Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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NON C'È POSTO PER I ROBOT - Silvano Barbesti, Piero Fiorili

I nipoti di Frankenstein

È il 26 gennaio 1921: a Praga si tiene la prima rappresentazione di R. U. R. (sigla che sta per "Rossum's Universal Robot"), dramma scritto da uno dei più famosi autori di teatro cecoslovacchi dell'epoca, Karel Čapek. L'avvenimento è importante perché per la prima volta gli "uomini artificiali", fino ad allora indicati genericamente come automi, vengono chiamati "robot", termine derivato dalla parola ceca robota che vuol dire lavoratore e che in breve tempo si sarebbe imposto in tutto il mondo, entrando a far parte del vocabolario corrente.
Di fatto automi e robot sono sempre esistiti nella letteratura fantastica, nella mitologia, nei racconti e nelle fantasie popolari. Basti pensare alle leggende della mitologia greca e mediterranea che parlano di statue "viventi" e di colossi meccanici posti a guardia di porti, città e luoghi sacri, al Golem, creatura di argilla propria della tradizione ebraica (che, secondo una delle tante leggende, fu creato proprio a Praga dal rabbino Loew nel sedicesimo secolo per difendere la sua gente dai pogrom, dalle persecuzioni), alle delicate bambole meccaniche in grado di scrivere o di suonare una pianola, costruite già nel 700 da artigiani come gli svizzeri Jaquet-Drods, al "giocatore di scacchi", mitico automa imbattibile sulla scacchiera, per finire col letterario mostro assemblato con macabri resti dal dottor Frankenstein, nel celeberrimo romanzo di Mary Wollstonecraft Shelley.
La stessa fantascienza aveva visto i primi automi a vapore degli scientific romances americani della fine dell'800 (opere avventurose e in certo qual senso divulgative di uno spirito scientifico, rivolte al pubblico giovanile) evolversi in meccanismi sempre più sofisticati nelle storie di superscienza degli anni Venti e Trenta.
Ma con Čapek e col termine robot viene circoscritto definitivamente, persino nello stesso nome, il ruolo di servitore in cui è relegato l'automa, avvicinando cosi l'immagine fantastica dell'uomo meccanico a quella data dalla divulgazione e dall'anticipazione scientifiche che volevano l'uomo sollevato dalle fatiche più pesanti e dai lavori più umili, creando di fatto una nuova classe di schiavi il cui sfruttamento non risultasse riprovevole ma, anzi, addirittura morale.
Questa nuova categoria di lavoratori ha però un difetto: immancabilmente si ribella al suo creatore che ha tentato di arrogarsi prerogative divine, costruendo a propria immagine un essere autonomo e intelligente - anche se privo il più delle volte di una coscienza - e lo distrugge assieme al suo senso di colpa per avere tanto osato.
A testimonianza di questo spirito rivoltoso dei robot si possono portare le decine e decine di storie apparse sulle riviste popolari americane, che hanno descritto ogni possibile variazione sul tema fin verso gli anni Quaranta.
Questo destino di ribellione e distruzione del proprio creatore pur avendo radici storico-letterarie illustri e ben definite (e infatti viene definito come "sindrome del Golem" o anche come "sindrome di Frankenstein"), impedisce agli scrittori di fantascienza una proficua utilizzazione del robot, sia come immagine di un futuro migliore raggiunto grazie alle applicazioni tecnologiche di una scienza intesa sempre positiva e benefica, sia come personaggio diverso che permetta, con le sue caratteristiche peculiari, la narrazione di situazioni nuove, non ancora esplorate dalla fantasia, e foriere, di conseguenza, di un certo rinnovamento e di aperture di nuovi orizzonti.
Il robot, quindi, si presenta agli occhi degli scrittori che lo hanno inventato come una figura dalle inesplorate potenzialità, ma (una volta esaurita ogni possibile variante di ribellione) purtroppo inutilizzabile per le sue caratteristiche che portano a epiloghi troppo ripetuti e risaputi.
Una simile impasse viene definitivamente superata nel 1942, anno in cui Asimov scrive e pubblica il racconto Runaround. In esso vengono formulate per la prima volta le Tre Leggi della Robotica, già presenti implicitamente anche nei suoi tre precedenti racconti sull'argomento: Robbie del 1940 e Secondo ragione e Bugiardo del 1941. Sottomettendo il comportamento dei suoi robot "positronici" a questa sorta di decalogo dell'automa, che li rende efficienti e inoffensivi, Asimov permette la definitiva messa a punto teorica (e fantastica) del perfetto servitore dell'uomo, ponendo limiti ben precisi alla sua libertà d'azione, riassunti in tre brevi, secche frasi:
1) un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno;
2) un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge;
3) un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.
Da allora le Leggi della Robotica sono tacitamente e universalmente accettate da ogni autore di fantascienza, e il robot si è trovato a ricoprire fedelmente i ruoli più disparati. Lo stesso Asimov ce lo presenta nelle vesti di bambinaia (in Robbie), di correttore di bozze (in Il correttore di bozze, 1957), di esploratore (in Straniero in Paradiso, 1974), di investigatore (nei romanzi Il sole nudo e Abissi d'acciaio) divertendosi ogni volta a mettere alla prova in contesti differenti le Leggi della Robotica, dimostrandone, in effetti, la loro assoluta validità.
Un essere di tal fatta, così disciplinato e affidabile, non avrebbe più creato problemi e anzi, guadagnatasi la palma dell'efficienza e della fedeltà, avrebbe raggiunto posizioni di responsabilità crescente. Tanto che Asimov, nella sua ottimistica visione del potere e della sua gestione, intesa come servizio imparziale ed efficace reso all'intera comunità umana, avrebbe portato un robot a ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti, nel racconto Trecentenario del 1976.
La fantascienza, che tante invenzioni e applicazioni tecnologiche ha previsto con decenni di anticipo sulla loro realizzazione, era finalmente riuscita a creare un personaggio di tolla e circuiti integrati che ora, ammiccante, avrebbe potuto additare come obiettivo alla scienza e come oggetto di desiderio ai suoi lettori.

