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Urania - Asimov d'appendice
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IL SEGRETO DELL'UNIVERSO - Isaac Asimov
Titolo originale: The secret of the universe
I paradossi, intesi come contraddizioni in termini, mi hanno sempre irritato. È mia ferma convinzione che l'universo funzioni in modo tale da escludere il verificarsi di siffatte contraddizioni. Allorché, dunque, abbiamo l'impressione di trovarci in presenza di un paradosso, ciò può essere soltanto dovuto al fatto che abbiamo ostinatamente continuato a dire qualcosa che non avremmo dovuto dire.
Considerate, a mo' di esemplificazione, il seguente paradosso. Supponiamo che in una certa città esista un solo barbiere, e che costui rada tutti gli uomini della città tranne quelli che si radono da soli. Domanda: chi rade il barbiere?
Il barbiere non può radersi da sé in quanto egli rade solo quelli che non si radono da soli. D'altra parte, se egli non si rade è per ciò stesso tenuto, in base alla clausola iniziale, a radersi.
Si tratta, tuttavia, di un paradosso apparente, il quale sorge solo se insistiamo in un'asserzione intrinsecamente contraddittoria. Ecco invece un modo corretto per dare al problema una enunciazione ragionevole: "Il barbiere si rade da sé e, inoltre, rade tutti gli altri uomini della città tranne quelli che si radono da soli". Fine del paradosso.
Altro esempio. Un monarca assoluto ha ordinato che chiunque attraversi un certo ponte debba dichiarare scopo e destinazione de suo passaggio. Se mente, dovrà essere impiccato. Se dice la verità, verrà lasciato andare illeso.
A un uomo che si presenta per traversare il ponte viene rivolta la fatidica domanda, ed egli risponde: - Vado alla forca per farmi impiccare.
Dunque, vediamo: se lo impiccano vuol dire che aveva detto la verità, e in tal caso lo si sarebbe dovuto lasciare in pace. Ma se lo lasciano andare, allora ha mentito, e quindi avrebbe dovuto essere impiccato. Il serpente si morde la coda.
È chiaro che una risposta del genere va prevista e proibita a priori, altrimenti il regale decreto risulterebbe privo di senso (anche se immagino che, in una situazione reale, il despota potrebbe ordinare: - Impiccatelo perché ha cercato di fare il furbo. Oppure: - Non ha detto la verità finché non è stato impiccato, ma adesso lasciate in pace il suo cadavere).
Nelle scienze matematiche esiste, in effetti, la tendenza a prevenire il sorgere di paradossi. Se ad esempio fosse consentita la divisione per zero, si potrebbe facilmente dimostrare che tutti i numeri di qualunque genere sono uguali. Onde evitare tale malaugurata circostanza, i matematici hanno quindi arbitrariamente deciso di proibire, appunto, la divisione per zero, risolvendo il problema alla radice.
Si danno tuttavia sottili paradossi che in matematica rivestono una loro utilità, in quanto stimolano la riflessione speculativa ed incoraggiano il rigore scientifico. Nel 450 avanti Cristo, per esempio, il filosofo greco Zenone di Elea propose quattro paradossi intesi a dimostrare che il movimento, così come lo percepiscono i nostri sensi, è impossibile.
Il più noto di tali paradossi è quello che va sotto la denominazione di "Achille e la tartaruga" ed è congegnato nel modo seguente.
Supponiamo che Achille (il più lesto di gambe fra gli eroi greci coinvolti nell'assedio di Troia) sia dieci volte più veloce di una tartaruga, e immaginiamo che i due s'impegnino in una gara di corsa e che alla partenza sia concesso alla tartaruga un vantaggio di dieci metri.
Ebbene, date queste premesse è possibile sostenere che Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, poiché nel tempo impiegato dall'eroe per coprire i dieci metri che lo separano dalla posizione iniziale della tartaruga, l'animale ha percorso un metro, e al momento in cui Achille ha superato anche questo metro la tartaruga è andata avanti di un altro decimetro, e nel tempo che Achille impiega a percorrere il decimetro la tartaruga è avanzata di un centimetro... e così via all'infinito. Achille si avvicinerà sempre più alla tartaruga, ma non riuscirà mai a raggiungerla.
