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Urania - Racconti d'appendice
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TITAN CITY - Clark Ashton Smith
Titolo originale: The city of the singing flame
C.A. Smith, contemporaneo e amico di H.P. Lovecraft, era soprattutto autore di allucinate poesie quando, nell'estate del 1927, un'escursione nelle Sierras dell'Alta California lo mise di fronte al paesaggio di questo racconto. Il racconto fu poi pubblicato, in due parti, nel corso degli anni Trenta e ristampato dall'Arkam House nel 1942.
Prologo
All'epoca della sua scomparsa, circa due anni fa, Giles Angarth e io eravamo amici da oltre dieci anni, e nessuno lo conosceva meglio di me. Tuttavia l'evento non fu per me meno misterioso che per altri, e tale è rimasto fino a poco tempo fa.
Come molti, talvolta pensavo che lui ed Ebbonly avessero architettato tutto fra di loro, per fare una colossale burla, e che, ancora vivi da qualche parte, se la ridessero di quanti erano rimasti dolorosamente sconcertati per la loro scomparsa. Finché non decisi di recarmi a Crater Ridge per trovare i due massi di cui si accenna nel racconto di Angarth, nessuno aveva scoperto traccia dei due scomparsi, né aveva sentito la minima notizia che li riguardasse. Tutta quella storia pareva destinata a rimanere un rebus singolare ed esasperante.
Angarth, la cui fama come scrittore di narrativa fantastica era già considerevole, aveva passato l'estate sulla Sierra, da solo finché Ebbonly, il pittore, non l'aveva raggiunto. Ebbonly, che non avevo mai conosciuto, era noto per i suoi dipinti e disegni immaginosi, e aveva illustrato parecchi romanzi di Angarth.
Quando gli altri capeggiatori, allarmati per la prolungata assenza dei due uomini, avevano frugato la capanna alla ricerca di qualche indizio, avevano trovato sul tavolo un plico indirizzato a me. Quando lo ricevetti, avevo già letto parecchi articoli zeppi di ipotesi e speculazioni sulla doppia scomparsa. Il plico conteneva un taccuino rilegato in pelle, e sul risvolto Angarth aveva scritto: "Caro Hastane, se ti farà piacere, potrai pubblicare questo diario. La gente penserà che si tratti dell'ultimo e più fantastico dei miei racconti... a meno che non lo prendano per tuo. Andrà bene in ogni caso. Addio. Il tuo affezionato Giles Angarth".
Immaginando che il diario avrebbe certo incontrato la sorte da lui prevista, ed essendo io stesso in dubbio se fosse vero o inventato, ne ho ritardata la pubblicazione. Adesso, in base alla mia esperienza mi sono convinto della sua autenticità, quindi lo do alle stampe, insieme al resoconto delle mie personali avventure. Forse la doppia pubblicazione, preceduta com'è dal ritorno di Angarth al mondo di tutti i giorni, servirà a far accettare l'intera storia come qualcosa di più di una mera fantasia.
Richiamando però alla mente i miei vecchi dubbi, mi chiedo se... Ma sia il lettore a decidere.
Per cominciare, ecco il diario di Giles Angarth.
L'altra dimensione
31 luglio 1938. Non ho mai avuto l'abitudine di tenere un diario, soprattutto a causa della mia banale esistenza: raramente mi è successo qualcosa che valesse la pena di essere registrato. Ma ciò che è accaduto questa mattina è così bizzarro e stravagante, così lontano dalle leggi del mondo normale, così privo di possibili paragoni, che mi sento indotto ad annotare tutto, al meglio delle mie capacità. Inoltre, registrerò ogni possibile ripetizione e continuazione della mia esperienza. Potrò farlo con tutta tranquillità, dal momento che nessuno, leggendo queste mie note, sarà tentato di prestarvi fede...
Ero andato a fare un'escursione su Crater Ridge, che si trova a circa un chilometro e mezzo a nord della mia capanna, vicino a Summit. Pur differenziandosi notevolmente dal tipico paesaggio circostante, è una delle mie mete favorite. Si tratta di un luogo eccezionalmente brullo e desolato, dove l'unica vegetazione è costituita da girasoli di montagna, cespugli di ribes selvatico, pochi pini coriacei e piegati dal vento, flessibili larici.
I geologi negano che abbia origine vulcanica, tuttavia gli affioramenti di pietra ruvida e nodulare, gli enormi cumuli di pietrisco, hanno tutta l'aria di scorie laviche, almeno al mio occhio non scientifico. Sembrano il materiale di scarto di ciclopiche fornaci, che scaricato in epoche preumane si è raffreddato e solidificato in forme grottesche.
Fra di esse vi sono pietre che sembrano quasi frammenti di bassorilievi primordiali, o piccoli idoli preistorici; altre sembrano avere incise lettere indecifrabili, appartenenti a una lingua perduta. Inaspettatamente, a una delle estremità del lungo crinale arido, si scopre un piccolo lago, il cui fondo non è mai stato scandagliato. Crater Ridge costituisce un bizzarro intermezzo, fra le falde e i crepacci di granito, le gole fitte di abeti e le valli di questa regione.
Era una mattina limpida, senza vento, e spesso mi fermavo a contemplare il magnifico panorama dalle prospettive mutevoli: le titaniche muraglie di Castle Peak e le masse rozzamente squadrate di Donner Peak, con la fenditura del passo verdeggiante di cicuta, in lontananza, la. distesa azzurrognola delle montagne del Nevada, e nella vallata ai miei piedi, il verde pallido dei salici. Era un mondo sospeso, silenzioso. Unico suono, il frinire delle cicale fra i cespugli di ribes.
Procedetti per un certo tratto a zig-zag, e giunto su una delle distese pietrose che punteggiano la zona cominciai a scrutare il terreno, sperando di trovare qualche pietra bizzarra da conservare come curiosità; nelle mie precedenti escursioni ne avevo già trovate alcune del genere. D'improvviso, mi trovai in un punto assolutamente sgombro sia da sassi sia da vegetazione. Si trattava di uno spiazzo circolare, tanto preciso da sembrare artificiale. Al centro, a un metro e mezzo l'uno dall'altro, c'erano due massi isolati, di forma stranamente simile.
Mi fermai a osservarli. La pietra, opaca, grigio-verdastra, era diversa da tutte quelle circostanti, e io mi feci immediatamente l'idea bizzarra e ingiustificabile che si trattasse dei basamenti di colonne scomparse, consunti dall'incalcolabile trascorrere degli anni fino a ridursi a mozziconi affioranti. La circonferenza perfetta dello spiazzo e l'uniformità dei massi era strana, e benché io possegga un'infarinatura di geologia, non riuscii a riconoscere quella pietra liscia, setosa.
Sotto lo stimolo dell'immaginazione, mi lasciai andare a fantasticherie sfrenate. Ma la più folle fu soltanto una sbiadita banalità, paragonata a ciò che accadde quando feci un passo nello spazio vuoto fra i due massi. Cercherò di farne una descrizione precisa, benché la lingua umana manchi delle parole adeguate a indicare eventi e sensazioni che esulano dalla normale esperienza terrena.
Nulla è più sconcertante che calcolare male l'angolo di discesa al momento di fare un passo. Immaginate dunque quale effetto fa allungare il piede su un terreno piano, sgombro, e non trovare assolutamente niente sotto di sé! Mi sembrò di cadere in una voragine. Nello stesso istante il paesaggio di fronte a me svanì in un turbine di immagini frammentarie, e io mi ritrovai come cieco. Avvertii una sensazione di gelo intenso, un senso di vertigine e di malore indescrivibili si impossessarono di me, dovuti senza dubbio all'alterazione dell'equilibrio. Sia a causa della velocità con cui cadevo, sia per qualche ignota ragione, ero inoltre del tutto incapace di respirare.
Pensieri e sensazioni erano confusi, e per metà del tempo mi sembrò di cadere in su, o di scivolare orizzontalmente o secondo un angolo obliquo. Alla fine, dopo l'impressione di aver fatto una capriola, mi ritrovai in piedi su terreno solido senza aver avvertito la minima scossa. Riacquistai la vista, ma ero ancora stordito, per qualche secondo le immagini ottiche rimasero prive di significato.
Quando infine recuperai la percezione della realtà e fui in grado di guardarmi attorno con un minimo di consapevolezza, sperimentai la stessa confusione mentale di chi si trova catapultato senza preavviso su un altro pianeta. Avvertivo la sensazione di totale smarrimento che senza dubbio si proverebbe in una simile situazione; un vertiginoso, schiacciante sconcerto, una terrificante separazione da tutti i familiari dettagli ambientali che danno colore, forma e definizione alle nostre vite, e che perfino determinano la nostra personalità.
Mi trovavo al centro di un paesaggio che non aveva niente in comune con Crater Ridge. Era un lungo, lieve pendio, coperto di un'erba viola, e punteggiato a intervalli regolari da massicci monolitici. Il pendio digradava fino a un'ampia pianura, formata da campi aperti dall'andamento sinuoso e da foreste con alberi imponenti e sconosciuti, i cui colori predominanti erano il giallo e il porpora. La pianura pareva arrestarsi di fronte a una muraglia di nebbia impenetrabile, marrone-dorata, che si innalzava in eterei pinnacoli, per disperdersi infine in un cielo color ambra, luminoso ma senza sole.
Contro questo stupefacente scenario, a non più di tre o quattro chilometri di distanza, si stagliava una città, le cui torri massicce e i giganteschi bastioni di pietra rossa erano quali avrebbe potuto concepirli un architetto di un mondo sconosciuto. Muro su muro, spira su spira, si innalzalo va a sfidare il cielo, riuscendo sempre a mantenere le linee solenni e severe di un'architettura geometrica. Pareva sopraffare e schiacciare lo spettatore con la sua massa severa e imponente.
Mentre contemplavo quella città, dimenticai la mia iniziale sensazione di sconcerto e di straniamento, per cadere in preda a uno sgomento mescolato ad autentico terrore. E insieme provavo un fascino oscuro ma profondo, come per misteriosa emanazione di un incantesimo. Dopo essere rimasto per qualche tempo in contemplazione, la singolarità della mia impensabile situazione tornò a imporsi alla mia consapevolezza, e provai un disperato desiderio di fuggire dalla pazzesca e opprimente bizzarria di quel luogo, di tornare al mio mondo. Nel tentativo di combattere la mia ansia, cercai di capire, se possibile, ciò che era accaduto.
Avevo letto svariate storie di viaggi in altre dimensioni, anzi, io stesso ne avevo scritte un paio, e spesso avevo considerato la possibile esistenza di altri mondi, o piani di realtà, nello stesso spazio del nostro, invisibili e impalpabili ai sensi umani. Mi resi conto subito, naturalmente, di essere capitato in una di queste dimensioni. Senza dubbio, quando avevo fatto quel passo fra i due massi, ero precipitato in qualche piega nello spazio, per emergere sul fondo di quella sfera aliena, in un universo completamente diverso dal mio.
Sembrava semplice, in un certo senso, ma non tale da sciogliere un mistero capace di sconvolgere la mente. In un ulteriore tentativo di ricompormi, studiai con più attenzione gli immediati dintorni. Fui colpito dalla dislocazione delle pietre monolitiche, di cui molte erano disposte a intervalli regolari lungo due linee parallele che segnavano il fianco della collina come il tracciato di un'antica strada ormai ricoperta dall'erba color porpora.
