Science Fiction Project
Urania - Asimov d'appendice
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CAMBIAMO ARIA - Isaac Asimov
Titolo originale: A change of air
Alcune settimane or sono mi trovavo al Massachusetts Institute of Technology in occasione della premiazione di sei meritevoli personaggi, ciascuno presentato da un individuo altrettanto importante. In questo gruppo di dodici personalità figuravano tre premi Nobel, il più illustre dei quali si poteva forse considerare l'ottantasettenne Linus Pauling, insignito ben due volte dell'ambito riconoscimento (per la Chimica e per la Pace). Egli era intervenuto a presentare appunto uno dei premiati, il novantaquattrenne Herman F. Mark, suo professore di un tempo, e, mentre mi godevo Io spettacolo dei due anziani studiosi che si scambiavano raggianti sorrisi, cercavo d'immaginare quali potessero essere i sentimenti di Herman Mark nel vedersi presentare, dopo tanti anni, da quel giovincello del suo discepolo.
Anch'io, sia detto per inciso, facevo parte del gruppo dei sei premiati, e sebbene non mi sentissi certo all'altezza degli altri luminari, sostenni nel mio discorso il buon nome della fantascienza e accettai ben volentieri il magnifico riconoscimento che mi venne conferito.
Prima di recarci all'auditorium del M. I. T. delegato ad accogliere la cerimonia di premiazione, avevamo cenato al Boston Museum of Science, dal quale c'eravamo poi mossi a bordo d'una flottiglia di berline. Incombeva una sera buia e piovigginosa, sull'area urbana Boston-Cambridge, una zona che già di per sé sembra creata appositamente per far perdere la bussola.
Avvenne dunque che, inevitabilmente, la nostra vettura finì per smarrirsi. Tentai entrambe le sponde del Charles River ed eseguii parecchie incursioni lungo Massachusetts Avenue. Tutto inutile. La mia cara moglie Janet, che nutre una commovente fiducia nei confronti della gente, a un certo punto tese il dito a indicare fuori del finestrino e propose: - Domandiamo a quell'uomo.
Cosi facemmo, sebbene io obiettassi che in simili circostanze non avviene mai che un passante si riveli di una qualche utilità. Pur trattandosi evidentemente di uno studente del M. I. T.. costui non si sottrasse alla regola. Dopo di che chiedemmo ad altre settantadue persone, nessuna delle quali seppe indicarci la strada per l'auditorium. Anzi, molte di loro parvero persino sconcertate dal fatto che ci esprimessimo in lingua inglese.
C'imbattemmo finalmente in un poliziotto che chiese aiuto col suo radiotelefono e, a tempo debito, sopraggiunse un'auto di pattuglia che provvide a guidarci a destinazione. Arrivammo con venti minuti di ritardo, e l'ameno suggerimento, avanzato da Janet, di fare il nostro ingresso in sala ammanettati per suscitare più scalpore non venne preso in considerazione.
Vi assicuro comunque che, anche nei meandri della scienza, è facile perdersi, soprattutto se s'imbocca la strada sbagliata.
Nel 1798, ad esempio, l'astronomo e matematico francese Pierre Simon de Laplace avanzò la sua "ipotesi nebulare", sostenendo che il sistema solare si fosse formato da una gigantesca nube di polvere e gas (una nebulosa), in lenta rotazione e condensazione per effetto della propria forza di attrazione gravitazionale. In base alla legge di conservazione del momento angolare, la rotazione si sarebbe fatta man mano più veloce col procedere del processo di condensazione, sino a creare in zona equatoriale una protuberanza che si sarebbe distaccata dalla nebulosa e avrebbe finito per condensarsi in un pianeta. In seguito, stessa sorte sarebbe toccata a un altro rigonfiamento di materia, poi a un altro ancora, e così via.
Si trattava di un'ipotesi ingegnosa sebbene sostanzialmente inadeguata, che godette d'immensa popolarità per tutto il diciannovesimo secolo. Essa diede fra l'altro origine al concetto che un pianeta avrebbe dovuto risultare tanto più vecchio quanto più distante dal Sole. Quindi Marte sarebbe stato milioni d'anni più antico della Terra, e questa, a sua volta, milioni d'anni più antica di Venere.
