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Urania - Asimov d'appendice
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LA SUPERNOVA CHE CI ASPETTA - Isaac Asimov
Titolo originale: Ready and waiting

Attorno al 130 a. C., l'astronomo greco Ipparco compilò un elenco delle stelle, il primo di cui siamo a conoscenza. Vi erano elencati circa 850 astri, con i nomi allora in uso, la latitudine e longitudine rispetto all'eclittica (la traiettoria seguita dal sole sullo sfondo del cielo stellato), e la posizione esatta del sole all'equinozio di primavera.
Perché lo fece? Secondo Plinio, che ne scrisse due secoli dopo, fu perché «aveva scoperto una nuova stella».
Sarà bene ricordare che prima dell'invenzione del telescopio quasi tutti gli astronomi davano per scontato che tutte le stelle fossero visibili per chi avesse la vista abbastanza acuta. Il concetto di stella invisibile era un po' come una contraddizione in termini. Se era invisibile, non era una stella.
Però la luminosità delle stelle non è costante, e alcune sono così tenui che è molto difficile vederle. Non era possibile che certe, poche magari, fossero talmente fioche da non essere visibili, nemmeno da un occhio particolarmente acuto? Una simile possibilità, a noi che ci pensiamo oggi col senno di poi, appare tanto logica che ci meravigliamo che qualcuno non sia stato in grado di immaginarla.
Il problema è che fino a quattro secoli e mezzo fa gli esseri umani vivevano in un universo che aveva per centro la Terra, e credevano fermamente che ogni cosa, nell'Universo intero, fosse stata creata al solo scopo di esercitare un qualche effetto sugli esseri umani (Molti vivono in un universo simile anche oggi).
Si poteva così pensare che le stelle esistevano solo perché erano così belle da appagare la nostra vista e da commuoverci col loro fascino meraviglioso.
Oppure, chi era più materialista, poteva pensare che le stelle formassero un complesso crittogramma, contro il quale gli oggetti mobili come il Sole, la Luna, i pianeti, le comete e le meteore segnavano dei percorsi da cui si potevano trarre segnali per la condotta degli uomini.
O anche, con un pensiero più sublime, si poteva immaginare che le stelle avevano lo scopo di suscitare negli animi un senso di indegnità, e di suggerire l'esistenza di un'entità trascendente, al di là della portata della comprensione umana («Narrano i cieli la gloria di Dio, l'opera sue proclama il firmamento.» Salmi 19:2).
In un Universo con al centro la Terra, cioè l'uomo, l'idea di una stella invisibile non aveva alcun senso. Che scopo avrebbe mai avuto? Se non la si vedeva, non serviva né all'estetismo, né al materialismo, né alla religione.
Tuttavia Ipparco, che, dopo aver passato lungo tempo a scrutare i cieli e a determinare la posizione dei pianeti sullo sfondo stellato, conosceva ormai a memoria il disegno formato dalle circa mille stelle più luminose, guardò il cielo notturno e vide una stella che non aveva mai visto prima.
Poteva immaginare solo che fosse una stella nuova, una che si era appena formata. E solo temporaneamente, anche, perché in seguito scomparve di nuovo (Plinio non lo dice, ma possiamo essere sicuri che fu così).
Ipparco deve aver pensato che una simile intrusione celeste fosse un evento notevole, e deve essersi chiesto se era un fatto frequente. A dire la verità non esistevano notizie precedenti di nuove stelle, ma un avvenimento così silenzioso poteva anche essere passato inosservato. Per cui preparò il suo elenco, di modo che qualche futuro astronomo, al minimo sospetto di novità, potesse consultarlo per assicurarsi se nella posizione in cui era stata vista una stella prima, non ci fosse niente.

Nei secoli che seguirono il lavoro di Ipparco, furono a volte notate, anche se di rado, nuove stelle. L'11 novembre 1572 ne apparve una particolarmente notevole nella costellazione di Cassiopea. Un astronomo danese di 25 anni, Tycho Brahe, la osservò attentamente, e scrisse al riguardo un libretto di 52 pagine che lo rese in breve tempo l'astronomo più famoso d'Europa.