Nel voltarmi per seguirne il corso dalla parte opposta, vidi due colonne, erette esattamente alla stessa distanza fra loro dei due massi del Crater Ridge, e fatte della stessa pietra levigata. Erano alte circa tre metri, ma un tempo la loro altezza doveva essere stata maggiore, dato che la sommità era scheggiata e spezzata. A breve distanza dalle colonne, il pendio svaniva alla vista, inghiottito da un esteso banco di nebbia simile a quella che avvolgeva la pianura. Ma non si scorgevano altri monoliti, e pareva che la strada terminasse a quelle due colonne.
Inevitabilmente, cominciai a speculare sulla relazione fra le colonne di questa nuova dimensione e i massi del mio mondo. Senza dubbio, la somiglianza non poteva essere puramente accidentale. Se fossi passato fra le colonne, sarei tornato nella sfera umana, con un processo inverso a quello precedente? E inoltre, da quali creature erano state erette le colonne e i massi, quelle porte che permettevano il passaggio fra due mondi? Chi aveva usato il passaggio, e con quale scopo?
La mia mente vacillava di fronte alle infinite congetture suscitate da simili domande. Tuttavia, quello che più mi preoccupava, era come tornare a Crater Ridge. La bizzarria della situazione, le spettacolari mura della città, le tinte e le forme innaturali del paesaggio, erano troppo per i nervi umani, e sentivo che se fossi stato costretto a restare più a lungo in quell'ambiente sarei impazzito. Inoltre, non potevo sapere quali forze o entità ostili avrei potuto incontrare, restando.
Il pendio e la pianura erano privi di vita animata, per quanto mi era dato vedere, ma la grande città ne lasciava intendere l'esistenza. A differenza degli eroi dei miei racconti, abituati a visitare la quinta dimensione o i mondi di Algol con assoluto sangue freddo, io non ero animato da spirito avventuroso, e mi ritraevo con timore istintivo di fronte all'ignoto. Con un'occhiata di paura all'imponente città e alla vasta pianura con la sua vegetazione rigogliosa, mi voltai e passai fra le colonne.
Di nuovo il tuffo istantaneo in un abisso gelido e oscuro e la stessa sensazione di precipitare sia in su sia in giù. Alla fine mi ritrovai, scosso e confuso, nello stesso punto dal quale avevo mosso il passo fra i due massi grigio-verdastri. Crater Ridge ondeggiava attorno a me come per effetto di un terremoto, e dovetti sedermi per un paio di minuti prima di ritrovare il mio equilibrio fisico e mentale.
Tornai alla mia capanna scosso e frastornato. L'esperienza vissuta mi sembrava, e mi sembra ancora, incredibile, irreale. Forse, scrivendone, riuscirò un poco a scuotermela di dosso. Mi ha sconvolto più di qualsiasi altra esperienza avuta, e il mondo che mi circonda adesso mi appare solo di poco meno improbabile e irreale di quello in cui ero penetrato in maniera tanto fortuita.
2 agosto. Ho meditato molto negli ultimi giorni, e più ci penso e mi sforzo di capire, più la faccenda mi appare misteriosa. Ammessa un'incrinatura nello spazio, che dev'essere un vuoto assoluto, impenetrabile all'aria, alla luce e alla materia, come mi è stato possibile caderci dentro? E poiché era successo, come ho potuto uscire da una sfera che non ha alcuna accertabile relazione con la nostra?
Ma dopo tutto, in teoria un processo dovrebbe essere facile quanto un altro. L'obiezione principale è: com'è possibile che uno si muova nel vuoto, verso l'alto, o verso il basso, all'indietro o in avanti? L'intera faccenda avrebbe sfidato la comprensione di un Einstein, e io non mi sono nemmeno avvicinato alla vera soluzione.
Inoltre, ho dovuto combattere la tentazione di tornare, anche solo per convincermi che mi era successo veramente ciò che ricordavo. Ma dopo tutto, perché non tornare? Mi è stata offerta una possibilità quale forse nessun uomo ha mai avuto, e le meraviglie che vedrò, i segreti che apprenderò, sono al di là di ogni immaginazione. Il mio timore, date le circostanze, è del tutto puerile...
La città dei titani
3 agosto. Questa mattina sono tornato, armato di revolver. Non sono passato esattamente in mezzo ai due massi, ed è senza dubbio per questo che la mia discesa è stata più lunga e impetuosa della prima volta, e mi è sembrata consistere soprattutto di una serie di capriole a spirale. Devo aver impiegato parecchi minuti a riprendermi dal senso di vertigine che ne seguì, e quando tornai in me mi trovai disteso sull'erba viola. Questa volta scesi il pendio senza esitazione, e tenendomi il più possibile al riparo della curiosa vegetazione gialla e porpora, mi diressi alla città titanica. Tutto era immobile; non un alito di vento spirava fra gli alberi bizzarri, che parevano imitare, nei loro tronchi, altissimi e verticali e nel fogliame orizzontale, le severe linee architettoniche dei ciclopici edifici.
Non mi ero allontanato di molto quando mi imbattei in una strada pavimentata da blocchi quadrati di pietra larghi almeno sette metri. La strada correva verso la città. Pensai che fosse completamente deserta, forse in disuso, e osai camminarci sopra fino a quando dietro di me non sentii un rumore, e voltandomi vidi avvicinarsi parecchi esseri singolari. Terrorizzato, corsi a nascondermi in un cespuglio, dal quale osservai il passaggio di quelle creature, chiedendomi se mi avessero visto. Apparentemente, la mia paura era infondata, perché non degnarono di un'occhiata il mio nascondiglio.
È difficile per me descriverle, o anche visualizzarle ora,.poiché erano totalmente diverse da ciò che siamo abituati a considerare umano o animale. Erano alte circa tre metri e si muovevano a passi lunghissimi che in pochi istanti le fecero sparire alla vista dietro una svolta della strada. I loro corpi erano lucidi, splendenti, come ricoperti da una specie di armatura, e le teste avevano lunghe appendici ricurve dalle tinte opalescenti che oscillavano come un fantastico piumaggio. Forse si trattava di antenne, o di organi di senso di tipo nuovo.
Tremando per l'eccitazione e la meraviglia, proseguii il mio cammino attraverso il sottobosco dai colori splendenti. Mi resi conto allora per la prima volta che non c'erano ombre. La luce proveniva da ogni direzione del cielo color ambra privo di sole, e diffondeva ovunque una luminosità morbida e uniforme. Immobilità e silenzio, nessuna traccia di uccelli, insetti o vita animale, in tutto il paesaggio soprannaturale.
Ma quando fui a un paio di chilometri dalla città (ammesso che si potesse giudicare la distanza, in un mondo dove tutto aveva dimensioni inusitate) avvertii qualcosa che dapprima fu come una vibrazione più che un suono. C'era una specie di fremito nei miei nervi, la sensazione inquietante che qualche forza o emanazione sconosciuta mi scorresse nel corpo. Percepii questa sensazione per qualche tempo, prima di sentire la musica, ma dopo averla sentita, i miei nervi uditivi la identificarono con le vibrazioni.
Era lontana, debole, e pareva emanare dal cuore stesso della città. La melodia aveva una dolcezza struggente, e ricordava a tratti il canto di una sensuale voce femminile. Ma nessuna voce umana avrebbe potuto raggiungere quegli acuti impossibili, né sostenere tanto a lungo quelle note che suggerivano la luce di mondi e stelle remote trasfusa in suono.
Di solito non sono molto sensibile alla musica, e a volte mi hanno rimproverato per le mie blande reazioni ad essa. Avanzai ancora un poco, e mi resi conto che i suoni lontani cominciavano ad esercitare su di me un singolare incantesimo, mentale ed emotivo. Avevano un fascino simile a quello delle sirene, che mi attirava facendomi dimenticare la singolarità del luogo, e i potenziali pericoli della mia situazione; provavo una lenta intossicazione del cervello e dei sensi, simile agli effetti di una droga.
In qualche insidiosa maniera, la musica mi infondeva l'idea di uno spazio e di un'altezza immensi ma raggiungibili, di una libertà e di un'esaltazione sovrumane; sembrava promettere tutti gli impossibili splendori che la mia immaginazione aveva solo vagamente sognato...
La foresta giungeva fin quasi alle mura della città. Spiando da dietro l'ultima striscia di boscaglia, vidi le imponenti merlature dominare il cielo sopra di me, e osservai le giunzioni impeccabili dei blocchi di pietra. La grande strada arrivava a una porta aperta, grande a sufficienza per un gigante. Non si vedevano sentinelle, e mentre guardavo, parecchie di quelle creature scintillanti passarono sulla strada ed entrarono.
Dal punto in cui mi trovavo era impossibile vedere oltre la porta a causa dell'eccezionale spessore delle mura. La musica sgorgava dall'ingresso alla città con un flusso sempre più intenso, e mi attirava con la sua arcana seduzione facendomi anelare cose immaginabili. Era difficile resistere, difficile appellarsi alla forza di volontà e tornare indietro.
Cercai di concentrarmi sull'idea del pericolo... ma era un pensiero lontano, irreale.
Alla fine mi strappai di lì e tornai sui miei passi, lentamente, con riluttanza, finché non fui oltre la portata della musica. Anche allora, i suoi effetti rimasero, come i postumi di una narcosi e per tutto il ritorno ebbi la tentazione di voltarmi e seguire i giganti nella città.
5 agosto. Ho visitato un'altra volta la nuova dimensione. Credevo di poter resistere al richiamo della musica, e mi ero portato anche batuffoli di cotone da mettermi nelle orecchie caso mai mi avesse influenzato troppo. Cominciai a sentire la melodia alla stessa distanza della volta precedente, e fui attratto nella stessa maniera. Ma questa volta, entrai nel castello.
Riuscirò a descrivere quella città? Mi sentivo come una formica, mentre mi muovevo per le strade immense, in mezzo alla Babele smisurata degli edifici e dei porticati. Ovunque, colonne, obelischi, pilastri che sostenevano strutture simili a templi, tali da far impallidire quelli di Tebe o di Eliopoli. E la gente! Com'è possibile descriverla, darle un nome?
Le creature splendenti viste la prima volta non sono i veri abitanti della città ma visitatori, forse provenienti da qualche altro mondo o dimensione come me. I veri abitanti sono anch'essi giganti, ma si muovono lentamente, a passi solenni, ieratici. I loro corpi sono nudi e di colore scuro, i loro arti ricordano quelli delle cariatidi: sufficientemente massicci da poter sorreggere i tetti e le travi dei loro edifici. Temo che le parole usate per descriverli diano l'idea di qualcosa di mostruoso, rozzo, mentre questi esseri non lo sono: semplicemente rispondono a leggi evolutive diverse dalle nostre, alle condizioni e alle forze di un mondo diverso.
Per qualche ragione, non provavo paura vedendoli. Forse la musica mi aveva drogato fino al punto da farmi superare ogni timore. Un gruppo, appena oltre la porta, non sembrò prestarmi la minima attenzione mentre passavo. I loro grandi occhi, opachi e neri come inchiostro, erano impassibili come gli occhi intagliati di androsfingi, e dalle loro labbra spesse, dritte e immobili, non usciva alcun suono. Forse mancavano dell'udito. Nelle loro teste semi-rettangolari niente faceva pensare a orecchie.
Seguii la musica, ancora lontana ma che pareva essersi fatta un poco più forte. Presto venni raggiunto da parecchi di quegli esseri già incontrati in precedenza. Mi superarono rapidamente e sparirono nel labirinto di edifici. Dopo di questi, giunsero altre creature meno gigantesche, e prive delle elitre, o armature che fossero. Poi, sopra la mia testa, giunsero volando appaiate due creature con lunghe ali traslucide, color sangue, con intricate venature, e scomparvero dietro agli altri. Le loro facce, dotate di organi dall'uso incomprensibile, non erano quelle di animali, e io avevo la certezza che si trattasse di esseri giunti a un alto grado evolutivo.