Ciò induceva agevolmente a supporre che su Marte esistesse una razza di esseri intelligenti in possesso di facoltà mentali e capacità creative di gran lunga superiori alle nostre, avendo avuto a disposizione, per evolversi, un arco di tempo immensamente superiore. Venere, d'altra parte, un mondo tanto più giovane rispetto alla Terra, lo si riteneva ancora immerso nell'equivalente della nostra era mesozoica, con tutto il relativo repertorio di acquitrini e giungle e dinosauri e altre sensazionali forme di vita attribuibili a epoche remote.
L'osservazione astronomica di Marte e Venere parve recare sostegno a tali opinioni. Marte mostrava di possedere calotte polari, quindi doveva pure disporre di acqua, ma dal suo colore rossastro sembrava naturale dedurre che si trattasse di un pianeta in gran parte desertico. Considerate le modeste dimensioni e la debole forza di gravità. Marte avrebbe verosimilmente potuto perdere molte delle sue risorse idriche nel corso degli eoni; quando, nel 1877, nacque la storia dei famosi canali, divenne dunque facile immaginare una razza di superintelletti impegnati a trasportare il prezioso liquido dai poli fino ai deserti marziani, nonché a progettare l'invasione e la conquista d'un pianeta copiosamente provvisto d'acque come la Terra.
Venere, d'altro canto, col suo spesso strato di nubi perenni, suggeriva l'idea di poter essere un pianeta abbondantemente annacquato. Qualcuno si spinse fino a ipotizzare un mondo del tutto privo di terre emerse, interamente ricoperto da un unico immenso oceano. In effetti fu proprio così che descrissi Venere nel mio romanzo Lucky Starr e gli oceani di Venere (prima edizione 1954: versione italiana Oscar Mondadori n. 2101).
Negli anni Cinquanta, comunque, l'originaria concezione di Laplace risultava abbandonata già da lungo tempo in quanto ritenuta assolutamente inadeguata. Un'assai più acuta e pertinente versione della teoria nebulare era stata proposta nel 1944 dall'astronomo tedesco Carl Friedrich von Weizsacker, secondo il quale tutti i pianeti del sistema solare dovevano essersi formati all'incirca contemporaneamente. Al giorno d'oggi, in effetti, abbiamo la quasi assoluta certezza che Marte, la Terra e Venere possiedono la medesima età, e non esiste più alcun valido motivo per immaginarsi un Marte vegliardo e un Venere giovinetto.
Gli scrittori di fantascienza, però, tirarono avanti come se nulla fosse. Le vecchie abitudini son dure a morire... e poi l'idea di una progredita razza marziana a noi ostile, e la concezione di un primitivo ambiente venusiano infestato dai dinosauri, erano troppo romantiche e appassionanti perché si potesse di punto in bianco gettarle nel cestino.
Questo atteggiamento conservatore venne incentivato dalla circostanza che, ancora alla metà degli anni Cinquanta, noi terrestri ignoravamo pressoché interamente le caratteristiche chimico-fisiche degli altri pianeti del nostro sistema. Nel fascicolo di Astounding Science Fiction del marzo 1957 apparve un mio saggio intitolato "I pianeti possiedono un'atmosfera", nel quale esponevo un gran numero di puntualissime nozioni circa i gas e le forze di gravitazione planetaria e i vari tipi d'atmosfera, evitando però accuratamente di esprimere alcunché a proposito di Venere, sulla cui atmosfera continuavamo a non sapere un bel nulla.
Un anno dopo la pubblicazione dell'articolo, tuttavia, la situazione cambiò completamente. Ecco come andò.
Tutti gli oggetti, tranne quelli allo zero assoluto (e non esistono oggetti allo zero assoluto), emettono radiazioni elettromagnetiche, se collocati in un ambiente che possieda una temperatura inferiore a quella degli oggetti stessi. Quanto più elevata è la temperatura di un oggetto, tanto minore è la lunghezza d'onda di tali radiazioni. Allorché viene raggiunta una temperatura di circa 600 °C, parte delle radiazioni emesse possiedono una lunghezza d'onda sufficientemente ridotta da divenire visibili sotto forma di luce rossa, e si dice appunto che l'oggetto è al "calor rosso".
