e personali furono accantonate; tutti, senza distinzione, volevano saperne di più. All'inizio la NASA e Washington cercarono si smentire il rapporto del «Post», ma, com'era accaduto per i documenti del Pentagono e del Watergate una ventina d'anni prima, i fatti smentirono il tentativo di smentita. L'esigenza del pubblico non poteva essere ignorata, e, messi alle strette, NASA e Washington - tanto più che si era in un anno di elezioni - furono costretti a cedere sia pure a malincuore.

Il Presidente convocò una conferenza stampa ristretta nella sala stampa della Casa Bianca, e le credenziali mi procurarono un posto in prima fila. Il Presidente prese subito la parola per una dichiarazione preliminare sull'«enorme importanza di conoscere quello che può attenderci nello spazio infinito». Dopo di che, con molto buon senso, cedette la parola al pluridecorato generale Joseph Meadows, uno dei capintesta della NASA, nonché direttore del programma per l'esplorazione di Venere.
Per cominciare, Meadows distribuì ai presenti copie ciclostilate di una dichiarazione ufficiale per la stampa che, nella maniera tipicamente vaga di tutte quelle rilasciate dal governo, confermava quanto aveva riferito il «Post». Il generale le lesse ad alta voce, poi, non senza riluttanza, chiese se avevano delle domande da porre.
Ce n'erano, eccome.
- Quali sono le caratteristiche fisiche dei venusiani, generale?
- Non sono in grado di rispondere per il semplice fatto che lo ignoriamo.
- Si tratta di una forma di vita intelligente, vero?
- Crediamo che sia possibile.
- Ma potrebbe esserlo?
- Non ne abbiamo la certezza e non possiamo fare illazioni.
- Da cosa avete dedotto che esista una forma di vita su Venere?
- Abbiamo prove fotografiche, registrate dalle apparecchiature automatiche di «Explorer V» che suffragano questa supposizione.
- Che genere di prove?
- La pellicola cui mi riferisco mostra una confusa attività sulla superficie illuminata del pianeta dov'è atterrata la nave.
- Alludete a qualche città? A una civiltà di qualche tipo?
- No. Solo attività, movimento.
- Non potreste essere più preciso?
- Spiacente, ma non posso.
- Anche le capsule «Explorer III» e «IV» hanno registrato quel genere di attività?
- No.
- Qual è il vostro parere in merito, generale?
- Posso solo dire che «Explorer V» è sceso su un punto della superficie di Venere diverso da quello dov'erano atterrate le altre due capsule. Le immagini registrate in precedenza e altri dati di cui eravamo in possesso ci avevano indotto a credere che non esistesse alcuna forma di vita.
- Cosa potete dirci della superficie di Venere, oltre a quello che già sappiamo?
- Ora come ora, niente.
- Progettate un'altra spedizione Explorer?
- Un annuncio relativo ai futuri progetti verrà divulgato entro breve tempo.
- Presumendo che quella forma di vita sia intelligente, si tenterà di stabilire un contatto?
- Certamente. Ma per il momento non disponiamo di dati sufficienti per presumerlo. Stiamo facendo un passo alla volta.
- E cosa potete dirci, generale, della malattia del comandante Stiles e del maggiore Webber?
- Non molto, temo. Stiamo procedendo a esami accurati e approfonditi.
- Ma sono vivi tutt'e due?
- Sì.
- Qual è il tipo di alterazione mentale da cui sono affetti?
Pausa. - Le condizioni del maggiore Webber potrebbero definirsi catatoniche. Quanto al comandante Stiles, è in stato semicatatonico.
- Siete stati in grado di comunicare con lui?
- No, non è possibile.
- Ma ha avuto dei momenti di lucidità?
- Non mi è consentito rispondere a questa domanda.
- Vi ha detto qualcosa su quanto è successo su Venere?
- Non mi è consentito rispondere a questa domanda.
- Generale, quale credete sia la causa delle turbe psichiche di Stiles e di Webber? Rispondeteci in base alle informazioni disponibili.
