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Urania - Asimov d'appendice
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E PLURIBUS UNUM - Isaac Asimov
Titolo originale: E pluribus unum

"Unificazione" è un termine applicabile a molti processi: quello, per esempio, grazie al quale, un paio di secoli fa, 13 Stati indipendenti si unirono a formare gli Stati Uniti d'America.
In campo scientifico, si parla di unificazione quando un certo numero di eventi, che sembravano totalmente distinti, si scoprono come effetti diversi di un unico fenomeno. Vediamo il caso delle "azioni a distanza". Normalmente, per compiere un'azione - per esempio, per mettere in moto un corpo in riposo - è indispensabile il contatto fisico, sia diretto che indiretto. Così si può colpire un oggetto con la mano o col piede, oppure con una mazza o un bastone. O ancora prenderlo in mano, darsi lo slancio e lasciarlo andare, scagliandolo eventualmente in modo che colpisca un altro oggetto, a cui trasmette il movimento. È anche possibile mettere in moto un solo corpo e comunicare il movimento, come in un gioco di pedine, a innumerevoli altri. Infine, quando soffiamo, l'aria si muove e, a sua volta, muove qualche altra cosa.
Ma voi riuscite a mettere in moto un oggetto lontano senza toccarlo e senza che sia stato toccato da un altro corpo? Se sì, questo è un caso di azione a distanza.
Supponiamo, per esempio, di avere in mano una palla da biliardo, all'altezza dell'occhio, rivolta verso terra. La palla è perfettamente immobile; a un tratto, la lasciamo andare. Fino a quel momento, la stringevamo tra le dita, poi, lasciandola libera, abbiamo smesso di toccarla. E la palla è caduta a terra soltanto quando non l'abbiamo più toccata. Dunque si è mossa senza alcun contatto fisico.
La terra ha attirato la palla, grazie alla "gravitazione": ecco un primo esempio di azione a distanza.
Consideriamo ora la luce. Quando il Sole sorge o si accende una candela, la stanza s'illumina immediatamente. Il Sole o la candela hanno determinato l'illuminazione, senza l'intervento di una causa materiale. Altro esempio di azione a distanza. Dirò di più, anche il calore del Sole o della candela è avvertibile attraverso lo spazio, ed è ancora un aspetto dello stesso fenomeno.
Intorno al 600 a. C., il filosofo greco Talete (624-546) studiò, per la prima volta, una pietra nera, che aveva la proprietà di attirare gli oggetti di ferro a distanza. Poiché la pietra in questione proveniva dalla città greca di Magnesia sulla costa dell'Asia Minore, Talete la chiamò ho magnetes lithos ("la pietra di Magnesia") e da allora il fenomeno è noto come "magnetismo".
Talete scoprì anche che, se si sfrega un bastoncino di ambra, questo acquista la proprietà di attirare dei corpi leggeri a distanza. L'ambra, però, non attira gli oggetti influenzati dal magnete, per cui evidentemente si tratta di due fenomeni diversi. In greco, l'ambra è detta elektron, e l'effetto relativo ha preso il nome di "elettricità". Magnetismo ed elettricità sono ancora azioni a distanza.
Restano, infine, i suoni e gli odori. Noi percepiamo il suono di una campana in lontananza, anche se non c'è contatto fisico, e l'odore di una bistecca che sfrigola sul fuoco si sente benissimo da lontano.
Ci sarebbero, dunque, sette tipi di azioni a distanza: la gravitazione, la luce, il calore, il magnetismo, l'elettricità, il suono e l'odore.
Vedi caso, il concetto di azione a distanza non gode del favore degli scienziati. Ci sono talmente tanti casi di movimento indotto mediante contatto fisico, che i pochi che sembrano farne a meno ci suonano sospetti. Forse un contatto c'è realmente, ma così impalpabile che non riusciamo a coglierlo.
Di tutti questi fenomeni, l'odore è il più facile da spiegare. Nella padella, la bistecca, sfrigola, schizza attorno il grasso e fuma. Minutissime particelle si spandono nell'aria e, quando arrivano alle nostre narici, ne stimolano le mucose, per cui noi sentiamo il profumo. L'ipotesi è stata ampiamente verificata ed è ormai accettato che l'odore, richiedendo un contatto fisico, non è un'azione a distanza.