Se la temperatura continua ad aumentare, la lunghezza d'onda delle radiazioni che divengono man mano visibili continua progressivamente a diminuire. L'oggetto assume pertanto una colorazione arancione, poi gialla, quindi bianca, infine blu-bianca, e se la temperatura raggiunge livelli sufficientemente elevati gran parte della radiazione sconfina nell'ultravioletto, ridivenendo invisibile.
Esaminando la distribuzione delle lunghezze d'onda che concorrono a formare la luce solare e la natura delle righe scure di assorbimento, o righe di Fraunhofer (il che ci consente di dedurre in qual misura i diversi atomi sono ionizzabili), si può giungere a determinare con una certa precisione la temperatura superficiale del Sole. Anzi, diciamo pure la temperatura superficiale di qualunque stella il cui spettro luminoso ci risulti osservabile.
Ma come procedere nel caso di oggetti non sufficientemente caldi da emettere luce in quantità apprezzabile? Be', si dà il caso che essi producano comunque radiazione infrarossa, con lunghezza d'onda superiore a quella della luce rossa. L'infrarosso non è percepito dalla retina dell'occhio umano, e quindi non possiamo vederlo, però viene in compenso assorbito dalla nostra pelle e rilevato dalle terminazioni nervose sensibili al calore. Se avviciniamo la mano a una pentola d'acqua bollente, ne avveniamo l'intenso calore ben prima di giungere a toccarla.
Man mano che un oggetto diviene più freddo, emette radiazioni di lunghezza d'onda gradualmente più lunga. Noi non siamo in grado di avvertirle con nessuno dei nostri sensi, ma l'emissione radiante è comunque sempre presente. Oltre l'infrarosso troviamo infatti microonde di crescente lunghezza d'onda, abbondantemente prodotte da oggetti che al tatto risultano decisamente freddi. Se riuscissimo a captare le microonde provenienti da un oggetto lontano, la loro intensità e lunghezza d'onda potrebbero quindi fornirci precise informazioni circa la temperatura dell'oggetto medesimo.
Dopo la seconda guerra mondiale, grazie al continuo sviluppo della tecnologia radar (che si serve appunto delle microonde), gli astronomi arrivarono a costruire grandi radiotelescopi capaci d'individuare e raccogliere piccole quantità di radiazioni a microonda, proprio come i normali telescopi individuano e raccolgono piccole quantità di luce.
Nel 1958 un gruppo di astronomi amen cani, sotto la direzione di Cornell H. Mayer, utilizzò un radiotelescopio abbastanza sensibile da rilevare le radiazioni a microonda emesse dalla faccia in ombra del pianeta Venere.
Quante radiazioni si aspettavano di captare?
Ciò dipendeva in parte dalla velocità di rotazione di Venere, ma nessuno, nel 1958 ne sapeva nulla. Le nubi in continuo movimento attorno al pianeta non presentano alcun tratto caratteristico che possa fungere da stabile punto di riferimento, e d'altronde, la superficie planetaria al di sotto delle nubi rimane totalmente invisibile.
Alcuni astronomi ritenevano che Venere rivolgesse costantemente la medesima faccia verso il Sole: se in effetti così fosse stato, l'emisfero opposto si sarebbe trovato immerso in un'oscurità perenne, e avrebbe posseduto senza dubbio una temperatura decisamente bassa. Correnti d'aria provenienti dalla faccia illuminata avrebbero recato, è vero, una certa quantità di calore verso l'emisfero notturno, però sempre in misura assai limitata (com'è dimostrato, sulla Terra, da quanto accade nelle regioni antartiche durante i mesi invernali). Di conseguenza, la radiazione a microonde proveniente dall'emisfero buio avrebbe dovuto avere intensità alquanto modesta.