All'inseguimento della fantasia

Al di là dell'immaginazione degli scrittori di fantascienza, negli anni Trenta anche la scienza ufficiale pare molto ottimista sulle possibilità di realizzare un perfetto servitore meccanico entro la fine del secolo.
Alcuni anni fa una rivista di divulgazione scientifica ha ricostruito cinquantanni di previsioni più o meno azzardate per questo ultimo scorcio di secolo: in una proiezione immaginaria della vita domestica degli anni Ottanta, spicca puntualmente la figura del robot tuttofare, intento a passare l'aspirapolvere sulla moquette. È un'immagine straordinariamente familiare per tutti gli "abitanti" di questo secolo, non solo per i lettori di fantascienza: segno evidente che le attese in tal senso sono state alimentate per decenni da fonti al di sopra di ogni sospetto.
Perché, se è vero che nel 1930 la cibernetica è una scienza ancora ai primi issi, è anche vero che la tecnologia vive il suo periodo più caldo, realizzando progetti che solo qualche anno prima sembravano sogni di menti particolarmente fantasiose. In fondo il primo goffo tentativo dei fratelli Wright col loro biplano risaliva al 1903 e ora, nel giro di soli trent'anni, le principali città del globo sono collegate da regolari voli di linea. Gli stessi scienziati che dottamente avevano confutato i folli progetti dei pionieri dell'aria si spostano tranquillamente in aereo, con buona pace delle proprie teorie.
Come non giustificare, allora, l'ottimismo con cui si guarda al futuro? Come negare la possibilità di realizzare praticamente un congegno come il robot, pur non avendo ancora nessuna base teorica? Cinquant'anni sono lunghi, e con questo ritmo di sviluppo è praticamente certo che nel 1980 nessuno lavorerà più: penseranno a tutto i robot.
A scienziati e tecnici, che non vogliono evidentemente sbilanciarsi in confutazioni forse destinate ad affogare nel ridicolo, il problema sembra un po' più complesso di quanto vogliono far credere i futurologi. In realtà non sanno da che parte cominciare ad affrontare il problema.
La costruzione di un servitore meccanico richiede infatti un "corpo" dotato di meccanismi idonei alla locomozione e alla manipolazione degli oggetti: e fin qui la cosa appare abbastanza facile, allo stadio attuale della tecnologia metalmeccanica. Al limite, si può ricorrere ad un antropomorfismo approssimativo, con ruote al posto delle gambe.
Il robot deve però essere dotato di organi di senso, perché percepisca il mondo fisico che lo circonda: gli studi di Baird sulla televisione sembrano in grado di assicurare la "vista" con mezzi elettronici, mentre la rilevazione dei suoni è già una scienza adulta e affidabile: poco importa se un servitore manca dei sensi del gusto e dell'olfatto. Importante è invece associare a vista e udito una sensibilità tattile sufficiente a impedire che l'enorme forza del robot produca danni agli oggetti che manipola. Qui si brancola un po' nel buio, ma il problema non dovrebbe essere irrisolvibile.
