Science Fiction Project
Urania - Asimov d'appendice
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CAOS = GAS - Isaac Asimov
Titolo originale: The properties of chaos
Nel lontano 1967 scrissi un libro sulla fotosintesi, e forse adesso qualcuno si chiederà cosa diavolo è la fotosintesi. In tal caso, abbiate fede, ve lo spiegherò prima della fine.
A quell'epoca diffidando di quella parola di cinque sillabe, pensai a un titolo dinamico, che attirasse l'attenzione del lettore e lo inducesse a comprare il libro, prima che l'incauto si rendesse conto che era pieno di biochimica, se pure di moderata difficoltà.
Non avendo ancora il titolo giusto in mente, ricorsi, per comodità, a Fotosintesi. Alla fine del lavoro, ero sempre senza titolo, e decisi di lasciare che se la sbrigasse l'editore.
Il libro uscì nel 1968, e quando ebbi tra le mani la copia fresca di stampa, scoprii, con un certo rammarico, che era intitolato Fotosintesi. E ripetuto ben quattro volte.
Domandai, trepidando, all'editore: - Ma tu speri di vendere un libro con quel titolo: Fotosintesi - Fotosintesi - Fotosintesi - Fotosintesi?
- Non hai notato nient'altro sulla sovraccoperta? - mi rispose.
- Che cosa? - chiesi, perplesso.
Mi indicò l'angolo in basso a destra, dove spiccava Isaac Asimov.
Come già saprete, sono sempre stato sensibile alle lusinghe, e così me ne andai, tutto sorridente. Il libro andò abbastanza bene, l'editore non ci rimise, ma, ad essere sinceri, non fu un best seller.
Mi è venuto allora in mente di riprendere l'argomento, con quello stile piacevolmente informale che uso in questi casi, ma stavolta ricorrerò a un titolo ad effetto, anche se ho il sospetto che da solo non assicurerà un successo travolgente a questo numero della rivista.
Cominciamo dalla faccenda del mangiare. Gli animali, il più insignificante vermiciattolo come le gigantesche balene, per vivere hanno bisogno di cibo, che è, essenzialmente, costituito di vegetali. Tutti noi, dallo sterminato numero di insetti ai miliardi di esseri umani, divoriamo incessantemente e senza rimorso vegetali, o animali che si nutrono di vegetali, o ancora animali che mangiano animali che vivono di vegetali, e così via.
Se risaliamo lungo la catena della vita animale, troveremo sempre, all'ultimo anello, il mondo delle piante.
Eppure il regno vegetale non diminuisce. Le piante continuano a crescere, esattamente come continuano a essere divorate, senza tregua e senza rimorsi; ma, anche a prima vista, ci accorgiamo che le piante non mangiano. Certo, hanno bisogno di acqua e a volte occorre aiutarle cospargendo il terreno di letame, ciò nonostante non si può dire che "mangiano", nel senso stretto della parola.
In epoca prescientifica, si credeva che le piante fossero totalmente diverse dagli animali. Anche le piante, è vero, crescevano come gli animali e nascevano dai semi, come gli animali dalle uova, ma si trattava di somiglianze del tutto superficiali.
Gli animali si muovono da soli, respirano, mangiano. Le piante, come le rocce, non fanno niente del genere. L'indipendenza dei movimenti, in particolare, era considerata una proprietà essenziale della vita, e dunque, mentre tutti gli animali erano evidentemente esseri viventi, le piante (come le rocce) non lo erano.
Questa, almeno, era la visione biblica del problema. Quando, nel terzo giorno della creazione, la terra emerse dalle acque, Dio disse: - Germini la Terra erbe verdeggianti e faccia seme e piante fruttifere. (Genesi, 1:11).
Nemmeno un accenno alla vita delle piante.
Bisogna aspettare il quinto giorno perché sia menzionata la vita. Allora Dio dice: - Producano le acque con abbondanza creature che si muovano ed hanno la vita... E Dio creò le grandi balene e tutti gli animali che hanno vita e moto... (Genesi, 1:20-21).