Vidi centinaia di quelle entità solenni, dai movimenti lenti, che avevo identificato come i veri abitanti della città, ma nessuno di loro si curò di me. Senza dubbio erano abituati a vedere specie viventi assai più bizzarre e insolite dell'uomo. Mentre camminavo, venni raggiunto da decine di creature dall'aspetto curioso che andavano nella mia stessa direzione, come attirati da un canto di sirena.
Continuai ad addentrarmi nella foresta di edifici, guidato dalla musica remota, eterea e oppiacea. Presto notai una sorta di rifluire nel suono, che si ripeteva nell'arco di una decina di minuti e che per gradi impercettibili divenne più dolce e più vicino. Mi chiesi come poteva penetrare quel labirinto di pietra sino a farsi udire oltre le mura...
Percorsi chilometri nella penombra incessante delle strutture rettangolari che mi sovrastavano, fino a un'altezza spaventosa nel cielo color ambra. Alla fine, giunsi al cuore e al segreto di tutto. Preceduto e seguito da una quantità di quegli esseri chimerici, sbucai in una grande piazza, al cui centro sorgeva un edificio più grande di tutti gli altri. La musica fluiva acuta e potente da un portale adorno di colonne.
Provai il brivido di chi si avvicina al sacello di un rito arcano quando entrai nel vestibolo di quell'edificio. Gente che doveva essere giunta da molti mondi e dimensioni diverse percorrevano con me il titanico colonnato dai pilastri incisi di rune indecifrabili e da enigmatici bassorilievi. Gli scuri, colossali abitanti della città stavano immobili o si muovevano intenti alle loro faccende, indifferenti al resto. Nessuno di quegli esseri parlava, né a me né fra di loro, e anche se qualcuno posava su di me lo sguardo, la mia presenza evidentemente veniva considerata normale.
Non ci sono parole per descrivere la meraviglia incomprensibile di quella scena. E la musica? Mi dichiaro incapace di darne un'idea. Era come se uno straordinario elisir fosse stato trasformato in onde sonore: un elisir capace di dare il dono di una vita sovrumana, e di assicurare gli splendidi sogni degli immortali. Il mio cervello affondava nell'ebbrezza, mentre mi avvicinavo alla fonte nascosta.
Non so quale oscura premonizione mi indusse a turarmi le orecchie con il cotone, prima di proseguire. Sentivo ancora la musica, e le sue peculiari, penetranti vibrazioni, ma il suono divenne ovattato, e da quel momento la sua influenza fu meno forte. Nessun dubbio che devo la vita a quella semplice precauzione.
La fila delle colonne divenne per un po' indistinta nella penombra, come se ci trovassimo all'interno di una lunga caverna di basalto; poco dopo, davanti a me, scorsi il bagliore di una luce che si rifletteva sul pavimento e sui pilastri. Ben presto si trasformò in un fulgore insostenibile come se nel cuore del tempio fossero state accese migliaia di lampade. Le vibrazioni della musica nascosta pulsavano con maggior forza nei miei nervi.
Il vestibolo terminava in una sala di vastità inconcepibile, il cui soffitto e le pareti sfumavano in una impenetrabile cortina di ombra. Al centro, nel pavimento di lastre titaniche, c'era un pozzo circolare sopra cui era sospesa una fontana di fiamme dal getto perpetuo che lentamente si allungava. La fiamma era l'unica fonte di luce, ed era anche la fonte della terribile musica ultraterrena. Pur con le orecchie rese sorde dal cotone, ero attratto dalla dolcezza stellare di quel canto; provavo un'attrazione voluttuosa, una vertiginosa esaltazione.
Capii subito che quello era un tempio, e che gli esseri transdimensionali che mi accompagnavano erano pellegrini. Ce n'erano a centinaia e tutti sembravano nani, nell'immensità di quella sala. Erano radunati di fronte alla fiamma in vari atteggiamenti di adorazione: le bizzarre teste chine, le mani non umane e intente a gesti misteriosi. E al canto della fiamma si mescolavano voci profonde come cupi tamburi o acute come gli stridii di insetti.
Preso dall'incantesimo, mi unii agli altri. Affascinato dalla musica e dalla fiamma, prestavo scarsa attenzione ai mie compagni alieni, come loro a me. La fontana di fuoco si alzò fino a riflettersi sulle membra e sui tratti di colossali statue in trono che si ergevano oltre le fiamme: statue di eroi, di dei o di demoni appartenenti agli antichi cicli di un tempo alieno, che fissavano con occhi di pietra da una penombra di imperscrutabile mistero.
La fiamma verde e abbagliante, pura come il cuore di una stella, mi accecava, e quando distolsi lo sguardo vidi l'aria percorsa da una mutevole ragnatela di colori intricati, dalle innumerevoli sfumature, che si sovrapponevano in arabeschi inusitati quali nessun occhio umano aveva mai contemplato. Avvertii un calore stimolante che mi penetrò fin nelle fibre più intime.
Il richiamo della fiamma
La musica cresceva insieme alla fiamma, e finalmente compresi la ragione del suo periodico alzarsi ed abbassarsi. Mentre guardavo e ascoltavo, un pensiero folle si formò nella mia mente: quanto sarebbe stato meraviglioso, estasiante, tuffarsi nella fiamma che cantava. La musica sembrava dirmi che in quell'istante di splendente annientamento avrei provato tutte le delizie e le bellezze, gli splendori e l'esaltazione che mi erano stati promessi. Mi chiamava, mi implorava coi toni di una sovrannaturale melodia, e malgrado i tamponi nelle orecchie, la seduzione era quasi irresistibile.
Tuttavia, non mi aveva privato del tutto del raziocinio. Con un sussulto, come chi è stato sul punto di gettarsi in un precipizio, mi ritrassi. Poi mi resi conto che lo stesso, terribile impulso si era impossessato di alcuni fra i miei compagni. Le due entità dalle ali scarlatte, di cui ho già parlato, stavano un po' in disparte dagli altri. D'improvviso, con un gran sbattere d ali, si levarono e si diressero verso la fiamma, come falene attirate dalla candela. Per un istante, la fiamma brillò rossastra attraverso le loro ali, poi le due creature sparirono nella pulsante incandescenza, che ebbe un attimo di maggiore splendore.
Poi, in rapida successione, altri esseri, che rappresentavano le più diverse tendenze di sviluppo biologico, corsero a immolarsi nella fiamma. Creature dai corpi semitrasparenti, altre che brillavano in tutte le sfumature dell'opale, colossi alati e titani che avanzavano come se calzassero gli stivali delle Sette Leghe e una creatura dotata di inutili ali rattrappite, che strisciava più che correre, in cerca del medesimo fulgente destino degli altri. Ma fra loro non c'erano gli abitanti della città: questi si limitavano a guardare, impassibili come sempre.
Notai che la fontana, raggiunta la sua massima altezza, aveva cominciato ad abbassarsi. Con continuità, ma lentamente, si ridusse a metà della sua precedente altezza. Durante quest'intervallo, non ci furono altri sacrifici spontanei, e parecchi degli esseri al mio fianco si voltarono bruscamente e se ne andarono, come se si fossero liberati del fatale incantesimo.
Nell'andarsene, una delle alte creature coperte dall'armatura mi rivolse parole simili a note di tromba, con un tono inconfondibile di avvertimento. Grazie a un grande sforzo di volontà, in un tumulto di emozioni in conflitto, la seguii. A ogni passo, la follia e il delirio della musica lottava con i miei istinti di autoconservazione. Più volte fui sul punto di tornare indietro. Così, il mio viaggio di ritorno verso casa fu confuso e dubbioso, come il vagare di chi è in preda ai fumi dell'oppio. E la musica cantava alle mie spalle, dicendomi delle beatitudini che avevo perso, del fiammeggiante annientamento il cui breve istante era meglio di secoli di vita mortale...
9 agosto. Ho cercato di scrivere un nuovo racconto, ma non ho fatto progressi. Tutto ciò che riesco a immaginare, o a scrivere, mi sembra piatto e puerile di fronte al mondo di insondabile mistero di cui ho scoperto l'ingresso. La tentazione di tornare là è più forte che mai; il richiamo di quella musica è più dolce della voce di una donna amata. E sempre mi tormenta il mistero di questa nuova dimensione, e mi eccita il poco che ho percepito.
Che forze sono queste, la cui esistenza e il cui agire ho soltanto intuito? Chi sono gli abitanti della città? E chi sono gli esseri che vanno in visita alla fiamma? Quali voci o leggende li hanno attirati da reami sperduti e pianeti lontani fino a quel luogo di pericolo e di distruzione? E cos'è la fontana, quale il segreto del suo richiamo e del suo canto?
Questi problemi aprono infinite ipotesi, ma nessuna concepibile soluzione.
Ho intenzione di tornarci... ma non da solo. Qualcuno deve venire con me, come testimone della meraviglia e del pericolo. È tutto troppo straordinario perché si possa crederlo. Ho bisogno di una testimonianza umana di quanto ho visto, provato, congetturato. Inoltre, un altro potrebbe comprendere quello che io ho soltanto intuito.
Chi porterò con me? Dovrà essere qualcuno ricco di senso estetico e di capacità intellettuali. Devo chiederlo a Philip Hastane, il mio amico scrittore? Temo che sia troppo occupato. C'è anche Felix Ebbonly, il pittore californiano che ha illustrato alcuni dei miei romanzi fantastici...
Ebbonly è l'uomo adatto per apprezzare la nuova dimensione, se potrà venire. Con la sua inclinazione per il bizzarro e il soprannaturale, lo spettacolo della pianura, della città, del tempio della Fiamma, lo affascinerà. Gli scriverò immediatamente, al suo indirizzo di San Francisco.
12 agosto. Ebbonly è qui: i misteriosi accenni della mia lettera, che parlava di nuovi soggetti pittorici del genere a lui caro, sono stati stimolanti per lui. Adesso gli ho spiegato tutto, e gli ho fatto un resoconto dettagliato delle mie avventure. È un po' incredulo, e io non posso biasimarlo. Ma non resterà incredulo a lungo, perché domani ci recheremo insieme alla Città della Fiamma che Canta.
13 agosto. Devo fare appello alle mie facoltà sconvolte, devo scegliere le parole con cura e cautela. Questa sarà l'ultima annotazione del mio diario, le ultime parole che mai scriverò. Quando avrò finito, impacchetterò il diario e lo indirizzerò a Philip Hastane, che potrà disporne a suo giudizio.
Oggi ho portato Ebbonly nell'altra dimensione. È rimasto impressionato, proprio come me, dai due massi isolati sul Crater Ridge. - Sembrano i resti di colonne innalzate da preumani - ha detto. - Adesso comincio a crederti.
Gli dissi di andar per primo, e gli indicai il punto esatto della porta. Lui obbedì senza esitazione, ed ebbi così la singolare esperienza di vedere un uomo svanire istantaneamente nel nulla. Lo seguii. Era in piedi sull'erba viola, muto, esterrefatto.
- Questa - mi disse, - è un tipo di cosa la cui esistenza avevo finora solo sospettato, ma che non ero mai riuscito neppure a suggerire nei miei più fantastici dipinti.
Parlammo poco, mentre seguivamo la doppia fila di massi monolitici fino alla pianura. Lontano, oltre gli alberi rigogliosi, i vapori bruno-dorati si erano diradati lasciando intravvedere a tratti l'orizzonte; e oltre l'orizzonte, si scorgevano file e file di sfere scintillanti e puntini infuocati che volavano nelle profondità del cielo color ambra. Era come se fosse stato sollevato il velo di un universo diverso dal nostro.