Per quanto riguarda il suono, il filosofo greco Aristotele (382-32 a. C.) intorno al 350 a. C. osservò che gli oggetti, nell'emettere un suono vibrano, e ne concluse che le vibrazioni si comunicavano all'aria immediatamente circostante, che, a sua volta, le ritrasmetteva all'aria e cos via - come in un gioco di pedine invisibili, finché l'ultima vibrazione raggiungeva il nostro orecchio, lo faceva vibrare e ci permetteva di sentire il suono.
Aristotele aveva visto giusto, ma come provarlo? Se era l'aria a trasmettere il suono, allora, in mancanza d'aria, non ci sarebbe stato il suono. Dunque, se si faceva rintoccare una campana nel vuoto, non si sarebbe sentito niente. Il guaio era che Aristotele e gli altri scienziati dell'epoca, come i loro colleghi ancora duemila anni dopo, non erano in grado di creare il vuoto per dimostrare la verità dell'asserzione.
Nel 1622, Evangelista Torricelli (1608-1647) capovolse un lungo tubo pieno di mercurio in una vaschetta contenente la stessa sostanza e scoprì che il mercurio scendeva nel tubo, perché il peso dell'atmosfera terrestre ne sosteneva appena una colonnina alta 76 centimetri. Ma il mercurio, fuoriuscendo, aveva lasciato nell'estremità sigillata del tubo, uno spazio dove non c'era assolutamente niente, nemmeno l'aria - o più esattamente, niente tranne poche tracce di vapori di mercurio. Era nato così il primo vuoto degno di questo nome: però era piccolo, isolato e poco utile per la sperimentazione.
Qualche anno dopo, nel 1650, il tedesco Otto von Guericke (1602-1686) mise a punto un apparecchio per aspirare l'aria contenuta in un recipiente, che gli consentiva di fare il vuoto in qualunque momento. Da allora, gli scienziati furono in grado di eseguire esperienze sul vuoto.
Nel 1657, l'irlandese Robert Boyle (1627-1691) venne a conoscenza della pompa pneumatica di Guericke e convinse il suo collaboratore Robert Hooke (1635-1703) a perfezionare la macchina. Dopo brevissimo tempo, dimostrò che se si faceva rintoccare una campana all'interno di un contenitore di vetro nel quale si era fatto il vuoto, il suono non giungeva all'esterno; ma bastava far entrare aria nel recipiente, per risentire il rintocco. Dunque Aristotele aveva ragione, e il suono, al pari dell'odore, non è un'azione a distanza.
(Eppure, le astronavi dei film di tre o quattro secoli dopo solcano lo spazio con un fischio impressionante ed esplodono fragorosamente. Può darsi che i registi siano ignoranti, ma è più probabile che, convinti dell'ignoranza degli spettatori, si ritengano in dovere di proteggerne e conservarne l'insipienza.)
Sorge ora il problema di quali fenomeni siano percepibili nel vuoto. Poiché la pressione dell'aria sostiene appena una colonna di 76 centimetri di mercurio, allora l'atmosfera terrestre avrà uno spessore di pochi chilometri ed effettivamente, oltre i 16 mila metri di altezza, l'aria è estremamente rarefatta. Ne consegue che all'interno dei 149 milioni di chilometri che separano la Terra dal Sole, non c'è praticamente altro che il vuoto, eppure noi sentiamo il calore del Sole e ne vediamo la luce, e la Terra, ruotando attorno all'astro, ne subisce l'attrazione gravitazionale. È stato anche facile dimostrare che magnetismo ed elettricità, diversamente dal suono della campana, si propagano nel vuoto.
Le azioni a distanza si sono così ridotte a cinque: la luce, il calore, la gravitazione, il magnetismo e l'elettricità.
Gli scienziati, comunque, non erano smaniosi di accettare le azioni a distanza. Isaac Newton (1642-1727) avanzò l'ipotesi che la luce fosse costituita da uno sciame di particelle minutissime, che si muovevano in linea retta. La sorgente luminosa emetteva le particelle che, o giungevano direttamente all'occhio o venivano riflesse da un oggetto, che le rimandava al nostro organo, rendendosi visibile. Ma siccome le particelle venivano a contatto prima con gli oggetti, poi con gli occhi, non si trattava di un'azione a distanza, ma di un'azione per contatto.
