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Urania - Asimov d'appendice
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OLTRE GLI EONI DELLA TERRA - Isaac Asimov
Titolo originale: Beyond earth's eons
All'epoca dell'università, disprezzavo le cerimonie di conferimento della laurea. Rifiutai di partecipare alla cerimonia quando ottenni la mia laurea di primo livello, il "Bachelor", e quella di secondo livello, il "Master", e insistetti perché i diplomi mi fossero mandati per posta. Per il mio dottorato, mi decisi a partecipare alla cerimonia, ma rimasi seduto tra il pubblico e rifiutai di prendere parte alla pagliacciata delle formalità accademiche.
Ora sono stato adeguatamente punito. Dal 1969 in poi non c'è stata epoca di cerimonie in cui non fossi costretto almeno una volta a indossare toga e cappello. Nel 1976 fui costretto a farlo non meno di quattro volte. Quasi sempre il motivo è che mi viene riservato il compito di fare il discorso per la cerimonia, ma molte volte è successo che il motivo fosse il conferimento di una laurea "honoris causa" al sottoscritto. Come risultato ho raccolto fino al 1979 quattro o cinque lauree in scienze, una in ingegneria, una in lettere e una in scienze umane.
Poi, il 18 maggio 1980, mi sono presentato alla cerimonia di conferimento del dottorato della Boston University, per ritirare un'altra laurea "honoris causa". È stata un'occasione felice, perché io faccio parte del senato accademico di quella università in qualità di professore di biochimica. Ho incontrato alcuni vecchi amici e sono stato molto festeggiato.
Non sapevo esattamente quale laurea mi sarebbe stata conferita, ma mi sembrava che la cosa non fosse molto importante. Ne avevo ricevuta una per ogni categoria per cui esistesse almeno l'ombra di una scusa, perciò non mi aspettavo niente di nuovo.
Ma la Boston University mi ha riservato una sorpresa. Dopo che si è discusso abbastanza a lungo (ho saputo) se fosse più giusto conferirmi la laurea in lettere o in scienze, il rettore John Silber ha deciso di fare entrambe le cose, e mi ha conferito il titolo di "dottore in lettere e scienze". Questa doppia laurea era una cosa senza precedenti per la Boston University e (a quanto ne so io) forse non ha precedenti nemmeno nelle altre università.
Di solito non ho un atteggiamento sentimentale verso queste cose e non ho mai messo in cornice nessun pezzo di pergamena accademica, a parte il mio diploma di dottorato, ma questa doppia laurea ho deciso di metterla in cornice e appenderla alla parete bene in vista.
E la ragione per cui vi dico questo è che, di tutto quello che scrivo, gli articoli che scrivo per "The Magazine of Fantasy and Science Fiction" (e di cui questo è il 266) sono gli unici che mi sembra richiedano in eguale misura l'impiego delle mie conoscenze scientifiche e delle mie capacità letterarie.
Conferendomi una doppia laurea in scienze e in lettere, dunque, ho l'impressione che la Boston University, consciamente o meno, abbia reso onore a questa mia serie di articoli scientifici, e della cosa sono talmente orgoglioso, che per una volta non ho potuto fare a meno di lasciare da parte la modestia per la quale vado così famoso, e di mettervi al corrente dell'accaduto.
E adesso che l'ho fatto, prenderò in esame un argomento che metterà alla prova al massimo le mie capacità letterarie e le mie conoscenze scientifiche. Spero di farcela.
In un articolo precedente, apparso su Urania n. 884, abbiamo discusso dell'età della Terra e siamo arrivati a parlare, abbastanza convincentemente, di 4,6 eoni; e ogni eone, avevamo detto, corrisponde a un miliardo di anni. Adesso passiamo a trattare del problema dell'età dell'universo in generale.