Attraversammo la pianura, e giungemmo a portata d'orecchio della musica fatale. Avvertii Ebbonly di mettersi il cotone nelle orecchie, ma lui rifiutò. - - Non voglio attutire le nuove sensazioni di cui farò esperienza - disse.
Entrammo nella città. Il mio compagno raggiunse il colmo del godimento artistico vedendo gli edifici e la gente. Ben presto mi accorsi che la musica si era impossessata di lui: il suo sguardo si era fatto fisso, sognante, come quello di un consumatore di oppio.
All'inizio fece commenti sull'architettura e sui vari esseri che ci passavano a fianco, richiamando la mia attenzione su dettagli che prima non avevo notato. Ma quando fummo più vicini al Tempio della Fiamma, il suo interesse sembrò svanire, sostituito da un'estasi interiore. Le sue osservazioni si fecero più rare, più brevi, e pareva non sentire neppure le mie domande. Era evidente che la musica l'aveva assorbito e stregato.
Come durante la mia prima visita, c'erano molti pellegrini diretti al tempio, e pochi che ne tornavano. Per lo più appartenevano a generi che avevo già visto. Fra i nuovi, ricordo una splendida creatura dalle ali dorate e cerulee come quelle di una gigantesca farfalla, e occhi scintillanti come gemme, che sembravano creati per contemplare le glorie di un mondo favoloso.
Anch'io provavo, come la prima volta, il fascino subdolo e magico, l'insidiosa, graduale perversione del pensiero e dell'istinto, come se la musica avesse sul mio cervello gli effetti di un insidioso alcaloide. Dal momento che avevo preso la solita precauzione, la mia soggezione alla musica, pur non totale come quella di Ebbonly, era lo stesso sufficiente a farmi dimenticare certe cose... fra cui la mia iniziale preoccupazione per il fatto che il mio compagno non aveva voluto prendere la mia stessa precauzione. Non pensavo più al suo pericolo, o al mio, se non come qualcosa di remoto, immateriale.
Le strade erano come il labirinto sconcertante di un incubo. Ma la musica ci guidava senza esitazioni, e c'erano sempre altri pellegrini. Come naufraghi in preda alla corrente, venivamo trascinati verso la nostra destinazione.
Mentre percorrevamo il vestibolo dalle colonne titaniche, la consapevolezza del pericolo si accentuò momentaneamente in me, e cercai ancora di mettere in guardia Ebbonly. Ma tutte le mie proteste e i miei consigli furono inutili: era sordo a tutto, completamente insensibile a ciò che non fosse la musica letale. La sua espressione e i suoi movimenti erano da sonnambulo. Anche quando lo afferrai, scuotendolo con tutta la forza che riuscii a radunare, continuò a mostrarsi inconsapevole della mia presenza.
Questa volta la folla degli adoratori era maggiore. Il getto di fiamma pura e incandescente si stava innalzando in maniera regolare quando entrammo, e cantava con l'estasi e l'ardore di una stella solitaria. Ancora una volta, in toni ineffabili, mi disse della beatitudine di una morte simile a quella di una falena, dell'esultanza e del trionfo di una momentanea fusione con l'essenza celeste.
La fiamma raggiunse l'apice, e anche per me il richiamo ipnotico era quasi irresistibile. Molti dei nostri compagni soccombettero, e il primo a immolarsi fu una creatura simile a una farfalla. Altre quattro, di diverse specie la imitarono in una successione rapida e impressionante.
Nella mia parziale soggezione alla musica, nello sforzo di resistere a quella mortale schiavitù mi ero quasi dimenticato di Ebbonly. Non ebbi neppure il tempo di pensare di fermarlo quando lo vidi correre a balzi insieme solenni e frenetici come l'inizio di una danza sacerdotale. Si gettò a capofitto nella fiamma. Il fuoco lo avvolse, per un istante avvampò con maggiore intensità, e fu tutto.
Lentamente, come se provenisse da un centro cerebrale atrofizzato, un senso di orrore si fece strada fino alla mia mente conscia, e mi aiutò ad annullare il pericoloso ipnotismo. Mi voltai, mentre altri stavano imitando l'esempio di Ebbonly, e fuggii. Ma mentre mi allontanavo, l'orrore diminuì; sempre più mi trovai a invidiare il fato del mio compagno, e a chiedermi quali potevano essere le sensazioni che aveva provato nell'istante di fiammeggiante annientamento.
Mentre scrivo queste righe, mi chiedo perché sono tornato al mondo umano. Le parole non servono a descrivere ciò che ho visto e sperimentato, e i cambiamenti che sono intervenuti in me sotto l'urto di forze incalcolabili, in un mondo di cui nessun altro mortale sospetta neppure l'esistenza. La letteratura non è che una pallida ombra. La vita, con la sua serie monotona e ripetitiva di giorni, adesso è irreale e priva di significato, a paragone della splendida morte che avrei potuto avere, la morte gloriosa che ancora mi attende.
Non ho più volontà di combattere la musica incessante che sento nella mente. E non mi sembra di avere ragione di farlo. Domani tornerò alla città.
Il terzo avventuriero
Anche dopo che io, Philip Hastane, ebbi letto e riletto tante volte il diario del mio amico Giles Angarth, da impararlo quasi a memoria, rimasi ancora in dubbio se gli eventi in esso narrati fossero finzione o verità. Le avventure transdimensionali di Angarth e Ebbonly; la Città della Fiamma, coi suoi strani abitanti e pellegrini; l'immolazione di Ebbonly, e l'intenzione espressa dal narratore di voler tornare con lo stesso scopo, nell'ultima annotazione del diario, assomigliavano molto al tipo di cose che Angarth avrebbe potuto immaginare in uno dei fantastici romanzi per i quali era diventato giustamente famoso. Aggiungete a questo la natura apparentemente impossibile e incredibile dell'intero racconto, e la mia esitazione nell'accettarlo come veridico potrà facilmente essere capita.
Sull'altro piatto della bilancia c'era l'enigma insoluto offerto dalla scomparsa dei due uomini. Entrambi erano ben conosciuti, uno come scrittore, l'altro come artista; entrambi erano in ottime condizioni economiche, senza preoccupazioni di sorta, e la loro scomparsa, tutto considerato, era difficile da spiegare in base a motivi meno straordinari o insoliti di quelli indicati nel diario. All'inizio, come ho accennato nella mia introduzione al diario, pensavo che tutta la faccenda potesse essere stata architettata come una complicata burla; ma questa teoria divenne sempre meno accettabile col passare delle settimane e dei mesi, fino a giungere a un anno dalla scomparsa dei presenti burloni.
Adesso, alla fine, posso testimoniare sulla piena verità di tutto quello che Angarth ha scritto... e anche più. Poiché anch'io sono stato ad Ydmos, la Città della Fiamma che Canta, e ho conosciuto l'estasi e la gloria soprannaturale della Dimensione Interna. E di tutto ciò devo raccontare, per quanto in maniera inadeguata e balbettante, con mere parole umane, prima che la visione svanisca. Poiché sono cose che né io né altri vedranno mai più.
Ydmos è ora in rovina; il Tempio della Fiamma è stato sventrato fino alle fondamenta, e la fontana della Fiamma che Canta è stata distrutta alla radice. La Dimensione Interna è perita come una bolla di sapone, nella grande guerra lanciata contro Ydmos dai governanti delle Terre Esterne...
Dopo aver finalmente messo da parte il diario di Angarth, non riuscii a togliermi dalla mente i problemi affascinanti che sollevava. Le visioni vaghe ma infinitamente suggestive aperte dal racconto erano tali da riaffacciarsi frequentemente alla mia immaginazione, con una promessa di segreti semisvelati. Ero disturbato dalla possibilità di qualche grande e mistico significato, di cosmiche realtà di cui il narratore aveva percepito solo il velo esterno. Col passare del tempo, mi trovai a meditare in continuazione sulla cosa, e venni sempre più preso da una meraviglia insopprimibile, il senso di qualcosa che nessun semplice inventore di finzioni letterarie avrebbe potuto costruire.
All'inizio dell'estate del 1939, dopo aver portato a termine un nuovo romanzo, mi sentii in grado di prendermi il tempo necessario per l'esecuzione di un progetto che molte volte avevo meditato. Dopo aver messo in ordine tutti i miei affari, e aver risposto alla corrispondenza in sospeso, nel caso non fossi più tornato, lasciai la mia casa di Auburn, ufficialmente per una vacanza di una settimana. In effetti mi recai a Summit, con l'intenzione di investigare da vicino l'ambiente nel quale Angarth ed Ebbonly erano spariti dal mondo dei vivi.
Con indescrivibile emozione visitai la capanna, a sud del Crater Ridge, che era stata occupata da Angarth, e vidi la rozza tavola di assi di pino sulla quale il mio amico aveva scritto il suo diario, e dove l'aveva lasciato, chiuso in un plico sigillato, perché mi venisse inoltrato dopo la sua scomparsa.
C'era un'atmosfera di cupa, inquietante solitudine in quel luogo, come se le infinità non-umane l'avessero già proclamato loro proprietà. La porta, che non era stata chiusa a chiave, si era incurvata per la pressione della neve accumulatasi durante l'inverno, mentre dalle fessure erano penetrati molti aghi di pino che adesso coprivano il pavimento. Per qualche ragione che non saprei dire, il racconto bizzarro di Angarth mi apparve più reale e credibile in quella capanna, come se un segno occulto di quanto era successo al suo autore aleggiasse ancora nell'aria.
Questa misteriosa sensazione si fece più forte quando andai ad esplorare Crater Ridge, alla ricerca, fra chilometri quadrati di detriti pseudo-vulcanici, dei due massi accuratamente descritti da Angarth come simili alle basi di due colonne in rovina. Seguendo il sentiero verso nord, che egli doveva aver preso dalla capanna, e cercando di ripercorrere i suoi giri sulla lunga collina desolata, la esplorai accuratamente in ogni direzione, dal momento che lui non aveva specificato la localizzazione esatta dei massi. Dopo aver perso inutilmente due mattine in questo modo, ero quasi deciso ad abbandonare la ricerca, e mettere i due tronconi di colonne nel conto delle più perturbanti e ingannevoli fantasie di Angarth.
Dovette essere quell'intuizione informe e ossessiva, a cui ho fatto cenno, che mi fece riprendere le ricerche, la terza mattina. Questa volta, dopo aver attraversato più volte, avanti e indietro, la cima della collina, per un'ora o più, ed essermi insinuato in tortuose giravolte fra i cespugli di ribes selvatico e di girasole che crescevano lungo i fianchi polverosi, giunsi finalmente a uno spiazzo circolare, circondato da rocce, che mi era del tutto nuovo. Per qualche ragione, mi era sfuggito in tutti i miei precedenti giri. Era il luogo di cui mi aveva parlato Angarth; e con un brivido inesprimibile, vidi i due massi tondeggianti, consunti, situati al centro del cerchio.
Credo che tremassi un po' per l'eccitazione, mentre avanzavo per ispezionare le curiose pietre. Senza osare entrare nello spazio nudo e sassoso fra di essi, ne toccai uno con la mano, e ne ricevetti una sensazione di innaturale levigatezza e di freddo inesplicabile, considerando che i massi e il terreno attorno ad essi dovevano essere rimasti sotto il sole opprimente d'agosto per molte ore.