Tycho (nell'uso comune è rimasto, chissà perché, il solo nome) diede al suo libro un titolo lunghissimo, che viene di solito riassunto in Sulla nuova stella. Dal momento che il libro è scritto in latino, il titolo esatto è De nova stella. Da allora ogni «stella nuova» viene detta nova, che in latino significa appunto «nuova».
Ed ecco che nel 1609 Galileo costruì il suo primo telescopio, lo puntò verso il cielo e vide che, apparentemente, rendeva più luminosa ogni stella e che molte di esse, troppo tenui per essere visibili a occhio nudo, grazie al telescopio potevano essere viste e studiate. Galileo scoprì che esistevano moltissime stelle invisibili a occhio nudo, molte di più di quelle visibili. E se una di queste, per qualche ragione, fosse divenuta più luminosa, in modo da essere visibile a occhio nudo, sarebbe stata creduta, prima dell'invenzione del telescopio, una stella «nuova».
Nel 1596, per esempio, l'astronomo tedesco David Fabricius aveva notato, nella costellazione di Cetus, una stella di terza grandezza, che impallidì e scomparve. La ritenne un'altra stella effimera, apparsa e scomparsa come quelle di Ipparco e di Tycho. Durante il secolo successivo, però, quella stella fu rivista nel medesimo punto in diverse occasioni. Col telescopio si scoprì che era sempre presente, ma che la sua luminosità era molto irregolare. Quando era più tenue non era visibile a occhio nudo, ma riusciva a splendere a diverse gradazioni di brillantezza visibile, fino a raggiungere temporaneamente, nel 1779, la prima grandezza. Venne chiamata «Mira» (meravigliosa), sebbene il suo nome scientifico sia Omicron Ceti.
Al giorno d'oggi una stella viene definita «nova» quando comincia a risplendere con chiarezza all'improvviso, anche se rimane così tenue da non poter essere vista a occhio nudo. Ci sono anche stelle che risplendono e si attenuano con regolarità, ma si tratta di «stelle variabili» e non vengono considerate «novae».
Ora che possiamo contare sull'aiuto del telescopio, le novae non sono più rare e meravigliose come un tempo. Mediamente, il 25% delle apparizioni avvengono nella nostra Galassia, sebbene molte rimangono celate dalle nubi di pulviscolo che ci impediscono di vedere con chiarezza al di fuori del nostro angolo di Galassia.
Una nova solitamente appare senza preavviso, ed è scoperta solo dopo che ha cominciato a brillare. Dopodiché può venire osservata fino a che si attenua e scompare, tornando a essere quello che era, presumibilmente, in origine.
Col passare degli anni si sono studiate sempre più «post-novae» di questo genere, finché, negli anni '50, divenne chiaro che erano tutte, senza eccezione, stelle gemelle. Si scoprì infatti che le novae sono una coppia di stelle con un centro gravitazionale comune, e così vicine l'una all'altra da causare reciprocamente notevoli influenze di marea. Una delle due è invariabilmente una nana bianca, mentre l'altra è una stella normale.
La spiegazione del fenomeno è semplice. L'influenza di marea della nana bianca trae materia ricca di idrogeno fuori dalla sua gemella normale. Questa materia si disporrà ad anello attorno alla nana, per poi formare una spirale che punta verso il suo centro. Avvicinandosi alla nana, questa materia è soggetta a un campo gravitazionale crescente, che la condensa e produce la fusione dell'idrogeno che la forma. La nana bianca brilla sempre un po' di più che se fosse singola, per lo scintillio della nuvola di idrogeno strappata alla sua compagna.
Ogni tanto, però, grandi quantità di materia si staccano dalla stella principale (senza dubbio a causa di attività più intensa del normale sulla sua superficie), e sulla nana bianca scende un ammontare relativamente elevato di idrogeno, oppure l'idrogeno che scende con regolarità sulla nana si accumula fino a esplodere. Ciò produrrà una luce molte volte maggiore di quella della nana stessa, e vista dalla Terra, la stella diventerà improvvisamente molto più luminosa di come era prima. E poi, ovviamente, l'idrogeno si consuma e lo splendore della stella si attenua fino alla volta successiva.