Altri astronomi, invece, pensavano che Venere potesse presentare un periodo di rotazione simile al ciclo di ventiquattr'ore tipico della Terra e di Marte: l'emissione di microonde, in tal caso, avrebbe dovuto indicare una temperatura non troppo dissimile da quella terrestre, dato che la maggior vicinanza di Venere al Sole sarebbe stata probabilmente controbilanciata dall'effetto riflettente esplicato dallo strato di nubi su gran parte della luce solare.
Allora: Mayer rilevò la radiazione a microonde proveniente da Venere, però non ottenne conferma a nessuna delle due ipotesi suddette. Non poté infatti dedurre né una bassissima temperatura adeguata a un eventuale emisfero eternamente sottratto al Sole, né una temperatura prossima ai valori terrestri... e neppure, a dire il vero, una qualunque situazione intermedia.
Ciò che egli invece captò fu un profluvio di microonde che denotavano una temperatura di almeno 300 °C, e cioè qualcosa come duecento gradi centigradi oltre il punto di ebollizione dell'acqua. Fu una scoperta sconvolgente. Nessuno si era aspettato che su Venere facesse tanto caldo.
Ma perché Venere si è rivelato un pianeta così rovente? Lo strato di nubi dovrebbe senza dubbio mantenere la temperatura a livelli assai inferiori, e invece Venere risulta addirittura più torrido dello stesso Mercurio, sebbene questo graviti a minor distanza dal Sole e sia non solo sprovvisto di nubi che possano rifletterne la luce, ma privo del tutto di una qualunque atmosfera.
Può darsi dunque che l'atmosfera di Venere, invece di tendere a raffreddare il pianeta per effetto dell'isolamento costituito dalla cortina di nubi, agisca, al contrario, in modo tale da riscaldarlo.
Bisogna infatti tener presente che la radiazione solare raggiunge una superficie planetaria sotto forma di onde abbastanza brevi da ricadere nello spettro visibile. Il pianeta assorbe questa luce, e la sua superficie si riscalda. Di notte, poi, la superficie irradia il proprio calore nel vuoto dello spazio, ma poiché il pianeta, a differenza del Sole, non è abbastanza caldo da emettere energia luminosa, ciò che esso restituisce sono raggi infrarossi.
L'ossigeno, l'azoto e l'argo, principali costituenti dell'atmosfera terrestre, sono trasparenti sia alla luce che all'infrarosso. Per quanto riguarda, quindi, la presenza di questi tre gas, la luce può raggiungere la superficie terrestre durante il giorno, e l'infrarosso abbandonare la superficie terrestre durante la notte, senza subire alcuna interferenza, con il conseguente mantenimento di un certo equilibrio termico.
L'anidride carbonica e il vapore acqueo, invece, sono sì trasparenti alla luce, ma non del tutto all'infrarosso. Ciò significa che mentre di giorno la luce non ha difficoltà a raggiungere la superficie terrestre, l'infrarosso irradiato di notte dalla stessa superficie rimane parzialmente bloccato. La temperatura media subisce pertanto un piccolo innalzamento. Sono proprio le modeste quantità di anidride carbonica e vapor acqueo presenti nella nostra atmosfera a rendere la temperatura media terrestre più mite e, sostanzialmente, più adatta alla vita.
È quello che si definisce "effetto serra" per analogia con quanto avviene appunto nelle serre, il cui involucro di vetro o plastica consente alla luce di entrare ma ostacola la fuoriuscita dell'infrarosso, mantenendo così all'interno una temperatura abbastanza elevata anche in piena stagione invernale. A dire il vero, numerosi esperti hanno messo in evidenza che l'involucro trasparente, più che bloccare l'infrarosso, impedisce la dispersione dell'aria calda, prevenendo quindi non tanto un fenomeno d'irradiazione quanto piuttosto di convezione. Ma ormai l'espressione si è saldamente radicata nell'uso comune.