Il ragionamento teorico non fa una grinza, però sappiamo tutti benissimo che, alla prova dei fatti. Achille supererebbe la sua avversaria in pochi istanti. In realtà, generalizzando, se due persone A e B gareggiano in corsa, e se A è più veloce di B anche in minima misura, A finirà per raggiungere e superare B per quanto grande (ma finito) sia il vantaggio iniziale di B, a condizione che entrambi viaggino a velocità costante per un tempo indefinitamente lungo.
Ecco dunque il paradosso: il ragionamento logico ci dice che Achille non può raggiungere la tartaruga, mentre l'osservazione pratica ci dimostra il contrario.
Circostanza questa che ha lasciato assai perplessi i matematici per duemila anni, in parte perché si riteneva per certo che, data una serie infinita di numeri del tipo 10 + 1 + 1/10 + 1/100..., la loro somma dev'essere infinita, e così pure infinito dev'essere il tempo necessario a coprire una distanza rappresentata da tali numeri.
Finalmente, tuttavia, i matematici si resero conto che questo presupposto in apparenza ovvio - una serie infinita di numeri, comunque piccoli, deve dare una somma infinita - era invece, semplicemente, errato. È opinione comune che a darne dimostrazione sia stato, verso il 1670, il matematico scozzese James Gregory (1638-1675).
Col senno di poi, la cosa è sorprendentemente facile da provare. Consideriamo la serie 10 + 1 + 1/10 + 1/100... Sommando 10 e 1 abbiamo 11; aggiungendo 1/10 otteniamo 11,1; aggiungendo 1/100 otteniamo 11,11; aggiungendo 1/1000 otteniamo 11,111... Il che, continuando indefinitamente, ci dà nient'altro che 11,1111111111..., e cioè un numero decimale infinito il cui valore frazionario è però solamente 11 e 1/9.
Di conseguenza, l'intera serie infinita di numeri infinitamente decrescenti che rappresenta il vantaggio della tartaruga su Achille ammonta a soli 11 metri e 1/9, e Achille raggiunge la tartaruga nel tempo impiegato a percorrere, appunto, 11 metri e 1/9.
Una serie infinita di numeri con somma finita è quella che si chiama "serie convergente", e a mio parere l'esempio più elementare in tal senso è 1 + 1/2 + 1/4 + 1/8..., dove ogni termine è la metà del precedente. Se provate ad addizionare i primi termini, non avrete difficoltà a convincervi che la somma dell'intera serie infinita è semplicemente 2.
Al contrario, una serie infinita con somma infinita è detta "serie divergente". È chiaro, per esempio, che i numeri della serie 1 + 2 + 4 + 8... vanno aumentando di valore indefinitamente, cosicché la loro somma può essere ritenuta infinita.
Non è sempre facile distinguere a prima vista una serie convergente da una divergente. Per esempio, la serie 1 + 1/2 + 1/3 + 1/4 + 1/5... è divergente. Provate a sommarne gli addendi, e otterrete un risultato sempre più grande. C'è da dire che l'aumento in valore della somma è progressivamente più lento, ma se si ha la pazienza di aggiungere abbastanza termini, si possono ottenere risultati superiori a 2, a 3, a 4, o a qualunque altro numero non importa quanto grande.
Credo che si tratti della serie la più gradualmente divergente possibile.
Se la memoria non m'inganna, scoprii l'esistenza delle serie convergenti a quattordici anni, durante il primo corso d'algebra delle superiori, e ne rimasi davvero sbalordito.
Purtroppo non ho mai avuto, come suol dirsi, il bernoccolo della matematica. Ci sono individui che fin dall'adolescenza si rivelano spontaneamente in grado di afferrare sottilissimi nessi fra gli enti numerici e le grandezze geometriche - gente come Galois, Clairaut, Pascal, Gauss ecc. - ma io, ahimè, ero distante anni luce dalla schiera di tali eletti.
Mi affannai comunque volenterosamente attorno alle serie convergenti, e qualcosa, seppure in modo vago e non sistematico, riuscii a comprenderne. Adesso, a distanza di oltre cinquant'anni, con molta più esperienza sulle spalle, sono in grado di ripercorrere quelle traballanti riflessioni giovanili in maniera decisamente più chiara e organica.