Da quell'istante, fui persuaso che il racconto di Angarth non era una mera favola. Per quale ragione dovessi sentirmi così sicuro, non saprei dirlo. Ma mi sembrava di essere alle soglie di un mistero ultraterreno, al confine di una regione non segnata sulle carte. Guardai le valli e le montagne familiari della Sierra, meravigliandomi che conservassero ancora i loro abituali contorni, che rimanessero tuttora immutate, malgrado la vicinanza di mondi alieni, non toccate dalla gloria luminosa delle arcane dimensioni.
Convinto di aver davvero trovato la porta fra i mondi, fui indotto a strane riflessioni. Cos'era, e dove si trovava, quest'altra sfera alla quale il mio amico aveva ottenuto l'ingresso? Era vicina, come una stanza segreta nella struttura dello spazio? O si trovava in realtà milioni o miliardi di anni luce lontano, sul pianeta di un'altra galassia?
Dopo tutto, poco o nulla conosciamo della reale natura dello spazio; e forse, in qualche maniera che non possiamo neppure immaginare, l'infinito in alcuni punti è ripiegato su se stesso, con scorciatoie dimensionali tali che la distanza per Algenib o Aldebaran non è che un passo. O forse, c'è più di un infinito. La fessura spaziale nella quale Angarth era caduto poteva essere una specie di super-dimensione, che abbreviava gli intervalli cosmici e collegava un universo con l'altro.
Tuttavia, a causa proprio della certezza di aver scoperto la porta fra le sfere, di poter seguire Angarth ed Ebbonly se l'avessi voluto, esitavo prima di fare l'esperimento. Ero preoccupato del mistico pericolo, dell'inconfutabile richiamo che aveva sopraffatto gli altri. Ero consumato dalla curiosità, da un avido, quasi febbrile desiderio di contemplare le meraviglie di quell'esotico reame, ma non intendevo restare vittima del potere morboso e del fascino della Fiamma che Canta.
Rimasi per lungo tempo a guardare gli strani massi e lo spazio sassoso che dava accesso all'ignoto. Alla fine me ne andai, avendo deciso di posporre la mia avventura fino al mattino seguente. Immaginando nella mia fantasia l'arcano destino verso il quale gli altri erano andati volontariamente, e perfino lietamente, devo confessare che ebbi paura. D'altro lato, ero attratto dal richiamo fatale che conduce un esploratore in luoghi lontani... e forse da qualcosa di più.
Quella notte dormii male, con la mente e i nervi eccitati da informi, lucenti premonizioni, da segnali di pericoli semicompresi, da splendori e vasti orizzonti. Di buona mattina, mentre il sole era ancora sospeso appena al di sopra delle montagne del Neva-da, tornai al Crater Ridge. Avevo un grosso coltello da caccia e un revolver Colt; attorno alla vita avevo un cinturone pieno di munizioni, e una sacca contenente panini e un thermos pieno di caffè. Prima di partire mi ero riempito le orecchie con cotone imbevuto di un nuovo liquido anestetico, moderato ma efficace, che sarebbe servito a rendermi completamente sordo per molte ore. In questa maniera pensavo che sarei stato immune agli effetti ipnotici della musica della fontana di fuoco. Scrutai l'aspro paesaggio e il vasto panorama, chiedendomi se l'avrei più rivisto. Quindi, risolutamente, ma con il brivido di chi si getta in un abisso senza fondo, feci un passo fra i massi grigio-verdastri.
Le mie sensazioni, in linea di massima, furono simili a quelle descritte da Angarth nel suo diario. Il buio, e un vuoto senza limiti sembrarono avvolgermi in un turbine vertiginoso, come un vento impetuoso o un gorgo d'acqua, e precipitai in una discesa a spirale, la cui durata non sono mai stato in grado di determinare. Mi sentivo soffocare, e non avevo neppure la possibilità di tirare un respiro nel vuoto gelido e privo d'aria che mi raggelava i muscoli e le ossa; sentivo che avrei perso conoscenza da un momento all'altro, e che sarei sceso nell'abisso più grande della morte e dell'oblio.
Qualcosa parve arrestare la mia caduta, e mi resi conto di essere immobile, anche se fui disturbato per qualche tempo da uno strano dubbio, se cioè la mia posizione fosse orizzontale, capovolta o verticale, in relazione alla sostanza solida che i miei piedi avevano incontrato. Poi l'oscurità si sollevò lentamente come una nube che si dissolva, e vidi il pendio d'erba viola, le file di monoliti che scendevano dal punto dove io mi trovavo, e le colonne grigio-verdi vicino a me. Più oltre, c'era la città titanica di pietra rossa, che dominava al di sopra della vegetazione alta e multicolore della pianura.
Era tutto molto simile a come Angarth l'aveva descritto; ma anche in quel momento, mi resi conto di certe differenze che non erano immediatamente e chiaramente definibili, dettagli ed elementi atmosferici alle quali le sue descrizioni non mi avevano preparato. Ma in quel momento ero troppo disorientato e sopraffatto da quella visione per fermarmi a meditare sul carattere di queste differenze.
Mentre contemplavo la città, con le sue merlature sovrapposte, la moltitudine di guglie svettanti, sentii i fili invisibili di una segreta attrazione, venni afferrato da un desiderio irresistibile di conoscere i misteri nascosti dietro quelle mura massicce e la miriade di edifici. Un momento dopo, la mia attenzione venne attratta dal remoto orizzonte come per qualche impulso opposto, la cui natura e le cui origini erano inconoscibili.
Doveva essere a causa del fatto che mi ero formato un'immagine così chiara e definita della scena in base alla narrazione del mio amico, che rimasi sorpreso e anche un po' disturbato, come da qualcosa di sbagliato, quando vidi a grande distanza le torri scintillanti di quella che sembrava un'altra città... una città di cui Angarth non aveva scritto. Le torri si levavano in file serrate, allargandosi per molti chilometri in una curiosa conformazione ad arco, ed erano nettamente definite contro una massa di nuvole nerastre che si stavano allargando nel luminoso cielo color ambra in filamenti striscianti, come una cupa, sinistra ragnatela.
Un'inquietudine e una sottile repulsione parevano emanare dalle lontane guglie lucenti, proprio come dalla città più vicina giungeva un richiamo seducente. Le vidi pulsare e vibrare di una luce maligna, come cose vive, grazie a quello che pensavo fosse un effetto dovuto all'atmosfera. Poi, per un istante, la nuvola nera dietro di loro brillò di un cupo color cremisi per tutta la sua estensione, e anche i filamenti striscianti si trasformarono in vivide dita di fuoco.
Il colore svanì, lasciando la nuvola inerte e scura come prima; ma da molte delle torri più avanzate erano scoccate linee di fiamma rossa e violetta, come lance scagliate contro la pianura davanti ad esse. Brillarono per almeno un minuto, muovendosi
lentamente su un ampio arco, prima di svanire. Negli spazi fra le torri, distinsi ora una moltitudine di particelle luminose, in continuo movimento, come un'armata di atomi, e mi chiesi se per caso non fossero esseri viventi. Se l'idea non fosse apparsa così fantastica, avrei potuto giurare che la lontana città avesse già cambiato posizione e stesse avanzando verso l'altra, sulla pianura.
Verso il giudizio finale
A parte l'illuminarsi delle nuvole, le fiamme sgorgate dalle torri, e il tremolio che ritenevo essere un fenomeno di rifrazione, l'intera scena davanti ai miei occhi era innaturalmente immobile. Nella strana aria color ambra, sull'erba viola, sulle foglie rigogliose degli altissimi alberi, si stendeva la calma mortale che precede lo scatenarsi di un tifone o di un cataclisma sismico. Il cielo cupo emanava un presagio di minaccia cosmica, e sembrava sotto il peso di un'indefinita disperazione.
Allarmato da questa minacciosa atmosfera, guardai i due pilastri che secondo Angarth costituivano il passaggio per tornare al mondo umano. Per un istante fui tentato di tornare indietro. Poi mi voltai ancora una volta verso la vicina città, e i miei sentimenti vennero sopraffatti da un reverenziale timore. Sentii il brivido di una profonda, soprannaturale esaltazione di fronte alla grandezza dei giganteschi edifici; un incantesimo irresistibile venne gettato su di me dalle stesse linee della loro costruzione, dalle armonie di una solenne musica architettonica. Dimenticai il mio impulso di tornare a Crater Ridge e mi avviai lungo il pendio, verso la città.
Ben presto i rami della foresta gialla e porpora si inarcarono sopra di me, come navate costruite da titani, con le foghe che disegnavano arabeschi contro il cielo intenso. Al di là di essi, di tanto in tanto, scorgevo i bastioni della mia meta; ma guardando in direzione dell'altra città, sull'orizzonte opposto, mi accorsi che le sue torri fiammeggianti erano sparite alla vista.
Però la massa di nuvole scure si era alzata nel cielo, e ancora una volta si illuminò di un bagliore rossastro, maligno, come se fosse percorsa da lampi ultraterreni; e anche se non potevo sentire nulla, il terreno sotto i miei piedi tremava per le lunghe vibrazioni del tuono. C'era in quelle vibrazioni una bizzarra qualità, che sembrava mettermi allo scoperto i nervi e mi faceva digrignare i denti con il suo pulsare discorde e lancinante, doloroso come vetro spezzato o come il tormento della ruota.
Come Angarth prima di me, giunsi alla strada ciclopica. Seguendola, nella calma succeduta ai tuoni, avvertii un'altra, più sottile vibrazione, che capii essere quella della Fiamma che Canta nel tempio al centro della Città. Sembrava blandirmi ed esaltarmi, e mi spingeva avanti, per cancellare con morbide carezze il dolore che ancora restava nei miei nervi per le pulsazioni dolorose dei tuoni.
Non incontrai alcuno sulla strada, e nessuno dei pellegrini transdimensionali menzionati da Angarth mi superò; e quando i bastioni sovrapposti ebbero superato l'altezza degli alberi più alti, e io uscii dalla foresta per trovarmi alla loro ombra, vidi che la grande porta della città era chiusa, senza neppure una fessura attraverso la quale un pigmeo come me potesse ottenere l'ingresso.
Con un profondo, peculiare sconforto, quale si può provare in un sogno che si sia volto al peggio, fissai la nerezza cupa e inamovibile della porta, che sembrava forgiata da un'enorme lastra di metallo opaco e scuro. Poi alzai lo sguardo alla liscia muraglia, che si innalzava come una rupe, e vidi che il parapetto appariva deserto. Forse la città era stata abbandonata dalla sua gente, dai guardiani della Fiamma? Era stata chiusa ai pellegrini che venivano da terre lontane ad adorare la Fiamma e ad immolarsi a essa?
Con curiosa riluttanza, dopo essere rimasto lì parecchi minuti in una sorta di stupore, mi voltai per tornare indietro. Nel corso del mio viaggio, la nuvola nera si era avvicinata in maniera incommensurabile, e adesso oscurava metà del cielo con due mostruose appendici simili ad ali. Era una vista sinistra e terribile.
Si illuminò di nuovo di quella luce minacciosa, rabbiosa, con un'esplosione che si abbatté sulle mie orecchie sorde come un'onda di forza disgregatrice, e sembrò lacerare le fibre più intime del mio corpo.
Esitai, temendo che la tempesta si sarebbe scatenata su di me prima che avessi potuto raggiungere la porta interdimensionale, poiché vedevo che sarei stato esposto a uno scatenarsi degli elementi di natura sconosciuta e di suprema violenza. Poi, sospese di fronte alla nuvola incombente, e che si andava sempre più gonfiando, intravidi due creature volanti, che posso paragonare solo a gigantesche falene. Con ali luminose, dinanzi al fronte color ebano della tempesta, si avvicinavano a me con un volo regolare ma veloce, e sarebbero andate a sfracellarsi contro la porta chiusa, se non si fossero arrestate con una manovra improvvisa ma aggraziata.