- Le informazioni di cui disponiamo sono ancora oggetto di esame. Finora non abbiamo potuto trarre conclusioni definitive. Tuttavia, uno dei fattori principali è probabilmente lo stress spaziale.
- É piuttosto improbabile, generale, che due astronauti soccombano nello stesso modo e nello stesso momento allo stress spaziale, non vi sembra?
- L'esistenza di vita intelligente su Venere è piuttosto improbabile, e tuttavia un giorno si dimostrerà forse che esiste.
- E cosa avete da dire circa altre possibili spiegazioni? - chiese qualcuno. - Quei disordini mentali non potrebbero esser stati causati da un qualcosa di natura fisica? La temperatura di 900 gradi Fahrenheit sulla superficie del pianeta, per esempio.
- No. La capsula «Explorer V» non ha risentito in alcun modo del calore. Il comandante Stiles e il maggiore Webber non sono sbarcati e rimanendo a bordo non possono aver risentito degli effetti della temperatura, come del resto è stato dimostrato dagli esami.
- Campi magnetici o venti solari, allora? L'atmosfera di Venere dopotutto è composta da anidride carbonica e acido solforico.
- Rispondo negativamente anche a queste ipotesi. Gli elementi atmosferici dannosi non possono essere penetrati nella capsula né averne alterato le condizioni.
- Avete almeno idea di quando i due uomini sono stati colpiti dal male?
- No.
- Non potrebbe essere accaduto prima dell'atterraggio su Venere?
- È improbabile. Il sistema di comunicazione era difettoso, ma sia il Comandante sia il maggiore hanno svolto i compiti loro assegnati.
- Però non li hanno svolti dopo che il Comando Missione ha provveduto a far decollare la capsula da Venere per il viaggio di ritorno.
- Esatto.
- Allora le turbe mentali sono comparse durante le dodici ore di permanenza della capsula su Venere.
- Parrebbe di sì.
- Avete pensato - chiesi io - che responsabile del collasso dei due astronauti potrebbe essere la presunta forma di vita intelligente venusiana?
- Certo, come abbiamo preso in considerazione qualsiasi altra probabilità. E l'abbiamo ritenuta impossibile. Nessuna forma vivente, di nessun genere, neppure un microrganismo avrebbe potuto penetrare nella capsula chiusa a tenuta stagna. «Explorer V» è dotata di strumenti altamente sofisticati che avrebbero registrato l'eventuale presenza di qualsiasi cosa estranea.
- Potete dirci, generale, come reagiscono alle cure il comandante Stiles e il maggiore Webber?
- Temo di no. Si tratta di informazioni riservate.
- È permesso vederli?
- Per ora no.

Tutto si sarebbe potuto dire di quella conferenza stampa, ma non che fosse stata illuminante. Prendemmo quel poco che Meadows ci aveva dato e lo passammo al pubblico affamato di notizie, che ne ricavò ben poca soddisfazione. Ma, come gli scienziati della NASA sapevano, qualche brandello d'informazione può essere più provocatorio dell'ignoranza totale; in una situazione di quella portata, servirono solo a far salire la febbre di conoscere tutta la verità.
Gruppi, fazioni e individui cominciarono a far pressione. I politicanti interessati alle elezioni, specie quello del partito che non era al governo, fecero della «questione della vita su Venere» un argomento politico di primaria importanza. Tutto questo non era scevro da una certa qual isteria di massa, da un'eccitazione morbosa, da una deliziosa paura. Sembrava che il grido silenzioso che si levava da ogni parte significasse: Diteci il peggio, se di questo si tratta. Spaventateci a morte: possiamo sopportare tutto, ma non il silenzio.
Tanta insistenza ottenne in un certo qual modo dei risultati. Sia la NASA sia Washington continuarono fermamente a rifiutarsi di svelare altri particolari o di approfondire quelli che il generale Meadows ci aveva fornito. Insistettero asserendo che non appena avrebbero avuto qualcosa di certo, e non solo delle supposizioni, l'avrebbero divulgato al pubblico. Ma ancora una volta, la pressione politica, poiché si era in anno di elezioni, li costrinse a fare una concessione. Permisero a una stretta rappresentanza di giornalisti di visitare - ma non di fotografare - il Comandante Stiles e il maggiore Webber.