Ma la storia non finisce qui.
Nel 1885, nelle regioni centrali di quella che era allora conosciuta come la nebulosa di Andromeda, fu osservata una stella, in un punto dove non ne era mai stata vista nessuna. La sua luminosità durò per breve tempo, poi si attenuò e scomparve. Anche al massimo dello splendore non risultava visibile a occhio nudo, e fu considerata un esemplare poco importante. Il fatto che emettesse una quantità di luce pari a quella dell'intera nebulosa di Andromeda, non fu ritenuto degno di nota.
Proviamo a supporre però che la nebulosa di Andromeda non sia un ammasso relativamente vicino di gas e pulviscolo, come ritenevano molti astronomi dell'epoca, e che invece si tratti di un agglomerato di stelle molto distante. Alcuni astronomi sospettavano un fatto del genere.
Nel 1910, l'americano Herbert Doust Curtis studiò la nebulosa e osservò che nel suo interno si potevano scorgere tenui lampi, che attribuì alle novae. Se la nebulosa di Andromeda fosse stata lontanissima, le sue stelle, viste dalla Terra, sarebbero state talmente indistinte che la nebulosa sarebbe apparsa come una nebbia. Le novae avrebbero brillato abbastanza per poter essere individuate una per una con un buon telescopio, ma sarebbero state lo stesso troppo fievoli in confronto alle stelle della nostra Galassia.
Curtis individuò un gran numero di novae nella nebulosa di Andromeda, molte di più di quante apparivano nello stesso momento in altri settori di cielo con le stesse dimensioni. Ne concluse che la nebulosa era effettivamente una galassia, che conteneva così tante stelle che le novae erano di conseguenza numerosissime. Aveva ragione. La Galassia di Andromeda (così la chiamiamo adesso) dista da noi circa 700.000 parsec (un parsec equivale a 3,26 anni luce) cioè più di 30 volte della stella più lontana della nostra Galassia.
Ma in questo caso, la nova del 1885 come aveva potuto diventare così luminosa da essere quasi visibile a occhio nudo? L'opinione di Curtis, nel 1918, era che si trattasse di una nova eccezionale, dalla luminosità straordinaria. Infatti, se la nebulosa di Andromeda era in realtà una galassia grande come la nostra, ne conseguiva che la nova del 1885 aveva brillato da sola come un'intera galassia, e che era stata temporaneamente miliardi di volte più luminosa del nostro Sole. Solitamente le novae hanno una luminosità temporanea di qualche centinaio di migliaia di volte maggiore del Sole.
Negli anni '30, l'astronomo svizzero Fritz Zwicky effettuò un'accurata ricerca sulle novae extragalattiche che avessero raggiunto una luminosità pari a quella di una galassia, e diede a questa varietà ultra-luminosa il nome di «supernovae» (La nova del 1885 viene ora chiamata «S Andromedae», dove la S sta per supernova).
Mentre una nova può ripetersi più volte, cioè ogni volta che accumula una sufficiente quantità di idrogeno dalla sua stella gemella, le supernovae sono fenomeni unici.
Una supernova è una grande stella che ha consumato tutto il combustibile nel suo nucleo e che, non riuscendo più a sostenere la propria spinta gravitazionale, collassa. Così facendo, l'energia cinetica causata dal movimento verso l'interno si converte in calore, e l'idrogeno ancora esistente negli strati più esterni viene riscaldato e compresso al punto da innescare una reazione di fusione. L'idrogeno si consuma tutto in una volta e la stella esplode, bruciando tutta la sua energia in brevissimo tempo e rilucendo temporaneamente con un bagliore che supera quello di un'intera galassia di stelle.
Dopo l'esplosione rimane solo una piccola stella di neutroni che non esploderà mai più.