Gli animali sono esseri viventi, capaci di muoversi; e una cosa evidentemente implica l'altra. Le piante, invece, non lo sono.
Dio dice: - A tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sopra le terra e in cui c'è vita, ho dato l'erba verde da mangiare... (Genesi, 1:30). - In altre parole, gli animali che si muovono sono esseri viventi, mentre le piante, che non si muovono, sono il cibo offerto loro per grazia del Signore.
Essere erbivori rappresenta chiaramente l'ideale delle creature viventi. Il mangiar carne viene menzionato nella Bibbia solo dopo il Diluvio, quando Dio dice a Noè e ai sui figli: - Tutto quello che ha moto e vita sarà vostro cibo: io vi do tutte queste cose come le erbe verdeggianti. (Genesi, 9:3).
L'Occidente, in generale, ha seguito le parole della Bibbia (e non avrebbe potuto farne a meno, perché la Bibbia era la parola del Signore). La terra priva di vita e di nutrimento veniva, in certo senso, tramutata in piante che, pur non essendo esseri viventi, assicurano il nutrimento agli animali. I semi, una volta sparsi sul terreno, diventavano gli agenti attivi della conversione terra-pianta.
Il primo a verificare questa teoria sulla crescita delle piante fu un medico fiammingo, Jan Baptista van Helmont (1580-1644). Egli piantò un salice, del peso di due chili e mezzo, in un vaso contenente cento chili di terra. Lo lasciò crescere per cinque anni, bagnandolo regolarmente, e coprendo con cura la terra, tra una innaffiatura e l'altra, per evitare che qualche elemento estraneo inquinasse i risultati.
Dopo cinque anni, tolse dal vaso il salice, ormai cresciuto, e ne ripulì accuratamente le radici dalla terra. La pianta adesso pesava 84 chili e mezzo. La terra, invece, aveva perso circa 60 grammi.
Fu, questo, il primo esperimento biochimico quantitativo; fu un'esperienza di capitale importanza, che per giunta aveva dimostrato, in modo decisivo, che la terra non si tramutava, se non in minima parte, in tessuto vegetale.
Secondo van Helmont, siccome nel sistema era stata aggiunta soltanto acqua, il salice (o meglio le piante in genere) si formavano dall'acqua.
Il ragionamento non faceva una grinza e del resto tutti sanno che le piante, senz'acqua, non crescono.
Eppure era sbagliato, perché non c'erano solo acqua e terra a contatto con il salice. C'era anche l'aria, come van Helmont avrebbe senz'altro ammesso se qualcuno glielo avesse fatto notare. Ma l'aria, invisibile, impalpabile e, in apparenza, immateriale, era regolarmente ignorata dagli scienziati. Van Helmont, inoltre, aveva altri buoni motivi per trascurarla.
In quegli anni si era cominciato a studiare scientificamente l'aria e i suoi componenti, ed era stato proprio un medico fiammingo ad avviare le indagini.
I primi sperimentatori, che avevano osservato e descritto i vapori che si formavano nelle loro misture e venivano a galla gorgogliando, li avevano liquidati alla svelta come varietà di aria.
Van Helmont fu il primo a studiare queste diverse "arie" e a notare che, in certi casi, non avevano le stesse proprietà dell'aria normale. Ve ne erano, per esempio, di infiammabili e lo scienziato osservò anche che durante la combustione, a volte, si formavano goccioline d'acqua.
Oggi, naturalmente, sappiamo che l'idrogeno, bruciando, produce acqua, e quasi certamente questo era il fenomeno osservato da van Helmont. Lo studioso, non disponendo delle nostre conoscenze, giunse alla conclusione un po' semplicistica che i vapori infiammabili (e dunque tutti i vapori, compresa l'aria) sono una forma d'acqua. Naturalmente eliminò l'aria come probabile origine della sostanza del salice e la sostituì con l'acqua, sia sotto forma liquida sia come vapore.