Sbattendo appena le ali, discesero e si fermarono sul terreno vicino a me, reggendosi su zampe delicate, che alla giuntura del ginocchio lasciavano spuntare lunghe antenne e tentacoli ondeggianti. Le loro ali erano sontuose ragnatele di perla, opale e arancio; le loro teste erano circondate da una serie di occhi concavi e convessi, e sormontate da organi attorcigliati, simili a corna, dalle cui vuote estremità pendevano filamenti fluttuanti nell'aria. Rimasi sorpreso e scosso per il loro aspetto; ma in qualche modo, grazie a un'oscura telepatia, ero sicuro che le loro intenzioni verso di me fossero amichevoli.
Sapevo che volevano entrare in città, e che comprendevano la mia situazione. Tuttavia, non ero preparato a quello che successe. Con movimenti della più grande rapidità e grazia, uno degli esseri simili a falene mi si mise alla destra, e l'altro alla mia sinistra. Poi, prima che potessi anche sospettare le loro intenzioni, avvilupparono le mie membra e il mio corpo nei loro lunghi tentacoli, circondandomi più volte come con robuste corde e, trasportandomi fra di loro come se il mio peso fosse inesistente, si sollevarono in aria, verso l'altissimo parapetto!
Nella rapida ascesa senza sforzo, il muro pareva scivolare al nostro fianco, come un'ondata di pietra fusa. In preda alle vertigini, osservai i blocchi giganteschi scivolare verso il basso in rapida successione. Poi ci trovammo a livello dell'ampio parapetto, attraversammo i camminamenti vuoti e volammo al di sopra di uno spazio simile a un canyon, verso gli immensi edifici rettangolari e le innumerevoli torri quadrate.
Avevamo appena superato le mura, quando una luce inquietante, baluginante, venne gettata sugli edifici di fronte a noi da un altro lampeggiare della nuvola. Gli esseri simili a falene non vi prestarono apparentemente attenzione e continuarono a volare verso l'interno della città, con le strane facce rivolte alla meta invisibile. Ma voltando la testa in direzione della tempesta, vidi uno spettacolo straordinario e terribile. Oltre le mura della città, come se fosse stata creata dalla magia nera o dall'opera dei demoni, era apparsa un'altra città, e le sue alte torri si muovevano rapidamente verso di noi, sotto la cupola rosseggiante della nube incendiata!
A una seconda occhiata, mi accorsi che le torri erano identiche a quelle che avevo visto in lontananza, sulla pianura. Nel tempo che avevo impiegato ad attraversare la foresta, avevano percorso uno spazio di molti chilometri, per mezzo di qualche sconosciuto potere, e si erano fatte addosso alla Città della Fiamma.
Osservando più attentamente, per comprendere quale fosse il loro mezzo di locomozione, vidi che non erano montate su ruote, ma su corte gambe massicce, simili a colonne metalliche dotate di giunture, che le fa cevano sembrare goffi colossi i marcia. Ogni torre possedeva sei o più di queste gambe, e vicino alla cima c'erano file di grandi aperture simili ad occhi, dalle quali uscivano i raggi di fiamma rossa e violetta.
La foresta dai molti colori era stata bruciata da queste fiammate, in una scia di devastazione larga molti chilometri, fin sotto le mura, e non era rimasta che una striscia di deserto nero, da cui si alzava il vapore, fra le torri mobili e la città. Proprio mentre guardavo, i lunghi raggi di fiamma cominciarono ad assalire gli scoscesi bastioni, e sotto il loro calore i parapetti cominciarono a colare come lava. Era una scena terrificante e maestosa; ma un attimo dopo mi venne nascosta alla vista dagli edifici in mezzo ai quali ci eravamo tuffati.
Le grandi creature che mi trasportavano stavano volando con la velocità di aquile in prossimità del nido. Nel corso di quel volo, ero capace a stento di pensare razionalmente, o di esercitare la mia volontà; vivevo solo nella libertà senza fiato e vertiginosa del movimento aereo, una levitazione simile a un sogno al di sopra della labirintica, meravigliosa immensità di pietra. Mi mancava ogni conoscenza della maggior parte di ciò che vedevo in quella stupenda Babele di fantasia architettonica, e solo più tardi, alla luce più tranquilla dei ricordi, riuscii a dare una forma e un significato coerente a quelle immagini.
I miei sensi erano storditi dalla vastità e dalla stranezza della scena; mi rendevo solo confusamente conto del cataclisma che veniva scatenato contro la città alle nostre spalle, del destino a cui stavamo sfuggendo. Sapevo che quella guerra veniva condotta con armi e tecniche non terrene, da forze nemiche che non potevo neppure immaginare, per uno scopo assolutamente al di là della mia comprensione. Ma ai miei occhi, tutto quanto aveva i contorni confusi e il vago, impersonale orrore di una catastrofe cosmica.
Ci inoltrammo sempre più nella città. Grandi tetti piatti, balconate e terrazze scorrevano sotto di noi, e le strade sembravano torrenti oscuri ad un'enorme profondità. Severe guglie squadrate, monoliti rettangolari ci circondavano da tutte le parti; su alcuni dei tetti vidi i titanici abitanti della città che si muovevano lentamente, solennemente, o fermi in piedi in atteggiamento di rassegnazione e disperazione, con le facce rivolte verso la nuvola fiammeggiante. Erano tutti senza armi, e in nessun luogo vidi macchine che potessero essere usate come difesa.
Per quanto veloci volassimo, la nuvola era più veloce, e aveva ricoperto la città con una cupola oscura, che si illuminava a intermittenza, mentre i suoi filamenti stavano rinchiudendo tutto il cielo in una rete che ben presto avrebbe raggiunto l'estremo orizzonte. Gli edifici si oscuravano e illuminavano per i lampi frequenti, e in tutto il mio essere avvertivo il doloroso pulsare delle vibrazioni del tuono. Confusamente, compresi che le creature alate che mi trasportavano erano pellegrini diretti al Tempio della Fiamma. Sempre più divenni consapevole di un'influenza che doveva essere quella della musica stellare che emanava dal cuore del tempio. C'erano nell'aria morbide vibrazioni che lenivano lo spirito, che parevano assorbire e annullare la discordia lacerante dei tuoni. Sentii che entravamo in una zona di mistico rifugio, di siderale, celestiale sicurezza, e i miei sensi turbati furono insieme acquietati ed esaltati.
Le ali multicolori dei lepidotteri giganti cominciarono ad inclinarsi verso il basso. Davanti e sotto di noi, a una certa distanza, individuai una costruzione gigantesca che riconobbi immediatamente come il Tempio della Fiamma. Ci abbassammo sempre più nello spazio spaventoso della piazza circostante; quindi venni trasportato attraverso l'ingresso immenso, sempre aperto, e lungo l'alto vestibolo dalle mille colonne. Pregna di balsami sconosciuti, la penombra misteriosa ci circondò, e mi sembrò di entrare in una zona di interstellare infinità, di seguire una caverna sorretta da pilastri che conduceva al nucleo di qualche suprema stella.
Pareva che fossimo gli ultimi e i soli pellegrini, e che il tempio fosse stato abbandonato anche dai suoi guardiani, poiché non incontrammo nessuno per tutta l'estensione dell'oscuro colonnato. Dopo un po', la penombra cominciò a illuminarsi, e ci tuffammo in un raggio sempre più ampio di splendore, e quindi nella grande sala centrale in cui si levava la fontana di fuoco.
Ricordo solo un'impressione di ombre danzanti nello spazio, di una volta che si perdeva nell'azzurro infinito, di ciclopiche statue che guardavano in basso da altitudini himalaiane; e sopra tutto, l'accecante getto di fiamma che sorgeva dal pozzo nel pavimento e che si alzava nell'aria come l'estasi visibile degli dei. Ma tutto questo lo vidi solo per un istante. Poi mi resi conto che gli esseri che mi trasportavano stavano volando dritti verso la Fiamma, con le ah tese, senza la minima pausa né un attimo di esitazione!
La sfera interna
Non c'era posto per la paura, né tempo per il timore, nel turbinio caotico delle mie sensazioni. Ero stupefatto da quanto mi era successo, e inoltre l'incantesimo della Fiamma mi aveva conquistato, anche se non potevo sentire il suo canto fatale. Credo che lottai un po', per una specie di meccanica repulsione muscolare, contro le braccia tentacolari che mi avvolgevano. Ma i lepidotteri non mi prestarono attenzione; era evidente che erano consapevoli solo della fiamma e della musica seducente.
Ricordo tuttavia che non ebbi alcuna sensazione di calore, come ci si sarebbe potuto aspettare, avvicinandosi alla colonna di fuoco. Invece, avvertii in tutte le mie fibre la più ineffabile delle sensazioni, come se fossimo attraversati da ondate di energia celestiale e di estasi demiurgica. Poi entrammo nella Fiamma...
Come Angarth prima di me, avevo dato per scontato che il fato di tutti coloro che si tuffavano nella Fiamma fosse una istantanea anche se estatica distruzione. Mi aspettavo una dissoluzione brevissima e fiammeggiante, seguita dal nulla della distruzione completa. La cosa che in realtà avvenne era al di là della portata della più sfrenata speculazione, anche se per fornire una sia pur pallida idea delle mie sensazioni dovrei prosciugare le risorse della lingua.
La Fiamma ci circondò come una verde cortina, nascondendoci alla vista la grande sala. Poi mi parve di essere afferrato e trasportato ad altezze più che celesti, in un flusso ai forza quintessenziale, in un paradisiaco rapimento, in una luce che tutto illuminava. Mi sembrava, insieme ai miei compagni, di aver raggiunto una divina unione con la Fiamma: che ogni atomo dei nostri corpi avesse subito una trascendentale espansione e fosse dotato delle ali di un'eterea leggerezza.
Era come se non esistessimo più, se non come un'entità divina e indivisibile, che fluttuava al di sopra delle pastoie della materia, al di là dei limiti dello spazio e del tempo, per attingere a spiagge mai sognate. Inesprimibile era la gioia, e infinita la libertà di quell'ascesa, nella quale sembravamo oltrepassare lo zenith della stella più alta. Poi, nel giungere al culmine insieme alla Fiamma, nel sollevarci al suo stesso apice, ne emergemmo e ci fermammo.
I miei sensi erano indeboliti dall'esaltazione, i miei occhi ciechi per la gloria del fuoco; e il mondo su cui ora posavo gli occhi era un immenso arabesco di forme sconosciute e di sconcertanti colori, appartenenti a uno spettro diverso da quello cui sono abituati i nostri occhi. Ondeggiava di fronte ai miei occhi confusi come un labirinto di gioielli giganteschi, con cui si intrecciavano raggi di luce e intrichi di splendore, e solo poco alla volta potei stabilire un ordine e distinguere i dettagli nel tumulto delle mie percezioni.
Tutto attorno a me c'erano viali infiniti di opali superprismatici; archi e pilastri di gemme ultraviolette, di trascendente zaffiro, di ultraterreno rubino e ametista, tutti soffusi da un multiforme splendore. Mi sembrava di camminare su gioielli, sotto un cielo ingioiellato.