Fino al diciottesimo secolo non si pensò assolutamente che il problema dell'età della Terra e quello dell'età dell'universo fossero due cose distinte. Prima dell'avvento dell'astronomia moderna si dava infatti per scontato che i corpi celesti fossero appendici poco importanti della Terra. La Bibbia dice: "In principio Dio creò il cielo e la terra", e se anche le altre religioni e filosofie non usarono queste stesse parole, ebbero pur sempre la convinzione che tutto fosse stato creato contemporaneamente.
Nel diciottesimo secolo, quando gli scienziati cominciarono a riflettere sulle origini non-divine del sistema solare, ovvero sulla possibilità di qualche evento catastrofico che avesse coinvolto il Sole, o sulla possibilità che si fosse condensata gradatamente una grande massa di polvere e gas, sembrò ragionevole supporre che si fosse trattato in ogni caso di un fenomeno locale. Il Sole, nell'ipotesi della catastrofe, poteva magari già essere esistito per un periodo indefinito prima-della-nascita-della-Terra, assieme ai milioni di stelle sue compagne. Nell'ipotesi della massa di polvere e gas in evoluzione, valeva lo stesso discorso: anch'esso poteva esistere già molto prima che nascesse il sistema solare, e altre stelle coi loro sistemi solari potevano essersi formate eoni prima.
In entrambi i casi l'universo, si pensava, era sicuramente più antico del sistema solare, forse molto più antico. Anzi, potendo prescindere dall'idea di una creazione divina (il che non era facile nel diciottesimo e diciannovesimo secolo), l'universo si poteva anche immaginare come infinitamente antico.
Nel mio articolo precedente sottolineavo come la formulazione della legge di conservazione dell'energia avesse reso chiaro, negli anni dal 1840 in poi, che il Sole doveva essere stato dotato, alla nascita, di un certo quantitativo di energia, destinato un giorno a essere consumato completamente. In breve, che il Sole, in quanto corpo irraggiante energia, doveva avere un inizio e una fine.
La legge di conservazione dell'energia di per sé poteva anche non significare lo stesso per l'universo nel suo insieme. Le singole stelle potevano benissimo consumare tutta l'energia della loro fonte, ma in compenso si potevano formare nuove stelle, e tutto questo poteva continuare indefinitamente.
Perché no? La legge di conservazione dell'energia (detta anche "primo principio della termodinamica") afferma che l'energia non può essere né creata né distrutta, ma solo trasferita da un posto all'altro o cambiata da una forma in un'altra. Il Sole, consumando la sua energia, non si sarebbe che limitato a trasferire tale energia da se stesso allo spazio circostante, e anche le altre stelle avrebbero fatto lo stesso. Perché l'energia irraggiantesi nello spazio non poteva riunirsi a formare altrettante stelle quante erano quelle spentesi in precedenza? E perché questo processo non poteva andare avanti all'infinito?
Questo sogno fu troncato da un fisico tedesco, Rudolf J. E. Clausius (1822-1888). Nel 1850 Clausius scoprì che se si considerava la percentuale del contenuto di calore in relazione alla temperatura assoluta di un sistema chiuso (uno che non cedesse energia al mondo esterno e non ne ricevesse da esso), tale percentuale aumentava sempre nel corso di qualsiasi cambiamento spontaneo avesse luogo all'interno di detto sistema.
Clausius defini questa percentuale "entropia", sicché fu possibile dire che in qualsiasi sistema chiuso tutti i cambiamenti spontanei implicano un aumento di entropia; e questa legge fu poi chiamata "secondo principio della termodinamica".
L'universo nel suo complesso è, a quanto ne sappiamo, un sistema chiuso; anzi, l'unico sistema veramente chiuso. Perciò possiamo dire che l'entropia dell'universo è in costante e progressivo aumento.
Non sappiamo, così all'improvviso, fino a dove può arrivare questo aumento, ma potremmo provare a considerare la faccenda al contrario. Se l'entropia dell'universo è in costante aumento, l'entropia totale dell'universo stesso l'anno scorso era inferiore a quella di adesso, e inferiore ancora l'altr'anno, e inferiore ancora tre anni fa.