Con la teoria newtoniana della luce si spiegavano non pochi fenomeni, e tra questi il fatto che un oggetto opaco proietta un'ombra nitida, ma ne rimanevano ancora molti in ombra. Perché il raggio luminoso, quando attraversa un prisma, si rifrange in un arcobaleno di colori? Perché le particelle di luce rossa hanno un indice di rifrazione inferiore a quello della banda viola? Le spiegazioni non mancavano, ma non erano del tutto convincenti.
Nel 1803, l'inglese Thomas Young (1773-1829) dimostrò che la luce era formata da onde di lunghezza diversa. La luce rossa, per esempio, aveva una lunghezza d'onda doppia rispetto a quella della luce viola. Si spiegava così la diversità di rifrazione dei due colori. Le ombre nitide proiettate dai corpi opachi (le onde dei liquidi e quelle sonore non hanno ombra) dipendevano dall'estrema piccolezza delle lunghezze d'onda della luce. D'altra parte, le ombre non sono mai perfettamente nitide, perché tra i due campi esiste sempre, ed è dimostrabile, una frangia leggermente sfocata ("diffrazione").
La teoria delle onde luminose riaccese immediatamente la disputa sulle azioni a distanza. Le onde, siamo d'accordo, attraversano il vuoto, ma in quale modo? Le onde dell'acqua si propagano grazie al movimento delle molecole superficiali e avanzano perpendicolarmente rispetto alla direzione di trasmissione (onde trasversali). Le onde sonore sono trasmesse dalle vibrazioni delle molecole dell'aria lungo la linea di diffusione (onde longitudinali). Ma le onde luminose, quando viaggiano nel vuoto, non incontrano un mezzo che le convogli su e giù per lo spazio. Allora, come si propagano?
Gli scienziati avanzarono l'ipotesi che nel vuoto ci fosse qualcosa di fluttuante (nel frattempo, si era scoperto che le onde luminose sono trasversali, come quelle dei liquidi) detto "etere", in omaggio alla terminologia aristotelica. Si trattava di una sostanza così tenue da sfuggire ai nostri grossolani mezzi d'indagine, ma di cui si deduceva l'esistenza osservando il comportamento della luce. L'etere, che permeava l'intero spazio, riduceva ogni azione a distanza a un'azione per contatto - contatto eterico.
(Più tardi, ci si accorse che l'etere era un concetto del tutto superfluo, ma questa è un'altra storia. Per semplificare, chiamerò provvisoriamente "fenomeni eterici" gli effetti percepibili nel vuoto.)

Gli effetti eterici di cui abbiamo parlato finora sono dunque cinque. Forse se ne aggiungeranno altri, com'è avvenuto per l'elettricità e il magnetismo scoperti da Talete, oppure si ridurranno di numero, qualora alcuni fenomeni che parevano distinti si rivelassero, a un esame più ampio, identici.
Nel 1800, per esempio, l'astronomo anglo-germanico William Herschel (1738-1822) scoprì i raggi infrarossi, situati oltre la banda rossa dello spettro. Avendo notato che gli infrarossi influiscono fortemente sul termometro, Herschel inizialmente li riteneva "raggi caldi". Non molto tempo dopo, comunque, venne formulata la teoria della luce e si diede per scontato che le lunghezze d'onda esistenti fossero molto più ampie di quelle percepibili dall'occhio umano.
Si cominciava intanto a conoscere meglio anche il calore. Si apprese che era conducibile in un mezzo solido per conduzione o, per convezione, attraverso un liquido o un gas. Dunque si trattava ancora di un'azione per contatto tra molecole o atomi. Ma la propagazione del calore nel vuoto, per restare nell'ambito dei fenomeni eterici, avviene mediante onde luminose, nella gamma degli infrarossi. Queste, pur non essendo calde, danno una sensazione di calore quando sono assorbite dalla materia, perché l'energia incorporata provoca l'accelerazione del moto o della vibrazione degli atomi e delle molecole.
A questo punto, il concetto di luce abbraccia l'intero spettro delle onde luminose, captabili o meno dall'occhio umano. Tra queste, nella gamma degli infrarossi, c'è anche il calore, in quanto radiazione termica, e così la nostra lista si riduce a quattro fenomeni: luce, gravitazione, magnetismo ed elettricità.