Finalmente, avendo ritrovato l'equilibrio, ed essendosi abituati i miei occhi a una nuova gamma di cognizioni, cominciai a percepire le reali caratteristiche del paesaggio. Con i due esseri simili a falene ancora al mio fianco, ero in piedi su un prato punteggiato da un milione di fiori, fra alberi paradisiaci, i cui frutti, foglie, fiori e tronchi, le cui stesse forme, erano al di là della concezione della vita tridimensionale. La grazia dei loro rami cadenti, delle loro fronde arabescate, era inesprimibile in termini di linee e contorni terrestri, e sembravano forgiati in una sostanza pura, eterea, semitrasparente alla luce empirea che era la causa dell'impressione di gioielli che avevo ricevuto all'inizio.
Respirai un'aria carica di nettare, e il terreno sotto i miei piedi era ineffabilmente morbido ed elastico, come se fosse formato da un tipo di materia superiore alla nostra. Le mie sensazioni fisiche erano di suprema leggerezza e benessere, senza alcuna traccia di stanchezza o nervosismo, quali ci si sarebbe aspettati dopo gli eventi straordinari e meravigliosi di cui ero stato protagonista. Non sentivo alcun senso di dislocazione mentale o di confusione; e oltre la mia capacità di riconoscere colori sconosciuti e forme non-euclidee, avvertii una bizzarra alterazione ed estensione del tatto, grazie alla quale mi pareva di poter toccare oggetti remoti.
Il cielo luminoso era pieno di soli dai molti colori, come quelli che possono brillare in un sistema solare multiplo, ma mentre guardavo, il loro splendore divenne più dolce, meno intenso, e la cristallina brillantezza degli alberi e dell'erba si attenuò, come per l'imminente tramonto. Ero al di là della sorpresa, perduto nella meraviglia e nel mistero senza limiti di quell'esperienza, e nulla forse mi sarebbe apparso incredibile. Ma se qualcosa avesse avuto la capacità di stupirmi, o di apparirmi incredibile, fu una faccia umana... la faccia del mio amico svanito, Giles Angarth, che emerse in quel momento dai gioielli della foresta, che stavano impallidendo, seguito da quella di un altro uomo, che riconobbi dalle fotografie come Felix Ebbonly.
Sbucarono da sotto quei rami splendidi e si fermarono di fronte a me. Entrambi indossavano vesti di un tessuto luminoso, più bello della seta orientale, di taglio e di foggia non terrestri. La foro espressione era insieme gioiosa e meditativa, e i loro visi avevano acquistato la stessa trasparenza che caratterizzava i frutti e i germogli eterei.
- Ti aspettavamo - disse Angarth. - Me l'aspettavo, che dopo aver letto il mio diario, saresti stato tentato dal fare lo stesso esperimento, se non altro per scoprire se quello che dicevo era verita o finzione. Questo è Felix Ebbonly, che non credo tu abbia mai conosciuto.
Fui sorpreso nell'accorgermi che potevo sentire la sua voce con perfetta chiarezza, e mi chiesi come mai gli effetti del cotone imbevuto di anestetico fossero svaniti così in fretta. Tuttavia tale dettaglio era privo di importanza di fronte al fatto stupefacente di aver trovato Angarth ed Ebbonly, e che loro, come me, fossero sopravvissuti all'estasi ultraterrena della Fiamma.
- Dove siamo? - chiesi, dopo averli salutati. - Confesso che non riesco assolutamente a capire cosa sia successo.
- Ci troviamo in quella che viene chiamata la Dimensione Interna - mi spiegò Angarth. - Si tratta di una sfera superiore di spazio, energia e materia, rispetto a quella in cui siamo stati precipitati da Crater Ridge, e l'unica via di accesso è attraverso la Fiamma che Canta, nella città di Ydmos. La Dimensione Interna nasce dalla fontana di fuoco, ed è mantenuta in vita da essa; coloro che si gettano nella Fiamma sono sollevati a questo piano superiore di vibrazioni. Per loro, i Mondi Esterni non esistono più. La natura della Fiamma medesima è ignota, si sa solo che si tratta di una fontana di pura energia che sgorga dalla roccia sotto Ydmos, e supera la comprensione mortale in virtù del suo stesso ardore.
Fece una pausa, e sembrò scrutare attentamente le due entità alate ancora ferme al mio fianco. Poi continuò.
- Io stesso non sono qui da tanto tempo da aver appreso molto, però ho scoperto alcune cose; io ed Ebbonly abbiamo stabilito una sorta di comunicazione telepatica con gli altri esseri che sono passati attraverso la Fiamma. Molti di loro non possiedono un linguaggio parlato, né hanno organi vocali, e i loro stessi schemi mentali sono radicalmente diversi dai nostri, a causa delle linee divergenti di sviluppo dei loro sensi, e delle diverse condizioni dei mondi da cui provengono. Ma siamo in grado di comunicare alcune immagini.
- Le persone che sono giunte con te stanno cercando di dirmi qualcosa - continuò. - Tu e loro, a quanto pare, siete stati gli ultimi pellegrini a entrare ad Ydmos e a raggiungere la Dimensione Interna. È in corso una guerra contro la Fiamma e i suoi guardiani da parte dei governanti delle Terre Esterne, perché troppi della loro gente hanno obbedito al richiamo della Fontana che Canta e sono svaniti. Le loro armate hanno circondato Ydmos, e ne distruggono i bastioni con i raggi di forza delle loro torri mobili.
Gli riferii quello che avevo visto, comprendendo ora molto di ciò che prima mi era stato oscuro. Angarth mi ascoltò gravemente, poi disse: - Da molto tempo si era temuto che prima o poi una guerra come questa sarebbe stata scatenata. Ci sono molte leggende nelle Terre Esterne riguardo la Fiamma e il fato di coloro che soccombono al suo richiamo, ma la verità non è conosciuta, o è indovinata solo da pochi. Molti credono, come io credevo, che la fine sia la distruzione; e da parte di alcuni che sospettano la sua esistenza, la Dimensione Interna è odiata come una cosa che attira oziosi sognatori lontano dalla realtà del mondo. È considerata una chimera letale e perniciosa, un mero sogno poetico o una specie di paradiso oppiaceo.
- Ci sarebbero mille cose da raccontarti circa la Sfera Interna, e le leggi e le condizioni dell'essere a cui ora siamo soggetti, dopo la riverberazione di tutti i nostri atomi nella Fiamma. Ma per il momento non c'è tempo di parlare, dal momento che è altamente probabile che ci troviamo tutti in un grave pericolo, che la stessa esistenza della Dimensione Interiore, sia minacciata dalle forze che stanno distruggendo Ydmos.
- Ci sono alcuni che dicono che la Fiamma sia inespugnabile, che la sua pura essenza è in grado di sfidare i colpi di qualsiasi energia inferiore, e quindi la sua fonte rimarrà impenetrabile ai lampi dei Signori Esterni. Ma la maggior parte temono il disastro, temono la fine della fontana medesima, quando Ydmos sarà rasa alle fondamenta.
- A causa di questo imminente pericolo, non possiamo indugiare più a lungo. C'è una via che permette il passaggio dalla Sfera Interiore a un altro e più remoto Cosmo, a un secondo infinito... un Cosmo mai immaginato dagli astronomi terrestri o da quelli dei mondi attorno a Ydmos.
- La maggior parte dei pellegrini, dopo un periodo di soggiorno qui, sono passati ai mondi di questo altro universo; io ed Ebbonly abbiamo atteso solo il tuo arrivo, prima di seguirli. Dobbiamo affrettarci, o sarà la nostra fine.
Mentre Angarth parlava, le due creature simili a falene, abbandonandomi apparentemente alle cure dei miei amici umani, si levarono nell'aria pura come un cristallo, e si lanciarono in volo al di sopra delle paradisiache prospettive, le cui contrade più lontane si perdevano nella luce. Angarth ed Ebbonly si erano messi ai miei fianchi, e mi presero ciascuno per un braccio.
- Cerca di immaginare di volare - disse Angarth. - In questa sfera, la lievitazione e il volo sono possibili attraverso la forza di volontà, e anche tu imparerai presto. Noi ti aiuteremo e ti guideremo fino a quando non ti sarai abituato e non avrai più bisogno di noi.
Obbedii al suo comando, e mi formai un'immagine mentale di me stesso nell'atto di volare. Rimasi stupito per la chiarezza e la verisimiglianza dell'immagine mentale, e ancor di più per il fatto che l'immagine stava diventando realtà! Con pochissimo sforzo, ma con la stessa sensazione che caratterizza i sogni, mi stavo sollevando dal terreno, scivolando con facilità e velocemente verso l'alto, attraverso l'aria luminosa.
Qualunque tentativo di descrivere la mia esperienza sarebbe destinato all'insuccesso, dal momento che sembrava che un'intera serie di nuovi sensi si fossero schiusi dentro di me, insieme a corrispondenti simboli mentali per i quali non ci sono parole nel linguaggio umano. Non ero più Philip Hastane, ma una creatura più grande, più forte, più libera, che si distingueva dal mio essere precedente quanto la personalità che si sviluppa sotto l'effetto dell'hashish o della kava. La sensazione dominante era di immensa gioia e liberazione, unita a una fretta imperiosa, alla necessità di fuggire in altri mondi, dove la gioia sarebbe continuata eterna e senza minacce.
Le mie percezioni visive, mentre volavamo al di sopra della foresta rilucente, erano contrassegnate da un intenso piacere estetico, tanto al di sopra del normale piacere offerto da immagini piacevoli, quanto le forme e i colori di quel mondo erano superiori alla capacità dei normali occhi. Ogni mutevole immagine era una fonte di vera e propria estasi; e l'estasi aumentò mentre l'intero paesaggio cominciò ad illuminarsi di nuovo, e tornava a quella lampeggiante, scintillante gloria che aveva quando l'avevo contemplato per la prima volta.
La distruzione di Ydmos
Ci sollevammo a una grande altezza, da dove potevamo contemplare innumerevoli chilometri di labirintica foresta, ampi campi lussureggianti, colline che si avvolgevano voluttuosamente, edifici maestosi, acque limpide come i laghi e i fiumi dell'Eden. Tutto pareva tremolare e pulsare, come una vivente, fulgida, eterea entità, mentre ondate di raggiante beatitudine passavano da un sole all'altro nel cielo incoronato di splendore.
Mentre il nostro volo continuava, mi accorsi, dopo un po', di un altro parziale affievolirsi della luce: un intristirsi sonnolento e sognante dei colori, seguito da un altro periodo di estatica luminosità. Il lento ritmo di questo processo sembrava corrispondere all'alzarsi ed abbassarsi della Fiamma, come Angarth l'aveva descritto nel suo diario, e sospettai che ci fosse qualche collegamento. Avevo appena formulato questo pensiero, che mi resi conto che Angarth stava parlando. Tuttavia, non sono sicuro se mi parlava o se le sue parole erano percepibili attraverso un senso diverso dall'udito. Comunque, potei comprendere il suo commento.
- Hai ragione. L'abbassarsi e l'innalzarsi della Fontana e della sua musica sono percepibili nella Dimensione Interna come un oscurarsi e un illuminarsi delle immagini visive.
Il nostro volo divenne più veloce, e io mi resi conto che i miei compagni stavano impiegando tutte le loro energie psichiche nello sforzo di raddoppiare la nostra velocità. Le terre sotto di noi divennero indistinte, in un torrente di colori, in un mare di fluente luminosità, e noi sembravamo schizzare come stelle nell'aria infuocata. L'estasi di quell'infinito galleggiare, l'ansia di quella rapida fuga da un destino sconosciuto, sono incomunicabili. Ma non le dimenticherò mai, e neppure la condizione di comunione e comprensione che esisteva fra noi tre.