Consideriamo dunque la serie 1 + 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16..., e vediamo se ci riesce di trasformarla in qualcosa che si possa agevolmente visualizzare. Immaginiamo per esempio una serie di quadrati, il primo con lati di 1 centimetro, il secondo di 1/2 centimetro, il terzo di 1/4, il quarto di 1/8, e così via.
Supponiamo di unirli tutti fra di loro in modo tale da avere il più grande sulla sinistra, il secondo per dimensioni accostato a destra del primo, il terzo a destra del secondo, il quarto a destra del terzo, e via accostando. Otterremo un segmento costituito da un numero infinito di quadrati sempre più piccoli, uno a fianco dell'altro.
Tutti quanti presi insieme, ripeto tutti quanti, arriverebbero ad una lunghezza complessiva di 2 centimetri. Il primo occuperebbe metà del totale, il secondo occuperebbe metà della rimanenza, il terzo ancora metà di quanto non occupato dai primi due, e così via, all'infinito.
Va da sé che i nostri quadrati diventano, con grande rapidità, estremamente piccoli. Il ventisettesimo quadratino avrebbe all'incirca le dimensioni di un atomo, e una volta che fosse stato collocato al suo posto, dei 2 centimetri complessivi avanzerebbe, alla sua destra, appena l'equivalente di un altro atomo. Ciò nonostante, in questo residuo spazio submicroscopico potrebbero trovare ancora posto un numero infinito di altri quadrati di ulteriormente decrescenti dimensioni.
Il ventisettesimo quadrato possiede lati di circa 1/100.000.000 (un centomilionesimo) di centimetro: ipotizziamo ora d'ingrandire di cento milioni di volte lui e tutti i quadrati alla sua destra. Tale ventisettesimo quadrato verrebbe ad assumere 1 centimetro di lato, e sarebbe affiancato da un quadrato di 1/2 centimetro, seguito a sua volta da un quadrato di 1/4 di centimetro, e via rimpicciolendo.
In poche parole, l'ingrandimento produrrebbe una serie esattamente identica, sia come dimensione dei quadrati sia come loro numero, alla nostra serie di partenza.
E se per caso in questa nuova serie prendessimo il cinquantunesimo quadrato, dimensioni all'incirca di un protone, e lo ingrandissimo a 1 centimetro di lato, esso pure continuerebbe comunque ad avere una coda di decrescenti confratelli uguali in numero e dimensioni a quelli della prima serie.
Potremmo ripetere l'operazione all'infinito, senza mai giungere ad esaurire la scorta. Per quanto lontano ci spingessimo lungo la serie... milioni, trilioni, duodecilioni di quadrati... alla destra avanzerebbe sempre un'interminabile sfilza assolutamente identica all'originale. Tale caratteristica si definisce "autosimilitudine".
E il tutto, ricordiamo, entra in uno spazio di due centimetri. Non che questi due centimetri abbiano qualcosa di speciale, però. Volendo, possiamo far entrare i nostri infiniti quadrati in un centimetro, o in un millimetro, o nel diametro di un protone. Non c'è differenza.
È inutile, purtroppo, tentare di "comprendere" un fatto del genere allo stesso modo in cui comprendiamo che in un metro ci sono cento centimetri. Non abbiamo né possiamo avere diretta esperienza delle quantità infinite. Possiamo solo cercar d'immaginare le conseguenze della loro esistenza, e tali conseguenze appaiono così totalmente estranee alla nostra esperienza comune, da risultare assurde.
Per esempio, il numero di punti di una linea è un infinito di ordine superiore rispetto all'infinita quantità dei numeri interi. Non esiste alcun concepibile sistema che consenta di mettere in corrispondenza tutti quei punti con altrettanti numeri interi. Se si provasse a disporre i punti in modo tale da allinearli con i numeri, si scoprirebbe immancabilmente che alcuni punti non sono affiancati da alcun numero. In effetti, un'infinita quantità di punti rimarrebbe priva di corrispondenza numerica.