Potete facilmente immaginare che le supernovae sono molto più rare delle novae: infatti abbiamo mediamente una supernova ogni circa 250 novae. In una galassia come la nostra, dovrebbe essercene una ogni dieci anni, ma sono quasi tutte nascoste da nubi di pulviscolo, per cui, nell'angolo di Galassia alla portata dei nostri occhi e dei nostri telescopi ottici, una supernova sarà osservata sì e no ogni tre secoli.
Naturalmente una supernova è molto più spettacolare di una nova vista dalla stessa distanza, e allora ci si domanda: nella nostra parte di Galassia è stata mai vista una supernova?
La risposta è si.
La «stella nuova» vista da Tycho era senza dubbio una supernova. Cominciò a risplendere con rapidità, fino a divenire più luminosa di Venere. Era visibile anche di giorno, e di notte riusciva a proiettare vaghe ombre. Restò luminosissima per un paio di settimane, e fu visibile a occhio nudo per un anno e mezzo, prima di sparire definitivamente.
Nel 1604 l'astronomo tedesco Giovanni Keplero osservò un'altra supernova, meno brillante però di quella di Tycho, dato che non riuscì mai a uguagliare lo splendore di Marte. Evidentemente era molto più distante di quella di Tycho.
Così, due supernovae furono chiaramente visibili dalla Terra nel breve spazio di trentadue anni. Se Tycho, che mori nel 1601 all'età di 54 anni, fosse vissuto per altri tre, le avrebbe viste tutte e due. E da allora, ironia della sorte, nei quattrocento anni successivi, non è comparsa alcuna supernova vicina a noi. Gli strumenti astronomici si sono evoluti incredibilmente (telescopi, spettroscopi, macchine fotografiche, radiotelescopi, satelliti), ma niente supernovae. La più vicina a noi è stata S Andromedae.
Ci sono state altre supernovae prima di Tycho?
Si, senz'altro. Nel 1054 (probabilmente il 4 luglio, quasi una celebrazione anticipata dell'indipendenza americana) una supernova iniziò a risplendere nella costellazione del Toro, e fu segnalata dagli astronomi cinesi. Anche questa era più luminosa di Venere, all'inizio, e anche lei scomparve lentamente. Rimase visibile di giorno per tre settimane, e di notte per due anni.
A parte il Sole e la Luna, era l'oggetto più luminoso in cielo a memoria d'uomo, e, curiosamente, non sono sopravvissute osservazioni sulla supernova del Toro da fonte araba o europea.
Comunque questa storia ha un seguito. L'inglese John Bevis osservò per primo, nel 1731, una piccola chiazza nebulosa nel Toro. L'astronomo francese Charles Messier, quarantanni dopo, pubblicò un elenco di oggetti nebulosi, e la chiazza del Toro era la prima in lista. Per questo motivo è stata a volte chiamata M1.
L'irlandese William Parsons (Lord Rosse), la studiò nel 1844 e, notando alcune appendici a forma di chela che si estendevano in tutte le direzioni, la chiamò Nebulosa del Granchio, nome accettato ancora oggi.
Ma non solo la Nebulosa del Granchio si trova nel punto esatto in cui apparve la supernova del 1054, ma è evidentemente il risultato di un'esplosione. Le nuvole di gas al suo interno sono spinte in fuori a una velocità che è stato possibile misurare, e risulta evidente che l'esplosione ha avuto luogo nove secoli fa.
L'astronomo tedesco-americano Walter Beade, scoprì, nel 1942, una piccola stella al centro della Nebulosa del Granchio. Nel 1969 si chiari che si trattava di una «pulsar», una stella a neutroni dalla rotazione rapidissima. Questa pulsar è la più giovane che si conosca, dal momento che è quella che ruota più velocemente (trenta volte al secondo), ed è quanto rimane della stella gigante che esplose nel 1054.
La Nebulosa del Granchio è lontana da noi circa 2.000 parsec, una distanza non molto grande secondo le medie galattiche, per cui non desta stupore che lo spettacolo sia stato così meraviglioso (Le supernovae del 1572 e del 1604, più lontane, non hanno lasciato tracce di stelle a neutroni).
È possibile che si siano verificati avvenimenti ancor più sorprendenti nella preistoria.