Van Helmont osservò che l'acqua ha un volume ben definito, a differenza dei vapori, che si espandono e s'insinuano dappertutto. Ma i vapori sono sostanze prive d'ordine, sono anzi in totale disordine.
Già i Greci ritenevano che l'Universo avesse avuto origine da una sostanza in disordine totale e a questa simpatica sostanza avevano dato il nome di "Caos". Van Helmont usò lo stesso termine per i suoi vapori, che, pronunciato alla fiamminga, suonò "gas". Oggi, diciamo che l'aria è un gas, e la parola serve a indicare ogni vapore o sostanza aeriforme.
Il fiammingo studiò le proprietà dei caos, vale a dire le proprietà dei gas. Bruciando legna, ottenne un gas non infiammabile, che tendeva a dissolversi nell'acqua (trasformandosi, secondo van Helmont, in acqua). Lo chiamò "gas silvestre" ("gas prodotto dalla legna"), la nostra anidride carbonica. È un vero peccato che van Helmont non abbia collegato la sua scoperta con il fenomeno della crescita delle piante.
Lo studio dei gas fece un nuovo balzo in avanti quando un botanico inglese, Stephan Hales (1677-1761) trovò il modo di imprigionarli in laboratorio.
Invece di lasciare che si espandessero nell'aria, ed essere perciò costretto a studiarli, per così dire, al volo, li convogliò in un recipiente fornito di un lungo collo, che prima s'incurvava verso il basso e poi risaliva. Il collo poteva essere inserito in una bacinella piana d'acqua oppure in un becher rovesciato.
Il gas prodotto dalle reazioni chimiche che avvenivano nella bacinella saliva gorgogliando alla superficie, saturava lo spazio sovrastante, s'infilava nel lungo collo ricurvo e finiva nel becher rovesciato. A questo punto, restava imprigionato nel recipiente ed era allora possibile studiare con calma le proprietà di quel determinato caos.
Con questo sistema, Hales preparò ed osservò un certo numero di gas, tra cui l'idrogeno, l'anidride solforosa, il metano, l'ossido di carbonio e l'anidride carbonica. Ma non ne ricavò grandi risultati, perché era convinto che fossero tutte varietà di aria.
Lo studio dei gas, comunque, portava necessariamente alla conclusione che l'aria non era una sostanza semplice, ma una miscela di gas.
Il chimico scozzese Joseph Black (1728-1799), che si occupava dell'anidride carbonica, nel 1756 scoprì che se la si metteva a contatto con la calce (o ossido di calcio) si otteneva la calcite (o carbonato di calcio).
A questo punto, lo scienziato registrò un fatto di importanza cruciale. Per ottenere la calcite, non era necessario ricorrere all'anidride carbonica, laboriosamente preparata in laboratorio, ma bastava lasciare la calce a contatto con l'aria perché la reazione avvenisse spontaneamente, anche se più lentamente. Black concluse, con ragione, che nell'aria erano presenti piccole quantità di anidride carbonica.
Nel 1722 un altro chimico scozzese, Daniel Rutherford (1749-1819), un allievo di Black, accese alcune candele in un recipiente chiuso, contenente aria. Alla fine, constatò che la candela si spegneva e che la combustione non era possibile. Neanche un topolino sarebbe rimasto vivo là dentro.
A quell'epoca era già noto che una candela, bruciando, produce anidride carbonica e quindi gli fu facile concludere che nel recipiente l'anidride aveva preso il posto dell'aria, impedendo in tal modo la combustione.
Si sapeva però che l'anidride carbonica era assorbita da alcune sostanze (per esempio, dalla calce). Lo scienziato fece passare l'aria in cui era avvenuta la combustione attraverso una di quelle sostanze e constatò la scomparsa dell'anidride carbonica. Ma nell'aria rimasta, anche se priva di anidride, la combustione non avveniva: Rutherford aveva isolato un nuovo gas, l'"azoto".
