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Urania - Racconti d'appendice
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UNO SCONOSCIUTO ALLA PORTA - Wayne Wightman
Titolo originale: Unnatural strangers

E così, eccomi di nuovo alla prese con i freak. Il mondo non smette mai di stupirmi quando arriva a mettermi davanti alla porta di casa qualche scarto umano; costui, in particolare, con una faccia simile a un bersaglio per freccette parecchio usato, indossava un cappotto enorme e sudicio e guanti bianchi da giardiniere.
Era estate, al primo imbrunire, poche tracce di un tramonto arancione ancora sulle cime degli alberi, e un tordo che cantava dal folto di una siepe di ligustro. Vivo in una zona graziosa, un cambiamento di cui avevo bisogno dal mio precedente affitto in un bilocale dalle finestre sbarrate con ubriachi decorativi sdraiati sui prati. Era stato un pomeriggio piacevole; avevo passato il tempo in pigri pensieri lascivi su una certa Lenia Tsvetok.
Poi era apparso il morfinomane. Non era di questa zona, non faceva parte della mia vita, né del mio pomeriggio, né del mio quartiere.
- Mi hanno detto di cercarti - disse in tono sciropposo. La sua faccia aveva uno sguardo da ammazzami-se-vuoi-non-me-ne-frega-niente e davanti, sul cappotto, aveva avanzi ormai seccati di minestrone. Spero che fosse minestrone. - Hanno detto che hanno un messaggio per te.
- Ti dico io cosa devi fare. Ti darò un dollaro, e tu attraverserai la strada e andrai a riferire il tuo messaggio alla signora Winkelplek. - La signora Winkelplek era sorda ed era conosciuta per scoraggiare persone dall'apparenza sospetta.
- È un messaggio per te - disse lui, mangiandosi le parole.
In cuor mio sapevo che da qualche parte giovani madri stavano curando i loro neonati... un ragazzino aveva appena messo a segno la sua prima "base"... e Lenia Tsvetok era seduta da qualche parte con quel suo fisico stupefacente... ma dov'ero io non c'era gioia, e stavo per ricevere un messaggio. Da loro.
Feci un ultimo tentativo. - Ti darò una birra, una birra d'importazione, se te ne vai.
- Una che?
Riepilogai rapidamente: a) gli avevo detto di parlare con la signora Winkelplek; b) avevo tentato di corromperlo; dunque, c) la mossa seguente doveva essere l'intimidazione.
- Corri un bel rischio a stare qui, lo sai questo?
Drizzò la testa e mi guardò socchiudendo gli occhi, come se la mia immagine si stesse sfocando. - Se so... che?
- Questa zona è pattugliata da ex-membri della polizia segreta paraguaiana, ceffi che erano stati allontanati per l'eccessivo uso di violenza. Non hanno armi. Usano motoseghe.
- Un paio di... che?
Forse il gentiluomo sporco di minestrone abitava in un mondo per nulla simile al nostro. Forse era stato scaricato dalla navicella madre. Forse aveva bisogno di trovarsi un alloggio al dormitorio pubblico locale, dove, senza dubbio, avrebbe facilmente stretto amicizia.
Usò entrambe le mani per scovar fuori un rotolo di carta da una delle tasche del cappotto. Lentamente, con quei guanti bianchi da giardinaggio, lo srotolò, alzò la testa ed esclamò: - Tu sei Eeps. Hanno detto che hanno un messaggio per te.
Aveva il mio nome. Mi conosceva. Era il momento di concentrarsi sulla sopravvivenza. Come nota supplementare, lasciatemi rapidamente sottolineare che come Sebastian Eeps avevo scoperto che scappare quando si ha paura è come cercare di scappare da un cane rabbioso, se non che la paura corre più veloce. Quando ha paura, Eeps contrae gli addominali e stringe i pugni. Eeps passa all'azione.
- Allora - dissi a quell'individuo caucasico pieno di punti neri che portava grandi guanti bianchi - di preciso, chi mi manda questo messaggio?
- Loro.
- Capisco; sì, capisco. Quelli là. Loro.
Annuì. - Ho letto di te - disse in tono monotono. - Sapevo che avresti capito.