Supponendo che l'entropia totale di adesso sia finita, se torniamo abbastanza indietro nel tempo dovremmo ritrovarci con un'entropia zero. In tal caso non potremmo indietreggiare ulteriormente nel tempo, per cui se il secondo principio della termodinamica è vero (e tutte le osservazioni che sono state fatte dall'epoca di Clausius in poi ci inducono a credere che sia vero), allora dovrebbe per forza risultarne che l'universo ha avuto un inizio.
L'entropia si rivela così una misura della non disponibilità di energia. L'energia si può trasformare da una forma in un'altra, ma non in modo perfetto. Ciascuna trasformazione fa diminuire l'energia totale disponibile per la conversione in lavoro. Mentre l'energia totale dell'universo rimane costante nel tempo, c'è una disponibilità sempre minore di essa per la conversione in lavoro a mano a mano che il tempo passa.
Alla fine, se immaginiamo che il quantitativo sia finito, tutta quanta l'energia diverrà non-disponibile. In tale momento l'energia sarà in forma di calore diffuso uniformemente senza differenze di temperatura. In simili condizioni, l'entropia è al massimo, e l'energia disponibile è zero. E anche se si potrà sempre parlare di un universo, poiché l'energia sarà sempre lì, si tratterà di un universo senza ulteriori possibilità di cambiamento, e quindi di vita, per noi. Ai fini pratici sarebbe un universo morto, e in effetti Clausius parlava della "morte da calore dell'universo".
Ricapitolando: dati il secondo principio della termodinamica e un universo finito, basta questo a dedurre che tale universo deve avere avuto un inizio e che un giorno dovrà avere una fine.
Dal secondo principio della termodinamica non possiamo dedurre "quando" c'è stato l'inizio, né "quando" ci sarà la fine. Ciò dipende dal contenuto totale di energia dell'universo e dal ritmo con cui l'entropia aumenta, e Clausius non era in grado nemmeno di provare a immaginare tali cifre.
Naturalmente, non sarebbe necessario sapere tutti i particolari relativi al contenuto di energia e al ritmo di crescita dell'entropia. Supponiamo ad esempio di scoprire un cambiamento di grande portata nell'universo, un cambiamento così costante, così unidirezionale che possiamo presumere che l'aumento di entropia rispetto ad esso travolge completamente tutti gli altri aumenti di entropia inferiori... In tal caso potremmo assumere che quel cambiamento fosse l'unico ad avere luogo nell'universo, e lavorare su esso. Tutto il resto non farebbe che introdurre modifiche insignificanti, che non sarebbero in grado di influenzare sensibilmente la risposta finale.
In passato la possibilità di trovare un simile cambiamento sarà certo apparsa infinitesima, eppure esisteva, ed è stata trovata.
La possibilità di fare una simile scoperta risale agli anni dal 1840 in poi, quando fu dimostrato che dalle radiazioni emesse da un oggetto in movimento si poteva dedurre se tale oggetto si stesse avvicinando o allontanando da noi, e a che velocità lo facesse.
A cominciare dal 1912, la tecnica fu applicata allo spettro della luce di certe "nebulose" che si riteneva fossero nubi di polvere e gas non eccessivamente lontane da noi. Le nebulose si rivelarono invece essere oggetti molto lontani.
Le stelle a noi visibili a occhio nudo fanno parte di un'enorme struttura detta galassia, composta da molte centinaia di miliardi di stelle; ma oltre la nostra galassia ci sono altre galassie, alcune enormi come la nostra e alcune ancora più enormi. Queste galassie "esterne" si stendono molto lontano da noi; e le "nebulose", si scoprì, facevano appunto parte del gruppo di galassie lontane.
L'astronomo americano Edwin Powell Hubble (1889-1953) fu il primo a dimostrare chiaramente questo quando, nel 1917, usò l'allora nuovissimo telescopio di Mount Wilson, in California (un telescopio di 150 centimetri di diametro), per fotografare l'orlo della nebulosa di Andromeda (l'unica visibile a occhio nudo); Hubble scoprì che l'opaca luminosità dell'oggetto era data da un numero enorme di stelle dalla luce debolissima.