In quegli anni, un altro chimico, l'inglese Joseph Priestley (1733-1804) si occupava di gas, e precisamente di quello prodotto dalla fermentazione dei cereali (abitava accanto a una fabbrica di birra) e aveva scoperto che si trattava di anidride carbonica. Dopo averne studiato le proprietà, in particolare la solubilità nell'acqua, ottenne, con una soluzione di anidride carbonica, una bevanda gradevole (a sentir lui), leggermente frizzante. (Quand'ero giovane, l'acqua con aggiunta di anidride carbonica si chiamava "selz". Ora è venduta sotto svariati nomi, ma né adesso né allora darei un soldo per averla).
Priestley fu il primo a far passare i gas attraverso il mercurio e così riusci a raccogliere dei gas, come l'acido cloridrico e l'ammoniaca che, col metodo di Hales, si sarebbero dissolti nell'acqua.
Ma la sua scoperta maggiore è del 1774. Se si riscalda fortemente il mercurio all'aria libera, sulla sua superficie si forma una polvere color mattone, prodotta dal mercurio che si combina (con una certa difficoltà) con una parte dell'aria. Raccogliendo quella polvere rossa e tornando a riscaldarla, la composizione aria-mercurio si decompone, dando origine a un gas. Priestley scoprì che il nuovo gas sopportava benissimo la combustione. Bastava mettere nel recipiente un pezzo di legna fumante, perché la fiamma sprizzasse all'istante e i topolini chiusi nel contenitore diventavano vispi e allegri. Quando lo scienziato provò a respirarne una boccata, si senti "ilare e leggero". Il nuovo venuto era il nostro "ossigeno".
Fu il francese Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), il più grande chimico di tutti i tempi, a trarne le debite conseguenze, Da una serie di esperimenti rigorosi compiuti nel 1755, apprese che l'aria è un miscuglio di due gas, azoto e ossigeno, nella proporzione volumetrica di 4 a 1. (Sappiamo ora che nell'aria secca sono presenti anche elementi minori, nella misura dell'1 per cento, e tra questi c'è lo 0,03 per cento di anidride carbonica).
Lavoisier dimostrò che la combustione è il risultato della reazione chimica di sostanze a contatto con l'ossigeno dell'aria. Per esempio, la combustione del carbone, che è carbonio quasi allo stato puro, è il prodotto di una combinazione della sostanza con l'ossigeno, con formazione di anidride carbonica. L'idrogeno, bruciando, si combina con l'ossigeno, formando acqua, che è dunque un composto chimico di questi due gas.
Secondo Lavoisier, il cibo che consumiamo e l'aria che respiriamo si combinano assieme, di modo che la respirazione è una forma di combustione lenta. Gli esseri umani, dunque, inspirano aria relativamente ricca di ossigeno e l'espirano povera di ossigeno e ricca di anidride carbonica. Un'attenta analisi chimica dell'aria espirata dimostrò la verità dell'affermazione.
Ormai era possibile spiegare perché, quando una candela arde in un recipiente chiuso pieno d'aria, alla fine si spegne; e un topo, posto in un ambiente analogo, finisce per morire; e perché nell'aria viziata rimasta nei due recipienti la candela non sta accesa e un topolino non può più respirare.
In effetti, la fiamma della candela e il respiro del sorcio consumano a poco a poco l'ossigeno dell'aria, sostituendolo con anidride carbonica e lasciando intatto il contenuto di azoto. Ma in un'atmosfera composta di azoto e anidride carbonica, la combustione e la respirazione non sono più possibili.
Si poneva allora un problema interessante. Ogni essere vivente respira continuamente, inspirando aria col 21 per cento di ossigeno ed espirandone con appena il 16 per cento. A un certo punto, dunque, il contenuto di ossigeno dell'atmosfera terrestre s'impoverisce talmente da rendere impossibile la vita.
Ciò sarebbe avvenuto in un tempo molto più breve dell'intera storia della civiltà, se non fosse intervenuto qualcosa che ricostituiva l'ossigeno con lo stesso ritmo con cui veniva consumato.