Questi quattro diminuiranno ulteriormente? I fenomeni eterici si rassomigliano tutti, perché sono tutti irradiati da una sorgente. Inoltre l'intensità del fenomeno varia in ragione inversa al quadrato della distanza dalla sorgente.
Per esempio, se ci troviamo a una determinata distanza da una fonte luminosa e ne misuriamo l'intensità (cioè la quantità di luce proiettata su una data area) poi ci allontaniamo fino a trovarci a 2.512 volte la distanza originaria, l'intensità luminosa sarà allora di 1/2.512^2 o 1/6.31 di quanto era inizialmente. La "legge dell'inverso del quadrato della distanza" vale sia per l'intensità gravitazionale sia per quella elettrica e magnetica.
Forse la cosa non ha poi tanta importanza. Tutti questi fenomeni sono, in fondo, delle radiazioni, che si diffondono in ogni direzione a una determinata velocità. Dopo un certo intervallo di tempo, le onde, espandendosi, occupano l'intero spazio situato a una data distanza dalla sorgente. Ora, collegando i vari punti di quello spazio si ottiene la superficie di un sfera. La superficie della sfera, però, aumenta in modo direttamente proporzionale al quadrato dei raggio, cioè al quadrato della distanza dal punto centrale della sfera. Se dunque una data quantità di luce (o di un altro fenomeno eterico) si diffonde sulla superficie di una sfera in espansione, ogni volta che questa raddoppia, la quantità di luce disponibile per unità superficiale si riduce della metà. E mentre la superficie aumenta in proporzione diretta al quadrato della distanza dalla fonte, l'intensità luminosa (o di un altro fenomeno eterico) diminuisce in modo inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla sorgente.
Ne consegue che i fenomeni eterici, pur avendo proprietà fondamentalmente diverse, si rassomigliano tutti, in quanto obbediscono alla legge dell'inverso del quadrato della distanza. Ma questi fenomeni sono realmente distinti tra loro?
A prima vista, indubbiamente, ci sembrano tali. Gravitazione, elettricità e magnetismo sono tutti fenomeni di attrazione, e si differenziano in questo dalla luce, che non lo è.
Inoltre l'attrazione è l'unico effetto osservabile nella gravitazione, mentre nell'elettricità e nel magnetismo si hanno casi di attrazione e di repulsione, e le cariche elettriche, come i poli magnetici, si respingono. Comunque, elettricità e magnetismo non sono perfettamente identici, perché la prima attira qualunque tipo di oggetto, mentre l'attrazione magnetica agisce esclusivamente sul ferro.
Nel 1780, il francese Charles-Augustin Coulomb (1736-1806), dopo aver dimostrato che elettricità e magnetismo obbediscono alla legge dell'inverso del quadrato della distanza, sostenne in modo convincente che i due fenomeni, per quanto simili, sono fondamentalmente distinti, e questa opinione fu generalmente accolta.

Intanto una grossa rivoluzione stava per sconvolgere gli studi sull'elettricità.
Fino a quel momento, l'attenzione degli scienziati era rivolta soprattutto ai fenomeni di "elettrostatica", cioè alla cariche elettriche su vetro, zolfo, ambra e altri materiali, noti attualmente come "non conduttori". "Scaricando" l'elettricità su queste sostanze, si ottenevano degli effetti caratteristici, come scintille e crepitii, o una spiacevole sensazione di "scossa elettrica", se la scarica investiva il corpo umano.
Nel 1771, il fisico italiano Luigi Galvani (1737-1798) scoprì che il contatto di due metalli diversi dava luogo a fenomeni elettrici. Le sue ricerche furono proseguite, verso il 1780, da Alessandro Volta (1745-1827), che collegando tra loro una serie di lastre bimetalliche (o "batteria") produsse un flusso continuo di elettricità. In men che non si dica, tutti gli scienziati europei si misero a studiare l'"elettrodinamica".
Ma con la nuova scoperta, il divario tra elettricità e magnetismo parve ancora aumentare. Effettivamente, se era facile ottenere una corrente di cariche elettriche in movimento, niente di simile avveniva per i poli megnetici.