Quando Hubble scoprì questo, era ormai stato dimostrato che tutte le galassie studiate (tranne una o due delle più vicine) si stavano allontanando da noi, e che alcune di esse lo stavano facendo a velocità incredibilmente alte.
Hubble s'interessò della cosa. Raccolse tutti i dati disponibili sulla velocità d'allontanamento delle varie galassie e insistette perché si facessero sempre più osservazioni di quel tipo. Mise in relazione la velocità di allontanamento con la distanza relativa delle galassie (usando diversi metodi per determinare quest'ultima) e divenne chiaro che tra le due c'era una semplice relazione lineare. Più una galassia era lontana, più in fretta si allontanava da noi. Se la galassia A era cinque volte più lontana da noi della galassia B, questo significava che la galassia A si allontanava da noi cinque volte più in fretta della galassia B.
Entro il 1920 Hubble si sentì così sicuro di quanto aveva scoperto, da annunciare ufficialmente questo rapporto tra velocità d'allontanamento e distanza, rapporto che da allora fu chiamato "legge di Hubble".
Può sembrare strano che tutte le galassie si allontanino da noi come se fossero da noi respinte, con la forza di repulsione che aumenta con l'aumentare della distanza. Ma in realtà è errato vedere la cosa da questo punto di vista. Un'interpretazione più ragionevole della legge di Hubble è quella di supporre che l'intero universo sia in espansione. Se supponiamo questo, risulterà evidente che le galassie lontane si allontaneranno in modo proporzionale alla loro distanza dal punto di vista dell'osservatore di qualsiasi galassia, non solo della nostra.
Un simile universo in espansione è compatibile con le equazioni elaborate da Albert Einstein (1879-1955) nel 1916, nella sua Teoria Generale della Relatività.
L'espansione dell'universo è un fenomeno di così grande portata che possiamo lavorare solo su essa per calcolare l'inizio e la fine dell'universo, sicuri di ottenere la stessa risposta che avremmo lavorando in dettaglio sul secondo principio della termodinamica.
Per esempio, l'espansione costante dell'universo significa che l'anno scorso l'espansione stessa era inferiore a quella di quest'anno, e che l'altr'anno era ancora inferiore, e così via; e che in un certo momento del lontano passato essa non era più grande di un punto. In tale momento, l'entropia era zero. L'universo è cominciato allora, con un "big bang" che si è risolto in un'espansione esplosiva.
Immaginiamo ora di prendere in considerazione una galassia distante da noi tredici milioni di anni luce, e che si allontani da noi alla velocità di duemila chilometri al secondo. Se fingiamo che il tempo si sposti all'indietro, allora la galassia si avvicinerà a noi e, a ogni secondo, sarà più vicina di duemila chilometri.
Poiché, in un anno, ci sono 31.557.000 secondi, ciò significa che la detta galassia sarà, con il tempo che va all'indietro, più vicina a noi ogni anno di circa 63.000.000.000 di chilometri. Un anno luce equivale a 9.460.000.000.000 di chilometri, sicché dovremmo spostarci indietro nel tempo di circa 150 anni perché la detta galassia arrivasse a diminuire la propria distanza di un singolo anno luce.
Per fare si che la galassia diminuisca la propria distanza di 13.000.000 di anni luce, dovremmo spostarci indietro nel tempo di 150*13.000.000, ovvero di circa 2.000.000.000 di anni; cioè di due eoni. In altre parole, due eoni fa, quella galassia e la nostra occupavano lo stesso posto.
Quello che vale per la galassia presa in considerazione varrà per qualsiasi altra galassia, se la legge di Hubble è corretta. Se la galassia A è due volte più lontana della galassia B, la galassia A si muove due volte più in fretta, sicché entrambe copriranno la distanza che le separa da noi nel medesimo tempo. Si può fare un simile calcolo per tutte quante le galassie.