Ma che cos'era?
Un primo tentativo di risposta lo diede Priestley, prima ancora di aver scoperto l'ossigeno.
Lo scienziato aveva posto un topolino in un ambiente chiuso, pieno d'aria, e la bestiola, dopo un certo tempo, era morta. In quell'aria un animale non avrebbe più potuto vivere, e Priestley si chiese se la cosa era vera anche per le piante. In caso affermativo, le piante si sarebbero rivelate una forma di vita, conclusione interessante, se pure contraria alla Bibbia (Questo aspetto della questione, comunque, avrebbe lasciato indifferente Priestley, che era membro della Chiesa Unitaria ed era dunque un progressista, sia in campo religioso sia sociale).
Nel 1771 Priestley mise un ramoscello di menta in un bicchiere pieno d'acqua e sistemò il tutto nel recipiente chiuso, dov'era morto il topolino. La pianta non mori. Anzi, si mantenne fresca e verde per mesi. E non basta: un topo immesso nel contenitore riusci a vivere per un bel po' di tempo, e anche una candela rimase accesa a lungo.
Insomma, la pianta aveva rivitalizzato l'aria, impoverita dal respiro dell'animale.
Oggi diremmo che mentre gli animali consumano ossigeno, le piante lo producono. Grazie a questi due processi combinati assieme, la percentuale complessiva di ossigeno nell'atmosfera rimane immutata.
Le piante, dunque, rendono il duplice servizio di fornire alla vita animale l'ossigeno e il sostentamento, e grazie al mondo vegetale, gli animali (tra cui il lettore e io), pur continuando a respirare e ad alimentarsi, hanno sempre nuovo ossigeno e nuovo cibo a disposizione.
Dopo che Lavoisier ebbe spiegato il fenomeno della combustione, gettando le basi della chimica moderna, si riaccese l'interesse attorno al problema dell'attività delle piante.
Un botanico olandese, Jan Ingenhousz (1730-1799), che era al corrente dell'esperienza di Priestley, decise di approfondire l'argomento. Nel 1799, nel corso di vari esperimenti per studiare in che modo le piante rivitalizzano l'aria viziata, scoprì che esse producono ossigeno soltanto in presenza della luce. Dunque, esclusivamente di giorno.
Nel 1782 un botanico svizzero, Jean Senebier (1742-1809), riconfermò quanto aveva scoperto Ingenhousz, ma andò oltre, dimostrando che, perché le piante producano ossigeno, occorre la presenza dell'anidride carbonica.
Era ormai tempo di ripetere, alla luce delle nuove scoperte, l'esperimento di van Helmont di centocinquanta anni prima. Fu un altro svizzero, il botanico Nicolas-Théodore de Saussure (1767-1845), ad occuparsene. Fece crescere alcune piante in un ambiente chiuso, la cui atmosfera conteneva anidride carbonica, e misurò scrupolosamente l'anidride consumata dalla pianta e il relativo aumento di peso dei tessuti. Quest'ultimo si rivelò notevolmente superiore all'anidride carbonica consumata, e de Saussure poté dimostrare in modo convincente che il peso rimanente era costituito dall'acqua. Dunque van Helmont aveva, almeno in parte, ragione.
A questo punto, era ormai chiaro che anche le piante sono vive e se ne conosceva, in linea generale, il meccanismo grazie al quale i due grandi rami della vita si equilibrano scambievolmente.
Le sostanze nutritive, sia di origine animale sia vegetale, sono ricche di carbonio e idrogeno, C e H. (La teoria atomica, enunciata nel 1803, fu presto adottata dai chimici). Queste sostanze, combinandosi con l'ossigeno, danno luogo ad anidride carbonica (CO2) ed acqua (H2O).
Quando sostanze contenenti atomi di carbonio e di idrogeno si associano con atomi di ossigeno, normalmente si libera energia. Nell'organismo, l'"energia chimica" del carbonio-idrogeno si trasforma in energia cinetica, per esempio quando un muscolo si contrae, o in energia elettrica, nel caso dei nervi che trasmettono un impulso e così via.