Immaginiamo, dunque, che Venere non possieda affatto il genere di atmosfera che gli avevamo attribuito. Sinché rimanevamo fermi all'originaria concezione di un pianeta Venere straripante di vita mesozoica, non potevamo fare a meno di collocarvi anche un'atmosfera sostanzialmente analoga a quella terrestre. Ma proviamo ad ammettere che le cose stiano diversamente...
Sì, cambiamogli aria, a Venere, e ipotizziamo che esso fosse, in origine, circondato da un'atmosfera ricca tanto di anidride carbonica quanto di vapor acqueo. Il cosiddetto effetto serra sarebbe stato in questo caso sufficiente a elevare la temperatura dei suoi oceani in misura tale da provocare la diffusione, nell'atmosfera, di una sempre maggior quantità di vapore acqueo. L'effetto serra ne sarebbe risultato incrementato e la temperatura avrebbe subito ulteriori aumenti, tanto da provocare l'emissione di anidride carbonica dalle rocce calcaree, il che avrebbe ancor più accentuato l'innalzamento termico. Gradualmente gli oceani stessi sarebbero entrati in ebollizione sino a evaporare per intero, e Venere si sarebbe infine trasformato in un pianeta estremamente caldo e totalmente, assolutamente asciutto. Vittima, insomma, di un inarrestabile effetto serra a catena.
Tale ipotesi venne energicamente sostenuta, fra gli altri, da Carl Sagan e James Pollack.
Alcuni astronomi, tuttavia, non intendendo rinunziare alla classica idea di un pianeta Venere decentemente provvisto d'acqua, argomentarono che la copiosa emissione di microonde avrebbe potuto non essere affatto dovuta al calore superficiale, ma semplicemente a fenomeni elettrici aventi luogo negli strati superiori dell'atmosfera venusiana. Si era scoperto di recente che Giove possedeva un potente campo magnetico e produceva una radiazione a microonde non derivante dal calore di superficie. Nulla, apparentemente, impediva di attribuire anche a Venere un analogo meccanismo radiante.
Ma esisteva qualche particolare aspetto dell'emissione di microonde sul quale far leva per decidere a favore dell'una o dell'altra ipotesi?
Era stato osservato che la radiazione risultava particolarmente intensa sulle lunghezze d'onda di tre centimetri e oltre, mentre decresceva rapidamente per lunghezze inferiori ai tre centimetri. Perché?
Ecco la spiegazione di Sagan. Se le microonde si fossero originate a causa del possesso, da parte di Venere, di una superficie ad alta temperatura, avrebbero dovuto innanzitutto traversare l'atmosfera del pianeta, prima di proiettarsi nello spazio in direzione della Terra. E l'atmosfera venusiana avrebbe potuto assorbire le microonde di lunghezza minore e lasciar passare quelle di lunghezza maggiore.
Se, al contrario, le microonde fossero scaturite dagli strati alti dell'atmosfera, avrebbero raggiunto lo spazio vuoto senza dover passare attraverso nessun rilevante mezzo materiale, e ammettendo tale eventualità sarebbe stato necessario trovare una qualche altra causa, diversa dall'assorbimento atmosferico, capace di render conto della bassa intensità radiante associata alle lunghezze d'onda minori. Ma gli scienziati non riuscirono a elaborare alcuna spiegazione convincente.
Anche l'ipotesi dell'assorbimento atmosferico, d'altronde, creava qualche difficoltà, in quanto avrebbe presupposto, per l'atmosfera venusiana, una densità d'un centinaio di volte superiore a quella dell'atmosfera terrestre, il che non era affatto facile da dimostrare.
Esisteva tuttavia un sistema migliore, per decidere fra le due teorie. Consideriamo innanzitutto le microonde scaturenti dal centro del disco planetario: esse viaggerebbero verticalmente attraverso l'atmosfera venusiana sino a raggiungere lo spazio, proseguendo poi verso la Terra. Osserviamo quindi il comportamento delle microonde emesse nei pressi del bordo planetario: prima d'immettersi nel vuoto dello spazio, esse dovrebbero traversare l'atmosfera obliquamente, incontrando quindi uno strato gassoso di spessore assai più ampio: ciò provocherebbe un maggiore assorbimento e una diminuzione delle microonde captabili sulla Terra.