Il vero nocciolo della questione, lo vedrebbe chiunque, è la realizzazione del cervello: come dotare il robot di quel minimo di intelligenza necessaria a recepire gli ordini ed eseguirli correttamente, come fargli elaborare ciò che gli organi di senso gli trasmettono per assumere decisioni autonome?
"Posso sconfiggere qualsiasi robot meccanico", scrive in quegli anni Jack Dempsey, il mitico campione del mondo dei pesi massimi. "I tecnici possono costruire un robot che abbia tutto salvo che un cervello; e, senza cervello, non c'è nessuno che possa diventare campione di boxe".
La soluzione del problema doveva passare ovviamente attraverso il computer, un cervello senza corpo né organi di senso simili a quelli umani, da rendere dapprima sempre più intelligente e poi sempre più piccolo, al punto di entrare comodamente in una "scatola cranica" di metallo.
Quando nel 1944 Manchly ed Eckert, due ricercatori della Rand Corporation, mettono a punto per l'U. S. Army il gigantesco ENIAC (un computer capace di calcolare le traiettorie dei tiri di artiglieria), il risultato non è apparentemente molto brillante: con le sue 18 mila valvole termoioniche e 220 chilometri di fili, ENIAC occupa un'intera palazzina, e tuttavia è in grado di eseguire solo calcoli balistici. Eppure ciò dimostra che l'aritmetica binaria e l'algebra di Boole (geniale matematico inglese del XIX secolo) possono costituire la base di partenza dell'intelligenza artificiale. Gli stessi Manchly ed Eckert, lavorando con uno dei padri della cibernetica Von Neumann, perfezionano ENIAC e, soprattutto, pubblicano i propri lavori teorici: già nel 1949 entra in funzione, a Cambridge, il più evoluto EDSAC, il primo computer in grado di eseguire un programma di istruzioni.
Come ricorda Pamela McCorduck nella sua storia della cibernetica, Machines who think, l'intelligenza artificiale diventa una scienza dalle solide basi teoriche a partire dal 1955, quando Herbert Simon e Alan Newell, della Carnegie-Mellon University, realizzano il Teoreta della Logica, un programma sofisticato e avanzatissimo, capace di ragionare in modo simile al cervello umano, tanto che si rivela subito in grado di trovare nuove dimostrazioni agli astrusi teoremi contenuti nei Principia Mathematica di Whitehead e Russell.
A prescindere dalla genialità dei programmi, però, i computer sono ancora mostri antidiluviani a valvole, capaci di dialogare esclusivamente a mezzo di schede perforate. Il robot della fantasia popolare è ancora, a ragione, pura fantascienza.
Ma, a partire dal 1959, l'adozione su larga scala del circuito stampato al posto dei fili, e soprattutto del transistor (inventato nel 1948 dai tecnici della Bell Telephone) al posto della valvola termoionica, schiude nuovi orizzonti di miniaturizzazione e, conseguentemente, di complessità. Il computer entra nel mondo del lavoro, cessando al contempo di essere una curiosità scientifica in dotazione agli atenei più prestigiosi, e i futurologi riprendono a sperare nell'avverarsi delle loro profezie. Quando poi, intorno al 1970, fa il suo ingresso il circuito integrato, frutto degli enormi investimenti della tecnologia spaziale, il traguardo appare più vicino che mai: ciò che un tempo occupava intere palazzine, ora potrebbe stare nel cassetto di una scrivania.