D'altra parte, è possibile accoppiare biunivocamente tutti i punti di un segmento lungo un centimetro con tutti i punti di un segmento di due centimetri, il che porta a concludere che il segmento più corto possiede la stessa quantità di punti di quello più lungo. Anzi, si può addirittura affermare che un segmento di un centimetro di lunghezza contiene tanti punti quanti ne possono entrare nell'intero universo tridimensionale. Non chiedetemi di spiegarvi come ciò sia possibile. Nessuno potrà dirvi "perché". Lo si può dimostrare matematicamente, ma non è un fatto al quale si possa attribuire un senso logico nella normale accezione del termine.
Torniamo all'autosimilitudine". Si tratta di un fenomeno rilevabile non solo nel campo delle serie numeriche, ma anche in quello delle figure geometriche. Nel 1906, per esempio, il matematico svedese Helge von Koch (1870-1924) elaborò una specie di superfiocco di neve. Ora vi spiego come.
Si disegni un triangolo equilatero, se ne divida ciascun lato in tre parti uguali, si costruisca sulla parte mediana di ciascun lato un altro triangolo equilatero. Il risultato è una stella a sei punte. Si divida ora allo stesso modo ciascun lato esterno dei sei triangoli equilateri che costituiscono le punte della stella in tre parti uguali, e si costruisca di nuovo su ciascuna parte mediana un più piccolo triangolo equilatero. Otteniamo una figura orlata da diciotto triangoli equilateri. Ciascun lato esterno dei diciotto triangolini verrà poi, a sua volta, diviso in tre parti uguali... e così via, all'infinito.
Ovviamente, per quanto grande sia il triangolo iniziale, e per quanto accurato possa essere il vostro disegno, i proliferanti triangolini diverranno ben presto troppo piccoli perché riusciate a tracciarli sulla carta. Cercate quindi di continuare a disegnarli mentalmente, e provate a trarre le conseguenze di una simile operazione.
Supponendo di portare avanti all'infinito la costruzione del super-fiocco di neve, la lunghezza del suo perimetro risulterà essere una serie divergente. In altre parole, tale perimetro tenderà ad avere lunghezza infinita.
D'altro canto, l'area della superficie delimitata dal perimetro stesso formerà una serie convergente, contraddistinta quindi da somma finita.
Morale della favola, ci ritroveremo con un superfiocco provvisto di perimetro infinitamente lungo, ma di area soltanto 1,6 volte quella del triangolo equilatero iniziale.
Supponiamo ora di prendere in esame uno dei tre relativamente grandi triangoli originariamente costruiti sui lati del triangolo di partenza. Esso diverrà infinitamente complesso man mano che ne germoglierà un'interminabile serie di sempre più minuscoli triangolini. Ebbene, se consideriamo uno di tali infinitesimi triangolini, talmente piccolo che per vederlo ci voglia un microscopio, e immaginiamo d'ingrandirlo per poterlo osservare più facilmente, ci accorgeremo che possiede anch'esso una complessità per nulla inferiore a quella del triangolone suo antenato. E se poi ci ostineremo a proseguire prendendo un triangolo più piccolo, e poi uno più piccolo ancora, e così via all'infinito, potremo verificare che il grado di complessità non diminuisce. Il nostro superfiocco è evidentemente affetto da autosimilitudine.
Ecco un altro esempio. Immaginate un albero il cui tronco si suddivida in tre rami. Ogni ramo si suddivide a sua volta in tre rami più piccoli, ciascuno dei quali si suddivide ancora in tre rametti. Non è difficile supporre la reale esistenza, in natura, di alberi provvisti di siffatta ramificazione.
Per ottenere un superalbero matematico, tuttavia, dovete immaginare che la suddivisione di ciascun ramo in tre rami più piccoli vada avanti all'infinito. Un simile albero denoterebbe autosimilitudine, e ogni suo ramo, per quanto piccolo, mostrerebbe la medesima complessita dell'intero albero.
Le curve e le figure geometriche in possesso di tali stravaganti proprietà vennero inizialmente definite "patologiche", in quanto non obbedienti alle semplici regole che governano i poligoni, i cerchi, le sfere e i cilindri della normale geometria
Finché nel 1977 il matematico franco-americano Benoit Mandelbrot non si diede a studiare sistematicamente le curve patologiche dimostrando che la loro difformità rispetto alle caratteristiche e al comportamento delle figure geometriche convenzionali è ancora più profonda e sostanziale.