Di conseguenza, spostandoci in qualunque direzione dal centro del disco planetario verso i bordi, constateremmo un aumento uniforme della quantità di radiazione assorbita e un costante decremento di quella ricevuta. Tale effetto di affievolimento radiante in prossimità dei bordi è un fenomeno ben noto, in quanto sul Sole stesso avviene che la coltre gassosa assorba parte della luce emessa dalla stella. Supponiamo invece che le microonde venusiane abbiano origine negli strati superiori dell'atmosfera, ad esempio nella ionosfera, ammesso che Venere ne sia provvista. In tal caso non si verificherebbe alcun assorbimento né al centro né verso i bordi, poiché al di sopra della ionosfera vi sarebbe ben poca presenza di altri gas. Tuttavia, considerata dalla Terra, la ionosfera venusiana risulterebbe comunque più spessa ai bordi che al centro, dato che ai bordi la si vedrebbe in prospettiva obliqua. Capteremmo pertanto più radioonde dai bordi che dal centro, con una intensificazione radiante che costituirebbe inversione del caso precedente.
Riassumendo, se dal bordo provenissero meno microonde che dal centro se ne dovrebbe dedurre una superficie planetaria ad alta temperatura; se invece fosse proprio il bordo a fornire l'emissione più intensa, andrebbero ipotizzate una ionosfera calda e una superficie relativamente fredda. Il fatto è che trent'anni or sono gli strumenti d'indagine a disposizione degli astronomi non consentivano loro di stabilire, standosene sulla Terra, quali microonde provenissero dal centro e quali dai bordi del pianeta Venere (mentre con le sofisticate apparecchiature odierne tale osservazione è divenuta possibile).
Ma il 27 agosto 1962 gli Stati Uniti lanciarono Mariner 2, una sonda destinata a passare nelle vicinanze di Venere compiendo tutta una serie di rilievi scientifici. Il 14 dicembre 1962 Mariner 2 rasentò la coltre di nubi venusiana transitando alla distanza minima di 34831 chilometri. A un ipotetico osservatore a bordo della sonda, Venere sarebbe apparso circa 35 volte più grande di quanto risulti la Luna vista dalla Terra.
Mariner 2 misurò l'intensità delle radiazioni con lunghezza d'onda di 1,9 centimetri provenienti da varie zone del pianeta, ottenendo esiti inequivocabili. L'emissione radiante manifestava affievolimento procedendo dal centro verso i bordi del disco planetario, e ciò suffragava in modo netto l'ipotesi che la superficie di Venere fosse notevolmente calda.
Quanto all'eventuale esistenza di un campo magnetico, Mariner 2 non ne rilevò alcuna traccia. E siccome la presenza di un campo magnetico è pressoché indispensabile al prodursi di microonde nella ionosfera, s'indebolì ulteriormente la teoria secondo la quale l'emissione di radiazioni a microonde avrebbe potuto considerarsi un fenomeno degli strati superiori dell'atmosfera venusiana.
In conclusione, l'accertamento dell'intensità della radiazione a microonde proveniente da Venere, che Mariner 2 effettuò in maniera molto più accurata di quanto non fosse possibile da Terra, rivelò che il pianeta era persino più caldo del previsto: non 300 gradi, bensì 400, la temperatura di superficie.
Venere fu successivamente avvicinato da sonde ancor più sofisticate, e l'Unione Sovietica riuscì a far discendere alcune capsule attraverso l'atmosfera del pianeta.
Verso la fine degli anni Sessanta si era giunti a stabilire che la temperatura di Venere doveva aggirarsi sui 480 gradi centigradi, e che la sua atmosfera possedeva davvero la densità deducibile dall'assorbimento delle microonde: circa cento volte superiore a quella dell'atmosfera terrestre. Quanto alla sua composizione, coerentemente con la teoria dell'effetto serra a catena, risultò un 95 per cento di anidride carbonica, e per il resto in prevalenza azoto (data la notevole densità atmosferica, l'azoto venusiano è presente in misura cinque volte superiore a quello terrestre, ma la quantità di anidride carbonica è talmente preponderante che, a paragone, l'azoto può essere considerato un componente minore).