Così, non solo mi conosceva, ma sapeva delle cose sul mio conto. Occasionalmente, mi facevo coinvolgere nel campo dell'Insolito e del Bizzarro, con il solo scopo di descriverlo e venderlo come narrativa alle riviste di fantascienza. Prendevo fatti reali, li presentavo come narrativa, e quello che avevo davanti a me non era il primo idiota a supporre che la "mia narrativa" fosse segretamente realistica. Nel frattempo, ricevevo lettere di rifiuto dagli editori che dicevano: "Questo soggetto è troppo insolito per noi, che ne dice di scrivere una storia di robot?". C'è da meravigliarsi che debba sentirmi come un estraneo tra quelli della mia razza?
- Hai avuto delle esperienze - disse con la sua lingua morta. - Così, loro ti stanno mandando il messaggio.
- Ho una domanda da farti - dissi. Mi diede un'occhiata vacua. Gli agitai una mano davanti alla faccia, e quando ammiccò, proseguii. - Senza usare pronomi, chi sarebbero questi loro?
- Alieni.
- Già, che idiota a non averlo immaginato. Alieni, naturalmente. Sono gli alieni grandi o quelli piccoli?
- Uh. Quelli piccoli.
- Giusto. Quelle piccole cose con la testa pelata e liscia e con occhi simili a caramelle gommose succhiate.
- F-faresti meglio a non lasciarli... - Sembrava che si stesse innervosendo, così cercai di cambiare discorso.
- È minestrone questo?
- Che?
- Torniamo alla realtà, francamente parlando. Ho una seconda domanda. Questi alieni dalla testa liscia, qual è il loro messaggio?
Mi fissò per trenta secondi buoni, ma bastò schioccargli le dita avanti al naso poche volte, perché iniziasse ad ammiccare di nuovo.
- Oh, sì - disse - mi hanno detto che probabilmente non mi avresti creduto a meno che prima non ti avessi mostrato questo. Dovevo farlo prima.
Si tolse lentamente i guanti e iniziò a sbottonarsi il cappotto, e io cominciai a vedermi scorrere la vita davanti agli occhi.
Venti minuti prima stavo considerando la possibilità di telefonare a Lenia Tsvetok, offrendomi di mangiare litchi sul suo corpo nudo e nubile. Adesso mi trovavo in piedi sulla soglia di casa a guardare una specie di replicante che si apriva il cappotto, e mi aspettavo di vedergli estrarre un machete, un fucile da caccia, o qualche orribile strumento haitiano di smembramento...
Aprì il cappotto; non vi era nascosta alcuna arma all'interno, ma il corpo di questo tipo era tutto sottosopra. Pesava al massimo quarantacinque chili, gli mancava un capezzolo, e sembrava avesse subito cinque o sei gravi operazioni alla maggior parte degli organi più estesi. Ma stranamente - e io sono uno di quelli che notano queste cose insolite - le incisioni purpuree, grosse com'erano, non avevano il normale punto a croce chirurgico. Strano, pensai, iniziando a sentire la cena muoversi, mentre davo un'occhiata a quella vista piacevole.
- Guarda - disse, pizzicandosi l'apice della cicatrice sul capezzolo.
- Prego, niente dimostrazioni.
- Loro mi hanno detto di farti vedere...
- Davvero, non ce n'è bisogno! - Il pasto serale minacciava di diventare un rigurgito.
Tuttavia, lui si prese tra due dita un poco di pelle sotto il capezzolo mancante e la tirò, sbucciandosi fino in fondo. Produsse un leggero suono simile al Velcro quando si separò dalla sottostante... Dio mio... dalla sottostante superficie metallica che copriva una sezione della gabbia toracica. La placca di lamiera era grande all'incirca quanto la mia mano e luccicava di fluido intercellulare color paglierino.
- Vedi? - disse, guardandomi con fare ottenebrato. - Hanno detto che mi avresti creduto se te l'avessi mostrato.
Mi immaginai che, dal momento che avevo a che fare con l'Insolito e il Bizzarro, avrei dovuto lasciar entrare in casa quel tizio e magari farlo sedere su una sedia o permettergli di appoggiarsi al muro. Forse non si sarebbe lasciato dietro alcuna malattia.
- E va bene. Vieni dentro. Una birra?
- Non bevo più - disse mangiandosi le parole e grattandosi pigramente i punti neri sulla guancia.