Non appena intraprendiamo lo studio della geometria elementare ci viene insegnato che un punto è privo di dimensioni, che una linea è monodimensionale, un piano bidimensionale, e un solido tridimensionale. Molto più avanti potremo magari scoprire che, considerando un solido come provvisto di durata ed esistente nel tempo, a esso andranno attribuite quattro dimensioni. Gli studiosi di questioni geometriche ad alto livello, poi, trafficano tranquillamente anche con un maggior numero di dimensioni.
Tutte queste dimensioni, certo, sono indicate con numeri interi: 0, 1, 2, 3, e via numerando. Come potrebbe essere altrimenti?
Eppure Mandelbrot riuscì a dimostrare che la curva delimitante il superfiocco è così intricata, che compie tali e tante giravolte ad ogni passo, da rendere impossibile considerarla una linea nel senso convenzionale del termine. Si tratta piuttosto di qualcosa che non è più una monodimensionale linea, ma non ancora un bidimensionale piano. Qualcosa, dunque, che possiede una dimensione intermedia fra 1 e 2. Mandelbrot calcolò tale dimensione come uguale al logaritmo di 4 diviso per il logaritmo di 3. Il che dà all'incirca 1,26186. Il perimetro del nostro superfiocco ha dunque una dimensione di poco superiore a 1 e 1/4.
Tutte le figure geometriche che, al pari di questa, possiedono dimensione frazionaria, sono state definite "frattali".
Si è poi scoperto che i frattali, ben lungi dal costituire null'altro che patologici esempi di figure geometriche elaborate dalla fervida fantasia dei matematici, si avvicinano invece agli oggetti del mondo reale molto più di quanto non facciano i piani levigati e le curve uniformi della geometria idealizzata, i quali, loro sì, non sono altro che prodotti dell'immaginazione.
In conseguenza di ciò, le scoperte di Mandelbrot sono andate assumendo un'importanza crescente.
Cambiamo ora in parte argomento. Diversi anni fa ebbi occasione di frequentare per qualche tempo la Rockefeller University, e lì conobbi Heinz Pagels. Era un tipo alto, coi capelli bianchi, un volto tranquillo e senza ombra di rughe, un carattere straordinariamente affabile e brioso.
Si trattava di un fisico, e nella sua materia ne sapeva molto più di me. Il che non deve sorprendere. Il mondo è pieno di gente che ne sa più di me in una cosa o nell'altra. Ebbi anche l'impressione che mi fosse superiore quanto a intelligenza.
Vi verrà fatto senza dubbio di pensare, se condividete l'opinione corrente secondo la quale possiedo un ego ipertrofico, che dovrei nutrire una violenta avversione nei confronti delle persone che si dimostrano più intelligenti di me, ma in realtà non è così. Ho infatti scoperto che gli individui provvisti di un'intelligenza più brillante della mia (e Heinz era il terzo di costoro in cui mi fossi mai imbattuto) sono estremamente cordiali e simpatici, e ho altresì rilevato che ad ascoltarli attentamente ne ricevo stimolo per sviluppare proficue idee. E le idee, dopo tutto, sono il mio pane quotidiano.
Ricordo perfettamente che, durante il nostro primo colloquio, Heinz parlò di "universo inflattivo", nuova teoria che, proponendo un inedito modello cosmogonico secondo il quale l'universo, nei primi istanti successivi alla sua formazione, si sarebbe espanso a enorme velocità, consentiva di chiarire alcuni punti lasciati controversi dalla precedente ipotesi di un big bang non inflattivo.
A destare il mio più vivo interesse fu soprattutto l'affermazione di Heinz che, secondo tale teoria, l'universo avrebbe avuto inizio da una fluttuazione quantica del vuoto: che, in altre parole, sarebbe stato creato dal nulla.
Comprensibile emozione, la mia, se si considera che nel numero di Fantasy & Science Fiction del settembre 1966, anni prima che venisse avanzata la teoria dell'universo inflattivo, avevo pubblicato un articolo nel quale ipotizzavo che al momento del big bang l'universo fosse stato creato dal nulla, spingendomi sino a proporre quello che avevo definito "Postulato cosmogonico di Asimov": In principio non c'era nulla.