Altri volavano vicino, sopra e sotto di noi: pellegrini di mondi nascosti e di occulte dimensioni, diretti come noi verso quell'altro Cosmo, di cui la Sfera Interna non era che l'anticamera. Questi esseri erano bizzarri e singolari al di là dell'immaginazione, nelle loro forme e attributi corporei; eppure io non pensavo minimamente alla loro estraneità, ma provavo verso di loro lo stesso senso di fratellanza che provavo per Angarth ed Ebbonly.
Mentre proseguivamo il nostro volo, mi pareva che i miei due compagni mi dicessero molte cose, comunicandomi, attraverso non so quali mezzi, molto di quanto avevano appreso durante la loro nuova esistenza. Con solenne urgenza, come se il tempo per fornirmi queste informazioni fosse breve, mi trasmettevano idee che non sarei mai stato in grado di capire in circostanze terrestri. Cose inconcepibili nell'ambito dei cinque sensi, o nei simboli astratti del pensiero matematico e filosofico, mi risultavano semplici.
Talune di queste informazioni, tuttavia, sono rozzamente trasmissibili, o suggeribili, attraverso il linguaggio. Mi venne svelato il graduale processo di iniziazione nella vita della nuova dimensione, dei poteri che acquisiva il neofita durante il periodo di adattamento, le varie recondite gioie estetiche sperimentabili attraverso una mescolanza e un moltiplicarsi di tutte le percezioni, il controllo che si può acquisire sulle forze naturali e sulla stessa materia.
Venni informato, inoltre, delle leggi che avrebbero controllato il nostro passaggio al Cosmo successivo, e che questo passaggio era difficile e pericoloso per chiunque non avesse vissuto per un certo periodo di tempo nella Dimensione Interna. Mi venne anche detto che nessuno poteva tornare al nostro piano da questo Cosmo superiore, così come nessuno poteva tornare attraverso la Fiamma Ydmos.
Angarth ed Ebbonly avevano vissuto abbastanza nella Dimensione Interna, mi dissero, per essere in grado di entrare nei mondi successivi; e pensavano anche che anch'io sarei riuscito a fuggire grazie al loro aiuto, anche se non avevano ancora sviluppato la facoltà dell'equilibrio spaziale necessaria a sostenere coloro che osavano affrontare da soli quel cammino con tutti i suoi terribili abissi. Esistevano infiniti, imprevedibili spazi, pianeti, universi, che potevamo raggiungere, fra i cui prodigi e meraviglie potevamo aggirarci infinitamente. In questi mondi, le nostre menti sarebbero state accordate alla comprensione di più grandi e più alte leggi scientifiche, di stati dell'essere al di là del nostro attuale ambiente dimensionale.
Non ho idea alcuna della durata del nostro volo, dal momento che come tutto il resto, anche il mio senso del tempo era completamente alterato e trasfigurato.
Ancor prima che giungessimo in vista di essa, una chiara immagine mentale della nostra destinazione si era formata nei miei pensieri, senza dubbio grazie a qualche forma di trasmissione del pensiero. Mi sembrava di vedere una stupenda catena di montagne, formata da una successione di picchi celestiali, più alti dei cumuli estivi sulla Terra; e al di sopra di essi, si innalzava un picco ultravioletto, la cui cima era avvolta in una nube spiraliforme, incolore, sfiorata da un senso di invisibili sovratoni cromatici, che sembravano scendere su di essa da cieli al di là dello zenit. La strada per il Cosmo Esterno era nascosta in quell'alta nube.
Continuammo il nostro volo; alla fine, la catena di montagne apparve all'orizzonte, e vidi il picco ultravioletto con la sua corona abbagliante. Ci avvicinammo, finché le strane volute di nuvole non furono quasi sopra di noi, innalzandosi fino al cielo e svanendo fra i soli multicolori; e vedemmo i pellegrini che ci precedevano mentre entravano nelle spire mulinanti.
In quel momento il cielo e il paesaggio stavano fiammeggiando al culmine della loro luminosità; bruciavano di mille colori, cosicché l'improvvisa e imprevista eclissi che si verificò fu ancor più completa e terribile. Prima che mi rendessi conto che mancava qualcosa, mi parve di udire un grido di disperazione da parte dei miei amici, che dovevano aver avvertito l'imminente calamità attraverso un senso più sottile di quelli che io possedevo. Poi, oltre la cima alta e luminescente della nostra destinazione, vidi alzarsi un muro di tenebre, terribile e istantaneo, reale e palpabile, che saliva dappertutto e nascondeva i soli iridati e il paesaggio multicolore della Dimensione Interna.
Rimanemmo sospesi, incerti, nell'aria scura, impotenti e senza speranza di fronte all'imminente catastrofe, e vedemmo che l'oscurità aveva circondato il mondo intero e ci stava venendo addosso da tutte le parti. Divorava il cielo, oscurava i soli, e l'immensa distesa sulla quale avevamo volato sembrava raggrinzirsi e restringersi come carta annerita dal fuoco. Per un terribile istante ci parve di attendere da soli, al centro della luce che svaniva, contro la quale le forze cicloniche della notte e della distruzione si avventavano con torrenziale rapidità.
Il centro si ridusse a un mero punto, poi l'oscurità fu su di noi come un uragano terrificante. Mi sembrò di affondare insieme ai relitti di mondi distrutti, in un mare ruggente di spazio e forza vorticosi, per precipitare in un pozzo infrastellare, in un estremo limbo in cui vengono gettati i frammenti di soli e di sistemi dimenticati. Dopo un tempo immisurabile, mi arrivò la sensazione di un impatto violento, come se fossi caduto in mezzo a questi frammenti, sul fondo della notte universale.
Riacquistai la conoscenza con un lento, disperato sforzo, come se fossi schiacciato sotto un peso immane, sotto i relitti inerti delle galassie. Alzare le palpebre mi sembrò richiedere una fatica titanica; il mio corpo e le mie membra erano pesanti, come se fossero stati trasformati in una materia più densa della carne umana, o fossero soggetti alla gravità di un pianeta più grande della Terra.
I miei processi mentali erano intorpiditi e dolorosi, confusi al massimo grado; ma finalmente mi resi conto che giacevo su una superficie irregolare e inclinata, fra blocchi giganteschi di pietra. Sopra la mia testa c'era la luce di un cielo livido, che scendeva fra mura crollate e spezzate, che non sorreggevano più la colossale cupola. Vicino a me, scorsi un pozzo fumante da cui si dipartiva un crepaccio irregolare, come se fosse stato provocato da un terremoto.
Per qualche tempo non riuscii a riconoscere il luogo; ma alla fine compresi che giacevo nel tempio in rovina di Ydmos, e che il pozzo da cui si alzava il vapore grigio e acre era quello da cui si era innalzata la Fiamma. Era una scena di distruzione prodigiosa e di devastazione: la furia che si era abbattuta su Ydmos non aveva lasciato alcunché in piedi.
Con uno sforzo erculeo, girai la testa dal pozzo fumante, i cui vapori pigri e sottili si libravano in spire fantasmagoriche, nel luogo dove si era innalzato lo splendore verde della Fiamma. Fu solo allora che mi accorsi dei miei compagni. Angarth, ancora insensibile, giaceva vicino a me, e appena oltre lui vidi la faccia pallida e contorta di Ebbonly, che aveva il tronco e gli arti inferiori schiacciati dal piedistallo spezzato di un pilastro.
Lottando in una specie di eterno incubo per scuotermi di dosso il peso plumbeo della mia inerzia, e riuscendo a muovermi solo con la più dolorosa lentezza, mi alzai in piedi e andai da Ebbonly. Capii alla prima occhiata che Angarth era illeso, e avrebbe presto riacquistato coscienza, ma Ebbonly, schiacciato dalla massa monolitica di pietra, stava morendo.
Cercò di sorridere, con una pietosa manifestazione di coraggio, mentre mi chinavo su di lui.
- È inutile... fra un momento sarò morto - sussurrò. - Addio, saluta Angarth per me.
Le sue labbra torturate si rilassarono, le palpebre si abbassarono, e la testa gli ricadde di lato. Con un senso di orrore irreale, come in un sogno, quasi senza emozione, mi resi conto che era morto. La stanchezza che mi possedeva ancora era troppo profonda per permettermi di pensare o provare qualcosa; era come la prima reazione che segue il risveglio dal torpore della droga. I miei nervi erano come fili bruciati, i miei muscoli erano morti e insensibili come argilla; la mia mente era incenerita, come se un grande incendio vi si fosse sviluppato.
In qualche maniera, dopo un intervallo di cui non so ricordare la lunghezza, riuscii a risvegliare Angarth, e lui si alzò, stordito e confuso. Quando gli dissi che Ebbonly era morto, le mie parole non sembrarono fare alcuna impressione su di lui, e per un po' mi chiesi se avesse capito. Finalmente, sollevandosi un poco, con evidente difficoltà, guardò il corpo del nostro amico, e parve rendersi conto in qualche modo dell'orrore della situazione.
- Vieni - dissi, cercando di mostrarmi fermo. - Dobbiamo andarcene.
- E dove? - chiese Angarth stancamente. - La Fiamma si è spenta alla fonte, e la Dimensione Interna non esiste più. Vorrei essere morto, come Ebbonly... e potrei benissimo esserlo, a giudicare da come mi sento.
- Dobbiamo ritrovare la strada per Crater Ridge - dissi. - E ci riusciremo, se la porta intradimensionale non è stata distrutta.
Angarth sembrò non sentirmi, ma mi seguì senza opporre resistenza quando lo presi per un braccio e cominciai a cercare un'uscita da quelle rovine.
I miei ricordi sul nostro ritorno sono incerti e confusi, pieni del tedio di un delirio interminabile. Ricordo di essermi voltato a guardare Ebbonly, che giaceva bianco e immobile sotto il pilastro massiccio, che gli sarebbe servito da eterno monumento, e ricordo le rovine immense della città, nella quale sembrava fossimo gli unici esseri viventi. Era una distesa caotica di pietre, di massi fusi simili a ossidiana, dove torrenti di lava fusa scorrevano ancora in giganteschi crepacci, o si riversavano come cascate in pozzi insondabili che si erano spalancati nel terreno. E ricordo di aver visto, fra le rovine, i corpi carbonizzati di quei colossi scuri che erano stati gli abitanti di Ydmos e i guardiani della Fiamma.
Come pigmei persi in una fortezza distrutta di giganti, avanzavamo faticosamente, soffocando fra vapori mefitici e acri, barcollando per la stanchezza, storditi dal calore che si levava dappertutto, in ondate che ci colpivano con violenza fisica. La strada era bloccata da edifici sventrati, da torri e mura crollate, sopra le quali dovevamo arrampicarci faticosamente e precariamente; e spesso eravamo costretti a lunghe deviazioni a causa di enormi fenditure che sembravano incrinare le fondamenta stesse del mondo.
Le torri mobili dei Signori dell'Esterno si erano ritirate, le loro armate erano sparite sulle pianure oltre Ydmos, quando giungemmo al dirupo informe e squarciato che era stato il bastione della città. Di fronte a noi c'era solo desolazione: una distesa annerita dal fuoco, coperta di vapori, sulla quale non rimaneva un solo albero o un filo d'erba.
Attraverso questa desolazione trovammo la strada fino al pendio di erba viola che si era trovato oltre la portata dei colpi degli invasori. Qui, la doppia fila di monoliti, innalzati da una gente di cui non avremmo mai neppure conosciuto il nome, dominavano ancora il deserto fumante e le rovine di Ydmos. E così, giungemmo nuovamente alle colonne grigioverdi che rappresentavano la porta fra i mondi.
FINE