Il danese Hans Christian Oerstad (1777-1851), però, non ne era convinto. Rifacendosi all'ipotesi meno accreditata, sostenne che elettricità e magnetismo erano fenomeni collegati tra loro. Quando la corrente attraversa un filo, produce calore, e se il filo è sottile, anche luce. Forse, argomentò lo scienziato nel 1813, se si facesse passare elettricità lungo un filo finissimo, si otterrebbero effetti magnetici.
Oerstad, che insegnava all'università di Copenhagen, non aveva molto tempo per la sperimentazione né, d'altra parte, era un grande sperimentatore.
Nella primavera del 1820, per il suo corso sull'elettricità e sul magnetismo, aveva previsto una determinata esperienza, che però non aveva avuto il tempo di provare prima. D'impulso, decise di effettuarla ugualmente. Dopo aver teso un filo sottile di platino al di sopra dell'ago magnetico di una bussola, parallelamente a esso, vi fece passare la corrente. Con grande sorpresa di Oerstad (che non si aspettava quel risultato), appena inserita la corrente, l'ago si mosse. Era una deviazione quasi impercettibile, che lasciò del tutto indifferente l'uditorio, ma Oerstad, appena finita la lezione, riprese l'esperimento.
Scoprì così che se si faceva passare la corrente lungo il filo in una data direzione, l'ago deviava nel senso delle lancette dell'orologio, mentre, invertendo la corrente, l'ago si muoveva in senso contrario. Il 21 luglio 1820, Oerstad rese nota la sua scoperta, poi non se ne occupò più. Ma aveva già fatto abbastanza e il legame tra elettricità e magnetismo era ormai dimostrato. I fisici si buttarono con avidità sull'argomento e un secolo dopo arrivarono alla scoperta della fissione dell'uranio.
Quasi contemporaneamente, il francese Dominique F. J. Arago (1786-1853) dimostrava che un filo carico di elettricità non attira soltanto gli aghi magnetizzati, ma anche la limatura di ferro smagnetizzata, esattamente come farebbe una calamita. Dunque esisteva realmente un campo magnetico, generato dalla corrente elettrica, assolutamente identico a quello di un magnete normale.
Prima della fine dell'anno, un altro francese, André-Marie Ampère (1775-1836) dimostrò che due fili paralleli, collegati a due batterie distinte, e percorsi dalla corrente in un'unica direzione, si attraevano scambievolmente, e, al contrario, si respingevano se il flusso avveniva in direzioni opposte. In altre parole, le correnti si comportavano come due poli megnetici.
Ampère avvolse un filo attorno a un solenoide o spirale (una specie di molla del letto, per intenderci) e osservò che la corrente, percorrendo le spire sempre nello stesso senso, aumentava d'intensità. Dunque, il campo magnetico era più forte in un avvolgimento che non in un filo lineare e il solenoide agiva esattamente come una calamita, dotata di polo nord e di polo sud.
Nel 1823, uno sperimentatore inglese, William Sturgeon (1783-1850), avvolse diciotto giri di filo di rame scoperto attorno a una sbarra di ferro a forma di U, facendo in modo che rame e ferro non si toccassero. L'effetto magnetico aumentò enormemente: era nata l'"elettrocalamita". Al passaggio della corrente, l'apparecchio di Sturgeon riusciva a sollevare un oggetto venti volte più pesante, ma, in assenza di corrente, il campo magnetico svaniva e la macchina ridiventava inerte.
Nel 1829, l'americano Joseph Henry (1797-1878) ottenne un'elettrocalamita più potente grazie a un avvolgimento di filo isolato attorno a una sbarra di ferro e nel 1831 ne costruì una di dimensioni ridotte, in grado di sollevare oltre una tonnellata di ferro.
Ma, si domandarono gli scienziati, se l'elettricità produce magnetismo, il magnetismo, a sua volta, non produrrà elettricità?
L'inglese Michael Faraday (1791-1867) fornì la prova che le cose stavano effettivamente così. Nel 1831, introdusse un magnete in un solenoide non collegato a una batteria. Quando la sbarra penetrò all'interno dell spira, si determinò all'istante un flusso di corrente in una data direzione (registrata da un "galvanometro", un apparecchio inventato nel 1820 e fondato sulla scoperta di Oerstad che la corrente elettrica devia un ago magnetico). Nell'estrarre il magnete dal solenoide, si produsse un flusso di corrente in direzione opposta.