In breve, se è vera la legge di Hubble, e se immaginiamo che il tempo si sposti all'indietro, tutte le galassie dovranno riunirsi nello stesso momento. Per calcolare questo momento è necessario solo scegliere una galassia lontana e calcolare sia la sua distanza, sia la sua velocità di allontanamento. Basterà dividere la prima per la seconda, e si troverà il tempo che è passato dal momento del big bang, e dunque l'età dell'universo.
Non vi sono dubbi sulla velocità delle galassie il cui spettro è in grado di essere studiato. Si è compreso perfettamente in che modo la velocità influenzi le linee scure dello spettro, e la cosa può essere controllata attraverso osservazioni di laboratorio.
Rimane dunque la distanza che, sfortunatamente, non è affatto facile da determinare. Agli inizi del ventesimo secolo non era possibile determinare con buona approssimazione le distanze di più di cento anni luce.
Nel 1912, però, si scoprì che certe stelle variabili chiamate "cefeidi" avevano periodi che variavano con la loro luminosità effettiva. Il periodo di oscillazione della luce fu calcolato facilmente, e da quel calcolo si poté ricavare quello della luminosità di ciascuna cefeide. Confrontando la luminosità apparente con la luminosità effettiva, appare chiaro che la differenza dev'essere dovuta all'effetto della distanza, che diluisce la luce. In tal modo si può calcolare la distanza delle cefeidi e anche quella di qualsiasi struttura esse facciano parte.
Quando Hubble elaborò la legge che porta il suo nome, determinò la distanza di alcune delle galassie più vicine grazie alle cefeidi che individuò nel loro orlo. Tali cefeidi avevano una luminosità apparente molto più debole di quella delle cefeidi di ugual periodo della nostra galassia. Poiché avevano lo stesso periodo, dovevano in realtà avere anche uguale luminosità. La luminosità assai debole delle cefeidi delle galassie esterne doveva dunque essere il risultato della loro notevole distanza e Hubble calcolò tale distanza.
Una volta che ebbe quei dati, divise la distanza per la velocità e decise (come ho fatto io poco fa in questo stesso articolo) che l'universo aveva due eoni di età.
Questo fu uno shock terribile per i geologi e i fisici. Basandosi sullo studio dell'uranio e del piombo nelle rocce (come ho spiegato in un altro articolo) si erano convinti che la Terra avesse ben più di due eoni di età. E certo era inconcepibile che l'universo fosse più giovane della Terra.
Nel 1942, per fortuna, l'astronomo tedesco-americano Walter Baade (1893-1960) trovò motivo di credere che bisognasse dividere le stelle in due classi: quelle di "popolazione I" e quelle di "popolazione II". Riusci a dimostrare che, dato un certo periodo di oscillazione della luce, le cefeidi variavano in luminosità in base alla loro appartenenza a "popolazione I" o a "popolazione II", e che quelle appartenenti a "popolazione I" erano notevolmente più luminose.
Studiando le galassie esterne, Hubble aveva osservato delle cefeidi di "popolazione I", e aveva applicato ad esse le regole delle cefeidi di "popolazione II". Pensando che quelle cefeidi lontane fossero meno luminose di quello che erano in realtà, aveva finito per attribuire alle galassie una distanza moderata. Una volta che ci si fu accorti che quelle cefeidi appartenevano alla classe molto più luminosa di "popolazione I", si capì che le galassie erano molto più distanti di quanto non pensasse Hubble.
Grazie all'intuizione di Baade, si ripetè il calcolo fatto da Hubble, e si divise la ben più grande distanza trovata per la stessa vecchia velocità (che non c'era ragione di cambiare); e si ebbe naturalmente un quoziente proporzionalmente più grande, per cui il momento del big bang si spostò molto più indietro nel passato, e l'universo risultò ben più vecchio di due eoni, e anzi ben più vecchio dei 4,6 eoni di età che venivano attribuiti alla Terra. I geologi e i fisici tirarono un sospiro di sollievo.