Il quadro che finora ne emerge è già abbastanza orribile... ma che dire della fitta cortina nuvolosa di cui Venere si ammanta? Fin dalla loro scoperta si era ritenuto che le nubi venusiane, non diversamente da quelle terrestri, consistessero di acqua, in quanto pareva ragionevole supporre che il crescente calore sviluppato dall'inarrestabile effetto serra avesse fatto evaporare tutta l'acqua di superficie trasferendola permanentemente nell'alta atmosfera sotto forma, appunto, di nubi, e disperdendone una parte verso lo spazio esterno.
A partire dal 1973, tuttavia, gli astronomi incominciarono a sostenere che secondo i rilievi spettroscopici le nubi di Venere non parevano affatto contenere acqua pura, ma piuttosto una soluzione alquanto concentrata di acido solforico. Tale conclusione ricevette conferma verso la fine degli anni Settanta dalle sonde sovietiche penetrate nell'atmosfera venusiana, le quali rilevarono che essa conteneva più anidride solforosa che vapore acqueo. Con la conseguenza, tra l'altro, di un ulteriore incremento dell'effetto serra.
Ecco dunque la situazione complessiva: Venere può vantare enormi pressioni gassose, elevatissime temperature, un'atmosfera assolutamente irrespirabile e, dulcis in fundo, nubi di acido solforico. Abbastanza vicino, come osservò Sagan, all'idea che di solito la gente ha dell'inferno.
Sotto un solo aspetto Venere si rivelò un po' meglio del previsto. Era stato ipotizzato che la densa cappa nuvolosa potesse assorbire tanta di quella luce da lasciare immersa in un'eterna notte la superficie del pianeta. Ragion per cui le prime sonde sovietiche destinate a posarsi sul suolo venusiano furono munite di lampade che rendessero attuabile la ripresa d'immagini fotografiche.
Risultò invece che circa il due e mezzo per cento della luce solare che inonda Venere riesce a traversare le nubi e raggiunge la superficie, il che consente di scattare foto senza bisogno di far ricorso all'illuminazione artificiale. Infatti, poiché Venere riceve un'irradiazione solare d'intensità doppia rispetto a quella che conosciamo sulla Terra, ne discende che il suolo venusiano gode di un'illuminazione pari a circa un ventesimo di quella presente quaggiù da noi in una giornata serena. Ciò corrisponde a oltre un miliardo di volte l'intensità luminosa della Luna piena, e quindi, per lo meno, Venere è un inferno illuminato, e non avvolto da un sudario di tenebre.
Altro mistero: come mai Venere è sprovvisto di campo magnetico?
La Terra ha un diametro di 12756 chilometri: Venere di 12140. Rispetto all'acqua, la Terra ha una densità media di 5,5: Venere di 5.2.
Date tali rassomiglianze in dimensioni e densità, parrebbe logico dedurre che se la Terra, come pare certo, possiede un nucleo di ferro fuso, allora anche Venere dovrebbe possederlo. Se consideriamo gli altri tre corpi celesti a noi più vicini, vediamo che la densità di Mercurio è 5,4: quella di Marte 4; quella della Luna 3.3. Di conseguenza, anche Mercurio dovrebbe contenere un nucleo di ferro fuso, mentre Marte e la Luna no.
Secondo le teorie attualmente più accreditate, la Terra possiede un campo magnetico perché, in seguito al suo relativamente rapido moto di rotazione, si formano vortici nel nucleo di ferro fuso, elettricamente conduttore. Pertanto, né la Luna né Marte, corpi celesti probabilmente privi di nucleo metallico liquefatto, dovrebbero presentare un campo magnetico: circostanza confermata, in effetti, dalle sonde spaziali.
Mercurio, invece, un nucleo di ferro fuso, come ho detto, ce l'ha quasi di sicuro, e sebbene il suo periodo di rotazione sia estremamente lungo (1407 ore, di fronte alle 24 della Terra), a quanto pare è tuttavia sufficiente a consentire l'esistenza di un pur debolissimo campo magnetico.