Potremo dunque scrivere: sostanze alimentari + ossigeno = anidride carbonica + acqua + energia cinetica ecc.
Per le piante, invece, avremo: luce + anidride carbonica + acqua = nutrimento + ossigeno.
Ciò significa che piante ed animali, lavorando insieme, mantengono l'equilibrio tra sostanze alimentari ed ossigeno da un lato e anidride carbonica e acqua dall'altro, in modo che i quattro componenti rimangono quantitativamente sempre costanti.
L'unico mutamento irreversibile è la conversione dell'energia luminosa in altre forme di energia (cinetica ecc.). Questa trasformazione risale alle origini della vita e continuerà a ripetersi sulla Terra finché il Sole irradierà luce nella misura attuale. Il primo e rendersene conto fu, nel 1845, il fisico tedesco Julius Robert Mayer (1814-1878).
Come si è giunti a questo duplice equilibrio? Vediamo un po'.
Inizialmente, la luce ultravioletta del Sole ha fornito l'energia per fabbricare nuove molecole, relativamente grandi, dalle piccole molecole delle acque senza vita dell'oceano primordiale (La conversione da una micro a una macromolecola non richiede emissione di energia, a differenza di quanto succede nell'operazione inversa).
Quando le molecole sono diventate abbastanza grandi e complesse da possedere le proprietà della vita, sono state in grado di servirsi (come nutrimento) delle molecole intermedie (sufficientemente complesse da produrre energia in caso di pericolo, ma non tanto da essere viventi e capaci di una difesa attiva).
L'energia solare, agendo su una base accidentale, riusciva a formare soltanto molecole intermedie, di ridotta vitalità.
I sistemi viventi, allora, trovarono opportuno fabbricarsi delle membrane (diventando "cellule") per tenerci dentro le micromolecole. Queste ultime, quando il sistema era in grado di utilizzare l'energia solare per costruire nuove molecole, s'ingrandivano prima di poter uscire dal sistema, poi, una volta diventate macromolecole, non ne uscivano più.
Queste cellule (cioè i prototipi delle piante), trovandosi a vivere in un micro-ambiente ricco di sostanze nutritive, erano destinate ad avere uno sviluppo molto più rigoglioso delle forme di vita pre-cellulari, ancora incapaci di usare l'energia per procurarsi il nutrimento.
Anche a queste, però, era data la possibilità di svilupparsi, appena avessero trovato il modo di appropriarsi del contenuto nutritivo delle cellule più fortunate (Questi razziatori sono appunto i prototipi degli animali).
Semplici parassiti, dunque?
Probabilmente no. Se fossero esistite solo le piante, avrebbero concentrato nei propri tessuti tutte le micromolecole disponibili, rallentando lo sviluppo e la crescita delle forme viventi. Gli animali invece hanno rotto in misura ragionevole i contenuti complessi delle cellule vegetali, consentendo alle piante di crescere, di svilupparsi e di evolvere molto più rapidamente.
Le molecole delle sostanze alimentari sono alquanto più grandi e complesse di quelle dell'anidride carbonica e dell'acqua, formate da tre atomi appena, in confronto alle prime, che contano da una dozzina a un milione di atomi.
L'operazione grazie alla quale molte micro-molecole si riuniscono per formarne una più grossa, è detta dai chimici "sintesi", dalla parola greca che significa appunto "riunire assieme". Mentre è tipico del mondo animale demolire le molecole delle sostanze alimentari, combinandole con l'ossigeno, per formare anidride carbonica e acqua, le piante sintetizzano le molecole nutritive, formandole dall'anidride carbonica e dall'acqua.
Per farlo, sfruttano la luce. Ecco perché questo tipo particolare di sintesi è detta "fotosintesi", dove "foto" in greco vuol dire "luce". Non vi avevo premesso di spiegarvi il significato della parola?
FINE