Io facevo parte del gruppo di sette uomini e tre donne scelti per la visita al centro medico governativo della Virginia dove i due astronauti erano sottoposti a «terapia intensiva». Ufficialmente la scelta era stata fatta a caso, ma in realtà erano stati invitati solo gli esponenti più rappresentativi dei mezzi di divulgazione. Per essere incluso nella rosa dei prescelti io dovetti far leva su due favori che mi erano dovuti e fare una mezza dozzina di promesse, e fui sicuro di esser stato scelto solo il giorno precedente a quello fissato per la visita.
Questa ebbe luogo di mattina, esattamente cinque settimane dopo il rientro dell'«Explorer V», sotto scorta di personale della NASA e con le più rigide misure di sicurezza. Una volta entrati, fummo ricevuti dal dottor Benjamin Fuller, psicologo governativo, e da un altro medico, specialista in malattie mentali, a cui era affidata la cura di Stiles e di Webber. Costui acconsentì a che gli rivolgessimo qualche domanda, ma le sue risposte non furono più illuminanti di quelle del generale Meadows.
No, non poteva dire se gli astronauti reagivano alla terapia né se avevano detto qualcosa del loro breve soggiorno su Venere.
No, non avrebbe saputo dire se, quando e in quale misura le cure avrebbero dato un effetto positivo.
No, non poteva dire a quale tipo di terapia erano sottoposti i due uomini.
Sì, l'opinione ufficiale sulle cause del loro male era sempre la stessa: stress spaziale, non meglio definito.
Poi il dottor Fuller ci accompagnò attraverso un dedalo di corridoi sterilizzati popolato da personale medico sterilizzato, fino a un ampio locale che aveva una parete coperta da un tendaggio. Fuller ci raccomandò di mantenere il silenzio e di metterci in fila indiana dietro di lui. Poi aprì la tenda.
Dietro c'era una finestra, o meglio un vetro a due facce di cui quella trasparente stava dalla nostra parte. Attraverso il vetro, quando arrivò il mio turno, vidi una lunga stanza bianca con un letto, due sedie e un comodino di metallo. Sul letto giaceva immobile il maggiore Philip Webber.
Se non avessi saputo che aveva trentasei anni, avrei creduto che fosse sulla sessantina. Aveva i capelli bianchi e la pelle del viso floscia e rugosa; gli occhi fissi, privi di espressione, erano profondamente incassati nelle orbite. Se non fosse stato per il ritmo regolare del respiro che gli sollevava e abbassava il petto, avrei creduto che fosse morto.
Guardandolo mi sentii stringere il cuore. Un uomo in eccellenti condizioni fisiche, che aveva superato il rigoroso addestramento e il condizionamento necessario per partecipare alla missione «Explorer V» era adesso ridotto a un guscio vuoto, a un vegetale.
Non appena l'ultimo di noi ebbe dato un'occhiata attraverso il vetro, Fuller chiuse la tenda e ci fece segno di seguirlo nel corridoio. Nessuno di noi parlò. Lo seguimmo fino a un'altra stanza uguale alla precedente. Qui, adesso, avremmo visto il Comandante Richard Stiles, l'uomo più qualificato in America per comandare la prima missione su Venere, un logico di prima forza, un genio tecnico.
Ci mettemmo in coda, e Fuller aprì la tenda. Questa volta io ero l'ultimo della fila, ma dall'espressione degli altri, quando si voltavano per tornare dopo aver guardato, potei capire che, se possibile, Stiles era ridotto ancora peggio di Webber. E quando finalmente mi accostai al vetro, lo vidi di profilo, seduto su una sedia bianca ai piedi del letto. Teneva le mani così strettamente intrecciate in grembo che erano visibili i tendini tesi dei polsi. Solo le labbra si muovevano, come se stesse mormorando qualcosa fra sé. Come quelli di Webber, anche i suoi occhi fissavano il vuoto e, come Webber, anche lui dimostrava vent'anni più dei quarantuno che aveva.