Ciò non significa, si capisce, che avessi fin da allora previsto il concetto di universo inflattivo. Il fatto è che mi vengono questi sprazzi d'intuizione, ma poi mi manca la capacità di mandarli a effetto. Come a quattordici anni ebbi la vaga consapevolezza intuitiva dell'autosimilitudine in relazione alle serie convergenti, ma né allora né in seguito sarei mai stato in grado di giungere alle stesse conclusioni di Mandelbrot, così più tardi intravvidi il concetto di creazione dal nulla, ma neppure in un milione di anni sarei riuscito a elaborare la dettagliata teoria dell'universo inflattivo. Bisogna comunque riconoscere che questa mia propensione alla conoscenza intuitiva a qualcosa mi è servita, poiché non ci misi molto a rendermi conto che essa mi poneva in condizione di dedicarmi alla narrativa di fantascienza.
In seguito rividi Heinz con una certa regolarità, soprattutto dopo che egli divenne direttore della New York Academy of Sciences.
Ce ne stavamo una volta, lui, io e altri, a discutere del più e del meno, e Heinz se ne uscì con un quesito interessante.
- Ritenete possibile - ci chiese - che un giorno tutti gli enigmi della scienza possano ricevere soluzione, così che non rimanga più nulla da scoprire? Oppure pensate che sia impossibile trovare tutte le risposte? E, secondo voi, esiste un modo per decidere qui, su due piedi, quale dei due esiti sia il più verosimile?
Fui io il primo a rispondere. - Credo che si possa decidere subito, Heinz, e facilmente.
- Sentiamo, Isaac - ribatté lui.
- È mia ferma convinzione - dichiarai - che l'universo possieda, sostanzialmente, caratteristiche frattali di estrema complessità, e che la ricerca scientifica condivida tali caratteristiche. Ne deriva che qualunque parte dell'universo non ancora investigata, e qualunque problema scientifico non ancora risolto, per quanto possano apparire piccoli rispetto all'insieme del già investigato e del già risolto, contengono in sé la stessa profondità e multiformità del totale. Di conseguenza, non giungeremo mai a un punto conclusivo. Per quanto si possa andare lontano, la strada innanzi a noi conserverà sempre la medesima lunghezza che aveva all'inizio della nostra ricerca. Ecco il segreto dell'universo.
Avendo poi riferito tutto ciò a mia moglie Janet, lei mi scrutò meditabonda e disse: - Faresti meglio a metterla per iscritto, quest'idea.
Al che io replicai: - E perché? È soltanto un'idea.
- Già, però Heinz potrebbe servirsene.
- Lo spero proprio - fu il mio commento. - Io non ne so abbastanza, di fisica, per poterne cavare qualcosa, lui invece sì.
- Ma potrebbe dimenticare di averla sentita da te.
- E con ciò? Le idee sono merce inflazionata. Non contano di per sé, ma solo in relazione all'uso che se ne fa.
Qualche tempo dopo, precisamente il 22 luglio 1988, io e Janet ci recammo al Rensselaerville Institute, nella parte settentrionale dello stato di New York, per tenere il nostro sedicesimo seminario annuale, che quella volta avrebbe avuto come tema centrale i possibili effetti collaterali - scientifici, economici, politici - della biogenetica.
Ci fu, comunque, anche un sorprendente fuori programma. Mark Chartrand (conosciuto anni prima quand'era direttore dello Hayden Planetarium di New York), che non manca mai a quei seminari come osservatore accademico, aveva portato una videocassetta di trenta minuti sui frattali.
Ora dovete sapere che in virtù delle notevolmente accresciute potenze elaborative raggiunte negli ultimissimi anni, i computer sono divenuti capaci di tracciare figure frattali e di espanderle, in lenta progressione, milioni e milioni di volte. E si tratta sovente di frattali assai complessi, non solamente prevedibili bazzecole tipo superalberi o superfiocchi di neve. Come se non bastasse, tali elaborazioni grafiche sono rese ancor più vivide e movimentate con l'uso di suggestive simulazioni cromatiche.
Incominciammo a visionare cassetta alle 13.30 di lunedì 25 luglio 1988.