Rimane da considerare Venere. La possibilità che questo pianeta possieda un campo magnetico analogo (o più intenso o meno intenso) a quello terrestre, dipende sostanzialmente dal suo periodo di rotazione; e, l'ho già accennato, fino agli anni Sessanta nessuno aveva la minima idea dell'effettiva entità di tale parametro.
Era stato praticamente ipotizzato di tutto, da un minimo di 24 ore terrestri a un massimo - se Venere avesse ruotato sul proprio asse nello stesso tempo impiegato a percorrere una completa rivoluzione attorno al Sole - computabile in 5400 ore.
Ma supponiamo d'inviare su Venere un fascio di microonde: esso passerebbe attraverso la coltre di nubi con estrema facilità, e verrebbe poi riflesso dal suolo del pianeta. Se la superficie di Venere fosse pressoché immobile, il raggio di ritorno risulterebbe inalterato, e presenterebbe la medesima lunghezza d'onda posseduta alla partenza. Se invece la superficie di Venere fosse in movimento, se cioè il pianeta ruotasse sensibilmente sul proprio asse, la lunghezza d'onda del raggio incidente verrebbe leggermente modificata, e tale variazione sarebbe da noi rilevata nel raggio di ritorno. E quanto più rapido fosse il movimento rotatorio della superficie planetaria, tanto maggiore apparirebbe il cambiamento di lunghezza d'onda.
Il 10 maggio 1961 venne dunque trasmesso verso Venere un raggio a microonde, e i risultati dell'esperimento furono assolutamente sbalorditivi. Essi vennero resi noti da Roland L. Carpenter e Richard M. Goldstein nel 1962, mentre ancora il Mariner 2 era in viaggio.
Venere girava su se stesso addirittura più lentamente di quanto orbitasse attorno al Sole! A quel che se ne sa finora, si tratta di un caso assolutamente unico, nel nostro sistema solare.
Per l'esattezza, Venere ruota sul proprio asse in 243 giorni terrestri, corrispondenti a 5832 ore. Considerando tale periodo in termini di velocità di un punto appartenente alla linea equatoriale, è facile stabilire un esplicito confronto con la situazione di altri pianeti.
Un punto situato sull'equatore terrestre si muove a circa 1669 chilometri l'ora. Un punto sull'equatore di Mercurio a circa 11 chilometri l'ora. Un punto sull'equatore di Venere a circa 6,5 chilometri l'ora. In termini più suggestivi potremmo dire che la Terra fila come un aviogetto. Mercurio va di corsa, e Venere si fa una passeggiata.
E dal momento che già Mercurio dispone di un campo magnetico assai debole, non ci sarebbe nulla da meravigliarsi se Venere, in rotazione ancora più lenta, manifestasse una cosi modesta propensione a formare vortici nel proprio nucleo di ferro fuso, da doversi accontentare di un campo magnetico praticamente non rilevabile.
In effetti, come ho sopra rammentato, quando Mariner 2 raggiunse Venere non riuscì a scoprire alcun campo magnetico, e questo fatto servì di per sé a confermare l'estrema lentezza della rotazione venusiana.
Prima di accomiatarmi vorrei soggiungere, giusto per ribadire l'originalità del nostro nebuloso vicino interplanetario, che Venere non solo ruota con sorprendente indolenza, ma, oltretutto, nel verso "sbagliato". Invece di girare da ovest verso est come fanno il Sole, Mercurio, la Terra, la Luna, Marte, Giove, Saturno e Nettuno, gira da est verso ovest.
Il perché, a essere sinceri, non lo sappiamo proprio... ma comunque non pretenderemo mica di sviscerare noi tutti i misteri di Venere, no? Dopo aver appreso, negli ultimi trent'anni, tante belle cose sul suo conto (siamo persino riusciti a tracciarne, con fasci di microonde, una mappa di superficie), vorremo di sicuro lasciare qualcosa d'insoluto su cui anche i futuri astronomi possano lambiccarsi con impegno e soddisfazione.
FINE