Mi sentii di nuovo stringere il cuore. Avrei voluto andarmene subito da quella stanza, correre fuori dall'ospedale, al sole.
Stiles si mosse.
Con uno scatto inaspettato, balzò in piedi, si girò e con quattro lunghi passi si avvicinò al vetro. Dalla sua parte era uno specchio che rifletteva la sua immagine, e tuttavia sembrava che sapesse o avesse intuito che c'era qualcuno dall'altra parte, che lo guardava. Mi sembrò di scorgere un barlume d'intelligenza nel suo sguardo.
Aprì la bocca e formulò una parola.
Anche se l'aveva pronunciata a voce alta io non avrei potuto sentirla, perché probabilmente la stanza era insonorizzata. Ma vidi distintamente il movimento delle labbra e capii - sono certo di aver capito - quale fosse la parola. Un brivido mi corse lungo la schiena e arretrai involontariamente.
Arcigno in volto, il dottor Fuller mi scostò e chiuse la tenda. Quando incontrai il suo sguardo, mantenni un'espressione indifferente. Poi guardai gli altri e mi accorsi che nessuno aveva capito quel che aveva detto Stiles. In caso affermativo, me ne sarei accorto dalla loro faccia.
Signore e signori - disse Fuller quando fummo in corridoio - debbo pregarvi di limitare i vostri resoconti su quanto avete visto oggi ai fatti nudi e crudi. Qualunque speculazione irresponsabile, di qualunque genere, in modo particolare se basata su impressioni visive, non sarà tollerata. Mentre parlava mi guardava fisso.

Tornati a Washington, lasciai i colleghi e mi recai nel bar più vicino a bere due bourbon doppi. Ero terribilmente scosso. Fuller aveva fatto chiaramente capire che ci sarebbero state delle spiacevoli conseguenze se avessi scritto quello che avevo sentito dire da Stiles. Ma il suo avvertimento non era necessario. Non avevo intenzione di scriverlo.
Sì, il pubblico voleva e aveva il diritto di sapere.
«Spaventateci a morte, possiamo sopportare tutto».
Ma era poi vero? Non ne ero tanto sicuro. Le implicazioni sottintese in quell'unica parola erano tali da seminare il panico...
Stavo per ordinare un terzo bicchiere quando entrò nel locale Joe Anders, un corrispondente dell'UPI che conoscevo da un sacco di tempo. Sedette accanto a me e ordinò una birra.
- E un po' presto per bere, no?
- Oggi no.
- Ti ha fatto un brutto effetto, eh?
- Cosa?
- Vedere Stiles e Webber.
- Sì, bruttissimo.
- Vuoi parlarne?.
- No.
- Come ti pare. - Alzò le spalle. - L'ultima novità su Venere però è più sensazionale.
Mi rizzai a sedere di scatto. - Di che si tratta?
- Come? Non hai sentito?
- Non sono ancora andato in redazione. Parla.
- Be', non è ancora ufficiale ma si prevede che la NASA darà l'annuncio entro la settimana. Si sta preparando la missione «Explorer VI» per confermare o negare la presenza di vita su Venere. Stavolta l'equipaggio sarà composto da sei persone, fra cui un glottologo e un biologo... non si sa mai.
- Oddio!
Anders disse qualche altra cosa ma non l'ascoltai. Altri sei uomini, pensavo. Sei, ridotti come Stiles e Webber? E quanti ancora in seguito? Quanti altri prima che finalmente accettassero la verità?
Posto che quella fosse la verità.
La NASA non ci credeva: sapevano, naturalmente, ma la possibilità era troppo estranea alle loro menti scientifiche. E forse avevano ragione. Pregavo Dio che fosse così.
Ma l'immagine della faccia di Stiles, nitida e terribile, si stagliava nella mia mente insieme alla parola che credevo di avergli visto pronunciare. Quell'unica parola non diceva niente, eppure poteva spiegare quello che era successo a lui e a Webber, e quello che aspettava tutti coloro che sarebbero scesi su Venere.
La parola era «Medusa».

FINE