Apparve per prima, circondata da una corte di altre piccole figure, una cardioide (curva a forma di cuore), la quale andò pian piano crescendo sullo schermo. Una delle figure di contorno venne quindi lentamente a collocarsi in posizione centrale e, ingrandendosi progressivamente sino a riempire a sua volta quasi tutto il video, rivelò di possedere anch'essa il suo corteggio di figure minori.
Si aveva la netta impressione d'immergersi adagio adagio nelle pieghe più riposte d'una complessità che interminabilmente si rinnovava. Minuscoli oggetti, inizialmente nulla più di punti insignificanti, crescevano inarrestabili palesando via via la minuziosa articolazione della propria struttura, intanto che nuovi piccoli oggetti andavano all'intorno prendendo consistenza. E la spettacolare progressione pareva non dover conoscere mai fine. Continuammo a osservarla, ininterrotta, per mezz'ora, mentre le illimitate profondità della figura originaria si sviluppavano in sempre nuove visioni d'incessante bellezza.
Effetto assolutamente ipnotico. Io guardavo, guardavo, e dopo un poco, vi assicuro, non ero più in grado di distogliere la mia attenzione. In quei trenta minuti mi sentii davvero vicino come non mai a sperimentare l'infinito, invece di dovermi limitare a discuterne e a immaginarlo.
E quando l'esperienza terminò, fu penoso strapparsi a quell'incanto per far ritorno al mondo reale.
- Sono più che mai convinto - mormorai poi a Janet, con gli occhi e la mente ancora colmi d'interminati spazi - d'aver colto nel giusto in ciò che ho detto quella volta a Heinz. Come l'universo, così è anche la scienza... senza fine... senza fine... senza fine. La ricerca scientifica non giungerà mai al termine, ma continuerà invece ad immergersi sempre più nel profondo di una sconfinata complessità.
- Però questa tua idea non l'hai ancora scritta, vero? - replicò Janet dandomi un'occhiataccia.
- Hai ragione, non l'ho ancora scritta - ammisi.
Durante la nostra permanenza all'Istituto ci ritrovammo isolati dal mondo. Niente quotidiani né radio né televisione. Ma eravamo troppo occupati col seminario per farci caso.
Fu quindi solamente il 27 luglio, quando tornammo a casa nostra e mi diedi a sfogliare i giornali accumulatisi nel frattempo, che venni a conoscenza dell'accaduto.
Mentre noi eravamo al Rensselaer, Heinz Pagels partecipava a un importante convegno di fisici in Colorado. Pagels era un appassionato alpinista, e durante la pausa di fine settimana, domenica 24 luglio, aveva affrontato, insieme a un amico, la scalata del Pyramid Peak, una vetta di oltre quattromila metri. Dopo aver consumato in parete un pasto leggero, alle 13.30 (cioè esattamente ventiquattr'ore prima che io iniziassi a visionare la videocassetta) i due avevano intrapreso la discesa.
A un certo punto Pagels aveva poggiato il piede su una roccia malferma, che si era mossa sotto il suo peso facendogli perdere l'equilibrio. Era precipitato lungo il fianco della montagna, rimanendo ucciso sul colpo. Aveva 49 anni.
Quando, totalmente imprepato, giunsi a una delle pagine contenenti i necrologi e m'imbattei nello spaventoso annuncio, mi colse un turbamento indescrivibile, e dovetti lanciare un'esclamazione di sgomento, perché vidi Janet accorrere subito al mio fianco... dove non poté far altro che prendere atto, coi suoi stessi occhi, della dolorosa notizia.
- Adesso, purtroppo, non avrà più modo di usare la mia idea - le dissi, levando su di lei uno sguardo velato di mestizia.
Ecco dunque che mi son deciso a metterla finalmente per iscritto, quell'idea. In parte perché mi ha offerto la possibilità di dedicare qualche riga al ricordo di Heinz, un uomo per il quale nutrivo una grande ammirazione. E in parte perché desideravo rendere pubblico il concetto affinché qualcuno, se non Heinz, fosse messo eventualmente in grado di utilizzarlo, traendone qualcosa di più che una teoria.
Personalmente, non ne sono capace. Le mie possibilità si sono esaurite con l'idea stessa. Oltre, non mi è dato assolutamente di andare.
FINE