Faraday ideò allora un congegno formato da un disco di rame che ruotando senza interruzione tra i poli di una calamita, faceva affluire nel disco una corrente elettrica continua Era il primo "generatore di corrente". Henry, a sua volta, si servì della corrente- per far girare una ruota e inventò il primo "motore elettrico".
Con Faraday e Henry si apriva l'era dell'elettricità. Tutto era partito dall'osservazione originale di Oerstad.

Ormai si sapeva con certezza che elettricità e magnetismo sono fenomeni strettamente collegati; che l'elettricità produce magnetismo e viceversa. Si trattava ora di accertare se i due fenomeni erano anche autonomi, se cioè, in determinate condizioni, l'elettricità non produce magnetismo e viceversa.
Nel 1864, il matematico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) ideò un gruppo di quattro equazioni relativamente semplici, che descrivevano la natura dei rapporti esistenti tra elettricità e magnetismo. Fu subito chiaro che l'"equazione di Maxwell" era valida per qualunque condizione e serviva a spiegare l'intero comportamento elettromagnetico Neppure la rivoluzione di Albert Einstein (1879-1955), nei primi decenni del Novecento che, con il concetto di relatività, modificava le leggi newtoniane del movimento e della gravitazione universale, riuscì a scalfire le equazioni di Maxwell.
Secondo questa teoria, elettricità e magnetismo non possono esistere separatamente, e in effetti i due fenomeni sono sempre stati uniti, fatta eccezione per l'elettromagnetismo, nel quale le componenti elettriche e magnetiche sono dirette perpendicolarmente l'una all'altra.
Ma nello sviluppare le implicanze delle sue equazioni, Maxwell scoprì ancora che un campo elettrico variabile genera necessariamente un campo magnetico e così via. I due, insomma, si rincorrono a balzi e il campo magnetico si propaga nello spazio come una grande onda trasversale, alla velocità di 300 mila chilometri al secondo, formando la "radiazione elettromagnetica". Ma la luce è precisamente un'onda trasversale che avanza alla velocità di 300 mila chilometri al secondo, di qui l'inevitabile conclusione che la luce, in tutte le sue lunghezze d'onda, è uno "spettro elettromagnetico".
Luce, elettricità e magnetismo convergono dunque in un fenomeno unico, descritto da un solo gruppo di relazioni matematiche - e pluribus unum. Le azioni a distanza si sono ridotte a due: la gravitazione e l'elettromagnetismo. Nel frattempo, dal concetto di etere si era passati a quello di "campo": "campo gravitazionale" e "campo magnetico", costituiti ognuno da una sorgente di radiazioni continue che viaggiano alla velocità della luce.

Ora che le azioni a distanza da cinque sono scese a due, forse ci converrà cercare un altro gruppo di relazioni matematiche, ancora più generali, applicabili a un unico "campo elettromagneticogravitazionale", dove gravitazione ed elettromagnetismo sono soltanto due aspetti di uno stesso fenomeno.
Ci si provò Einstein per trent'anni, lavorando alla teoria del "campo unificato", ma senza risultati. Intanto si erano aggiunti altri due campi, la cui intensità diminuiva talmente con l'aumentare della distanza che se ne potevano rilevare gli effetti solo su distanze pari al diametro di un nucleo atomico o inferiori (ecco perché erano stati scoperti con ritardo). Si trattava del "campo nucleare forte" e del "campo nucleare debole".
Nel corso degli anni Settanta, il fisico americano Steven Weinberg (1933) e l'anglo-pachistano Abdus Salam (1926) si dedicarono indipendentemente l'uno dall'altro a un modello matematico, allo scopo di dimostrare che il campo elettromagnetico e quello nucleare debole erano due aspetti diversi di uno stesso campo, e la dimostrazione, con tutta probabilità, varrà ugualmente per il campo nucleare forte. La gravitazione invece, almeno per il momento, ne resta ostinatamente fuori, più refrattaria che mai.
In conclusione, abbiamo, oggi, due grandi descrizioni dell'universo: la teoria della relatività, che si occupa della gravità e del macrocosmo, e la teoria dei quanti, attinente al campo unificato elettromagnetico/debole/forte e al microcosmo.
Finora non è stato possibile "quantizzare" la gravitazione. Ma una cosa è certa: chi riuscirà nell'impresa avrà il Nobel assicurato.

FINE