Nei trent'anni successivi al lavoro di Baade, ogni volta che gli astronomi scoprirono nuovi modi di determinare la distanza delle galassie, le cifre si fecero più grandi di quanto non fossero state in precedenza, e l'universo, di conseguenza, si fece più vecchio.
Entro il 1979 le distanze erano diventate circa dieci volte quelle calcolate all'inizio da Hubble, e l'età dell'universo era ritenuta (attraverso l'applicazione lineare della legge di Hubble) di 20 eoni.
Tuttavia un'applicazione lineare della legge di Hubble appare un po' semplicistica.
L'universo si espande nonostante la trazione gravitazionale di tutte le sue parti. Il dovere superare tale trazione priva le galassie di energia cinetica ed esse, nel loro processo di espansione verso l'esterno, si muovono sempre più lentamente col trascorrere del tempo (proprio come una palla che salga verso l'alto nonostante la gravità terrestre: essa, col tempo, si sposterà verso l'alto sempre più lentamente).
Questo significa che, se immaginiamo di andare indietro nel tempo, vedremo le galassie avvicinarsi l'una all'altra sempre più in fretta, e riunirsi in un lasso di tempo inferiore ai 20 eoni cui si è arrivati supponendo la loro velocità di allontanamento costante per tutto l'arco di tempo.
Di quanto l'età dell'universo sia inferiore ai 20 eoni dipende dalla forza della trazione gravitazionale dell'universo. Essa, a sua volta, dipende da quant'è la densità media della materia nell'universo stesso. Più alta è la densità media dell'universo, più forte è la trazione gravitazionale, più breve il lasso di tempo trascorso dal big bang, e più giovane, quindi, l'universo.
Purtroppo, non siamo certi di quale sia la densità dell'universo, per cui non possiamo fare deduzioni rapide e sicure. Possiamo solo dire che 20 eoni dovrebbero essere l'età massima dell'universo, e che se l'universo non è molto denso nel complesso, l'età effettiva non dovrebbe essere granché inferiore ai famosi 20 eoni.
In tal caso, l'età del sistema solare sarebbe solo un quarto di quella dell'universo. In altre parole, l'universo sarebbe esistito (e benissimo, ne sono certo) senza il Sole e la Terra tre volte il tempo che è esistito con essi.
Una volta che si sia determinata l'età dell'universo, si è determinata automaticamente anche la sua grandezza. Al momento del big bang, radiazioni elettromagnetiche come la luce cominciarono a irraggiarsi in tutte le direzioni: alla velocità della luce, naturalmente.
Il globo di radiazioni in espansione si è spostato verso l'esterno di un anno luce per ciascun anno di tempo che è passato e di un eone luce (un miliardo di anni luce) per ciascun eone di tempo. Quando Hubble disse che l'universo aveva due eoni di età, l'universo avrebbe dovuto avere un raggio di 2.000.000.000 di anni luce e, naturalmente, il suo diametro doveva essere di 4.000.000.000 di anni luce.
Le cifre relative all'età e alla grandezza dell'universo non sono però né facili né sicure. I calcoli che vengono fatti sono alquanto ingegnosi, ma la loro precisione lascia a desiderare. Gli strumenti vengono usati per forza di cose al limite massimo delle loro possibilità, e i ragionamenti devono per necessità basarsi su ipotesi tutt'altro che solide. Non ci sarebbe da sorprendersi quindi se altre osservazioni cambiassero ulteriormente i dati relativi alla distanza delle galassie esterne (e dunque anche all'età e alla grandezza dell'universo).
Alla fine del 1979 tre astronomi americani, Marc Aaronson, John Huchra e Jeremy Mould hanno usato una tecnica nuova per determinare la distanza delle galassie.
Innanzitutto hanno studiato gli ammassi globulari che si trovano nelle galassie, compresa la nostra. Questi ammassi sono agglomerati relativamente densi di stelle (che possono andare da 10.000 a 1.000.000), di forma sferica. Ciascuna galassia possiede uno o duecento ammassi globulari, dalla varia luminosità.