Circa 11.000 anni fa, quando nel Medio Oriente gli esseri umani stavano iniziando a sviluppare l'agricoltura, esplose una stella distante solo 460 parsec, meno di un quarto della distanza della supernova del 1054.
La sua luminosità, al punto di massimo splendore, deve essere stata pari a quella della Luna piena, e questa apparizione di una seconda luna fissa rispetto alle altre stelle e che non aveva né disco né fasi visibili deve aver profondamente stupito i nostri antenati non ancora civilizzati.
Naturalmente non esistono testimonianze di questo avvenimento, anche se alcuni simboli su reperti preistorici possono indicare che fu notato qualcosa di insolito nel cielo, ma abbiamo alcune prove indirette.
L'astronomo russo-americano Otto Struve scoprì nel 1930 una grande zona di nebulosità nella costellazione di Vela.
Questa nebulosità ha la forma di una conchiglia di gas e pulviscolo e fu emessa dall'esplosione della supernova di Vela di 11.000 anni fa. Questo fenomeno è dello stesso tipo della Nebulosa del Granchio: avendo potuto espandersi per un periodo dodici volte più lungo, è molto più grande.
Studiata dettagliatamente dall'australiano Colin S. Gum, è ora conosciuta come Nebulosa di Gum. Il punto più vicino della nebulosa dista da noi solo 92 parsec e, alla velocità a cui si sta ora espandendo, attraverserà il sistema solare fra 4.000 anni circa. Comunque, la materia che contiene si è talmente diradata (e lo sarà ancor di più fra 4.000 anni), che non avrà alcun effetto su di noi.

Quando apparirà la prossima supernova visibile? E quale sarà la stella che esploderà?
Se solo avessimo potuto seguire con tutti gli strumenti moderni il processo di esplosione di una supernova vicina, saremmo in grado di rispondere a queste domande con notevole precisione, ma, come ho detto, per quanto riguarda avvenimenti di questo genere, siamo alla fine del quarto secolo di silenzio.
Però qualcosa sappiamo. Sappiamo per esempio che più una stella ha massa e più rapidamente consuma l'energia del suo nucleo, più breve sarà la sua vita come stella della sequenza principale, e più veloce e catastrofico sarà il suo collasso.
Anche una stella grande come il nostro Sole espellerà solo una piccola parte della sua massa, quando sarà il momento, e si trasformerà lentamente in una nana bianca. La parte di massa espulsa si espanderà formando una «nebulosa planetaria», così chiamata perché si dispone ad anello attorno alla stella, e, circa un secolo fa, si pensava che quest'anello fosse il primo passo verso la formazione dei pianeti.
Per avere una vera esplosione con conseguente collasso e stella a neutroni, una stella deve avere come minimo assoluto una massa pari a 1,4 volte quella del Sole, e, molto probabilmente, si avrà una buona esplosione solo con una stella che abbia una massa di 10 o 20 volte quella del Sole.
Stelle simili sono molto rare. Non esiste più di una stella su 200.000 che abbia massa sufficiente per essere una buona supernova. Tuttavia ne restano circa 100.000.000 nella nostra Galassia e forse 300.000 nella parte a noi visibile. Queste stelle giganti hanno una vita nella sequenza principale che va da uno a dieci milioni di anni (in confronto ai dieci-dodici miliardi del Sole), per cui, su scala astronomica, esplodono frequentemente.
Ci si potrebbe chiedere come mai le stelle giganti non sono esplose tutte, se si forma una supernova ogni dieci anni. A questa velocità, dovrebbero essere scomparse tutte nel giro di un miliardo di anni, mentre la Galassia ha quasi 15 miliardi di anni. E se le stelle giganti durano solo pochi milioni di anni com'è che non sono scomparse tutte nell'infanzia della Galassia?
Il fatto è che se ne formano continuamente, e che tutte le stelle giganti esistenti ora nella nostra Galassia si sono formate circa dieci milioni di anni fa.