Mito di oggi e realtà di domani

Il resto è storia di oggi: il personal computer che entra in tutte le case, 1' abbandono definitivo delle schede perforate nelle aziende, a favore di un dialogo più diretto tramite video, i microchip in grado di sintetizzare la voce umana, e così via, di meraviglia in meraviglia.
Eppure la sensazione netta è quella di essere maledettamente in ritardo rispetto alle previsioni. Oggi la ricerca scandaglia in diverse direzioni nel tentativo di realizzare una vera intelligenza artificiale. La nuova frontiera è rappresentata dal computer di quinta generazione, capace addirittura di apprendere, rielaborando le proprie esperienze precedenti. È questo l'ambizioso progetto di una fondazione statale giapponese, guidata dal professor Kazuhiro Fuchi, che si propone di raggiungere l'obiettivo entro il 1990. Al Politecnico di Milano, intanto, un'equipe sta cercando di insegnare al computer l'arte di leggere parole e numeri scritti in ogni possibile grafia; mentre al M. I. T. di Boston un altro computer è già in grado di eseguire semplici ordini impartiti a viva voce da esseri umani (purché esenti da difetti di pronuncia...).
Nel campo della miniaturizzazione, sembra molto promettente lo sfruttamento dell'effetto Josephson, basato sulle sorprendenti proprietà di conducibilità e fluidità dell'elio liquido, a temperature prossime allo zero assoluto (-273 °C): ciò permetterebbe di progettare circuiti integrati dello spessore incredibilmente ridotto, una decina di molecole in tutto. Dopo l'home omputer, ci aspetta quindi il pocket computer, e questo mentre l'Università di Tokio annuncia la realizzazione del primo biochip, un integrato formato di sostanza organica, la cui applicazione potrebbe rivoluzionare tutta l'attuale tecnologia.
Ma oramai non si tratta più di una corsa contro il tempo: la cibernetica ha semplicemente imboccato un'altra strada. Ogni giorno leggiamo articoli sui robot che entrano in fabbrica, sull'automatizzazione di procedimenti di lavoro pesanti o pericolosi per l'uomo. Di fatto, però, questi robot non sono i simpatici androidi di metallo lucente che la fantascienza ci ha reso familiari, bensì sono arti, macchine sofisticate e rapide, coordinate da computer programmati secondo necessità.
Al di là delle difficoltà ancora esistenti per realizzare un robot antropomorfo, ci si è resi conto di quanto sia inutile e dispendioso concepire e costruire simili macchine, completamente autosufficienti e versatili, in grado di svolgere qualsiasi compito. L'orientamento, quindi, è quello di realizzare fabbriche (o case) automatizzate, dove un unico cervello pensante coordini il lavoro di un corpo smisurato, formato da centinaia di braccia e di altri arti (dai nastri trasportatori a congegni deputati allo svolgimento di singole funzioni). Un primo esempio in Italia di fabbrica automatizzata è rappresentato dallo stabilimento Fiat di Termoli, dove il nuovo motore Fire viene costruito interamente senza l'intervento dell'uomo. In questo senso risulta profetica l'immagine di una fabbrica completamente autosufficiente e robotizzata descritta dall'autore polacco Stanislaw Lem nel suo romanzo Pianeta Eden.
Di fronte a simili anticipazioni sulla linea di sviluppo futuro delle macchine pensanti è ancora lecito parlare di robot? In un certo senso sì, dato che robot, appunto, significa lavoratore, ma questa parola non può essere più intesa come voleva la fantascienza. Il robot non sarà un androide, un automa di forma umana, ma un super-cervello dal corpo alieno, frammentato in mille organi meccanici che nulla hanno di umano.
Ciò non toglie che, vuoi per realizzare un antico sogno, vuoi per una dimostrazione puramente accademica, in futuro possa fare la sua comparsa un robot antropomorfo. Ma il buon vecchio Robbie descritto da Asimov sarà confinato in un parco divertimenti, una sorta di Disneyland del futuro, o in uno zoo tecnologico per le razze in via di estinzione.

FINE