Non si può dedurre granché confrontando l'ammasso globulare di una lontana galassia con quello di un'altra, perché i due potrebbero avere grandezze molto diverse. I tre astronomi però hanno notato che in varie galassie dell'ammasso galattico della Vergine la "gamma" di luminosità degli ammassi globulari era circa la stessa per tutte.
Potrebbe essere che la gamma sia sempre la stessa per tutte le galassie, compresa la nostra, si sono detti. Confrontando la luminosità apparente della gamma degli ammassi globulari di una lontana galassia con quella della gamma degli ammassi globulari della nostra, si può calcolare la distanza che ci vuole per ridurre la luminosità della galassia lontana al vago chiarore osservato in realtà.
In secondo luogo i tre astronomi americani hanno calcolato il ritmo con cui ruotano le galassie lontane. Questo si può fare quando succede che le galassie siano viste dalla Terra con l'estremità rivolta verso di noi. Se si prende lo spettro prima di un'estremità, poi dell'altra, ci sarà uno spostamento verso il rosso in un caso e verso il viola nell'altro, e dall'entità di questi spostamenti si potrà determinare il periodo di rotazione.
Più una galassia ruota in fretta alle estremità, più sarà massiccia, perché è la massa che produce il campo gravitazionale che determina il movimento delle stelle. Una volta che si sia determinata la massa, se ne conosce anche la luminosità effettiva. Se questa luminosità viene confrontata con la luminosità che vediamo noi, si può fare una stima della distanza della galassia. I tre astronomi hanno inoltre calcolato la luminosità con gli infrarossi, evitando così la dispersione provocata dalla polvere interstellare di cui è facile che soffra la luce visibile nelle grandi distanze.
Usando questi metodi, i tre astronomi americani hanno portato prove tendenti a dimostrare che i precedenti calcoli delle distanze avevano sbagliato in eccesso, e che in realtà la distanza delle galassie andava ridotta della metà.
Se hanno ragione, l'universo avrebbe allora soltanto dieci eoni di età, e il suo diametro sarebbe di soli 20.000.000.000 di anni luce. E, inoltre, il sistema solare avrebbe metà dell'età dell'universo.
Quando i tre astronomi hanno annunciato i loro risultati, c'è stata notevole eccitazione fra i non astronomi. O, almeno, io ho ricevuto varie telefonate di giornalisti, dalle cui domande ho dedotto che pensavano che il mondo della scienza avesse ricevuto un grandissimo scossone, e che l'astronomia si fosse dimostrata una scienza traballante, in quanto "tutto d'un tratto aveva fatto scomparire metà universo".
Le cose da ricordare a tal punto sono queste:
1) Abbiamo a che fare, come ho spiegato, con calcoli la cui precisione lascia molto a desiderare.
2) In trent'anni l'universo ha visto il suo raggio moltiplicarsi per dieci (da due a venti eoni), a mano a mano che gli astronomi perfezionavano le loro osservazioni, sicché adesso una riduzione della metà (da venti a dieci) rappresenta una correzione relativamente poco importante.
3) Non è ancora detto che i nuovi calcoli siano quelli giusti. I venti eoni si adattavano bene al tempo richiesto da certe fasi dell'evoluzione stellare. La cifra ridotta di dieci eoni forse non lascia abbastanza tempo per tali fasi, il che ha reso molti astronomi restii ad accogliere come buoni i calcoli più recenti.
Perciò vedremo. Indubbiamente adesso molti astronomi staranno controllando i dati recenti e riesaminando quelli più vecchi, e il modo di poter contare gli eoni verrà perfezionato sempre di più, a vantaggio di tutti.
E c'è anche di più. In questo articolo ho dato uno sguardo indietro all'universo, uno sguardo agli eoni che lo separano dalla sua nascita. Ma in un prossimo articolo ho voglia di dare uno sguardo avanti, uno sguardo agli eoni che lo separano dalla sua morte...
FINE