Non è possibile tenerle d'occhio tutte costantemente, ma non ce n'è bisogno. Quando una stella comincia a trasformarsi in supernova è facile accorgersene, così ci si concentra solo su quelle che hanno iniziato il processo.
Quando una stella raggiunge il termine della sua vita nella sequenza principale, comincia a espandersi. Diviene rossastra, perché la sua superficie si raffredda espandendosi. Diventa una gigante rossa, trasformazione comune a tutte le stelle. Anche il nostro Sole, in futuro, fra 5-7 miliardi di anni, diventerà una gigante rossa, e la Terra verrà distrutta durante la trasformazione.
Tanto maggiore è la massa di una stella, tanto più notevole sarà naturalmente lo stadio di gigante rossa, cosicché dobbiamo tener d'occhio solo queste, e non tutte le stelle con forte massa.
La gigante rossa più vicina a noi è Scheat, nella costellazione di Pegaso. Dista solo cinquanta parsec e ha un diametro che è 110 volte quello del Sole. Come gigante rossa è piccola, e se ha già raggiunto le dimensioni massime, significa che non ha una massa più grande del Sole e che probabilmente non diventerà mai una supernova. Se invece si sta ancora espandendo, ci vorrà tempo prima che esploda.
Mira dista da noi circa 70 parsec, il suo diametro è 420 volte quello del Sole e ha una massa molto più grande.
Tuttavia esistono giganti rosse con una massa ancor maggiore, e si trovano a circa 150 parsec da noi. Una è Ras Algethi, in Ercole, con un diametro pari a 500 volte quello del Sole, un'altra è Antares, dello Scorpione, con un diametro 640 volte il Sole.
Betelgeuse, in Orione, è ancora più grande, è pulsante, e ha una luminosità variabile. Questo potrebbe essere un indizio di quell'instabilità che solitamente precede un'esplosione. È come se la stella riuscisse a resistere al collasso e, crescendo la pressione del nucleo, ne venisse spremuta ancora un po' d'energia, così che la stella si espande di nuovo.
Recentemente però è stata scoperta quella che potrebbe essere la candidata più probabile. Si tratta di Eta Carinae, nella costellazione omonima. È una gigante rossa enorme, più grande di Betelgeuse, e ha una massa stimata di cento volte il Sole.
È circondata da una nube di gas densi e in espansione, che emette, potremmo dire, negli spasimi dell'agonia. E ciò che più conta è che è soggetta a variazioni marcate e irregolari della luminosità, che possono essere dovute sia alla pulsazione sia al fatto che la vediamo a volte attraverso squarci della nube che la circonda.
Però, è molto luminosa. Nel 1840 era la seconda stella, per luminosità, dopo Sirio (sebbene Eta Carinae sia un migliaio di volte più lontana da noi di Sirio).
In questo periodo Eta Carinae è molto fioca e non è visibile a occhio nudo. Le sue radiazioni vengono assorbite dalla nube di gas, che le riemette sotto forma di raggi infrarossi. Si può valutare agevolmente l'enorme quantità di energia emanata da questa stella poiché le sue radiazioni infrarosse sono le più forti di tutto il cielo fuori dal nostro sistema solare.
Infine, gli astronomi hanno scoperto che nella nube emessa dalla stella compare anche l'azoto, che, secondo loro, è un indizio ulteriore dell'ultimo stadio prima della trasformazione in supernova. Ci sono perciò buone probabilità che Eta Carinae non duri più di 10.000 anni al massimo, ma potrebbe esplodere anche domani. Dal momento che la sua luce impiega 9.000 anni a raggiungerci, potrebbe essere già esplosa, e la luce dell'esplosione potrebbe essere già in viaggio verso noi. Gli astronomi aspettano.
Dov'è il trucco? In due punti.
Primo, Eta Carinae dista circa 2.750 parsec, cioè più di venti volte Betelgeuse, e la sua brillantezza verrebbe in qualche modo attenuata dalla distanza.
Secondo, la costellazione di Carina, è situata nel cielo meridionale, e la supernova, quando verrà, non sarà visibile dall'Europa e da buona parte degli Stati Uniti.
Ma non si può avere tutto.

FINE