- Anch'io vorrei smettere. - Stappai la lattina e mi versai mezza Kirin in gola. - Ok, mi hai convinto di esser stato sottoposto a qualche insolito intervento chirurgico, ma lo stesso è accaduto anche a mia zia Norelga. Sono cresciuto nel Missouri, vedi, così le cose misteriose non mi colpiscono come accade alla maggior parte della gente normale. Dunque, pretendi che qualche piccolo alieno di tipo hollywoodiano ti abbia inviato per trovarmi, per dirmi che ha un messaggio per me. Allora, qual è il messaggio? In parole semplici e con il minor numero di pronomi possibile?
- Uh. Ok. - Si schiarì la gola. - Non lo so.
- Non lo sai? - Considerai l'ipotesi di arrabbiarmi seriamente. - Raccontami tutta la storia e piantala di piluccarti quella maledetta guancia.
- Mi hanno preso ieri notte. Fuori, al recinto del bestiame, è scesa giù quella grande luce, quel grande raggio. Mi ha risucchiato. Poi mi hanno fatto questa roba. Dopo avermi tagliato, iniziano a dire: "Trova Eeps. Digli che abbiamo un messaggio". E io dico: "Ok, lo farò". Direi... - Contorse il viso come se stesse pensando. - Direi che così sei pronto. Devo andarmene ora - disse, alzandosi e camminando con passo strascicato verso la porta. - Devo incontrare i ragazzi alla stazione degli autobus. Poi andiamo alla missione per la cena. - Si girò all'improvviso e sogghignò. Era spaventoso. - Si spera che abbiano sistemato il televisore per oggi - esclamò. - Così, stasera, possiamo vedere "Domandissima". Dovrebbe essere abbastanza bello.
- Fammi capire bene - dissi, seguendolo fino alla porta ma rimanendo fuori dalla sua portata di tiro. - Sei stato preso dagli alieni, hai ricevuto istruzioni dagli alieni, sei stato fatto a pezzetti dagli alieni, porti messaggi da parte degli alieni, e mangi in una qualche missione e non vedi l'ora di vedere i giochi i premi alla televisione?
- Be', solo "Domandissima".. È rilassante. Fare il vagabondo può stancare molto. - Tese la mane per stringere la mia. Gli mancavano un paio di unghie ed era completamente senza pollice, ma non vidi alcuna piaga aperta, così gli strinsi la mano. Mi fece venire la pelle d'oca. Proprio così, ricevetti da quella stretta un brivido che mi corse per tutto il corpo.

Ero in piedi, davanti al lavandino del bagno, mi ero già lavato la mano tre volte con sapone e acqua calda, ma avevo ancora la pelle d'oca dopo aver toccato quel tizio. Mi innaffiai copiosamente la mano con alcol per frizioni, e completai l'operazione con una spruzzatina di perossido. Non potevo scrollarmi di dosso quella sensazione di viscidume provata per aver toccato quel tizio. Era una repulsione fisica, sottile come una manciata di interiora di pollo. Mi sentivo come se fossi stato toccato dalla Ripugnanza in persona.
Mi sedetti in soggiorno e fissai la sedia dove si era seduto lui. Senza pensarci due volte, la portai fuori, nell'angolo più remoto del cortile, e la gettai su un mucchio di erba appena tagliata. L'avrei bruciata.
Mi feci un'altra birra e cercai di calmarmi. Che stava succedendo? Sembrava che avessi speso metà della mia vita a cercare di rispondere a questa domanda.
Era solo una molestia qualsiasi e casuale da parte del solito pezzente della strada? E il mio televisore stava per trasmettere programmi di stronzetti alieni in prima serata?
La risposta non si fece attendere a lungo. Prima di poter finire la birra, mi venne per la decima volta la tremarella.
Dovevo alzarmi. Dovevo muovermi. Dovevo... prendere le chiavi dell'auto. Ecco cos'era. Qualcosa si stava sintonizzando su tutti i canali. Ok, sto prendendo le chiavi dell'auto.
Sali in macchina. Va bene.
Mettila in moto. Sissignore, è pronta per partire.
Accendi le luci. Luci accese.
Che diavolo stava succedendo? Ero posseduto?
Esci a marcia indietro e volta a destra. Marcia indietro... giro a destra.
Guida fino all'angolo; gira a sinistra. Nessun problema.
Ero diventato psicotico senza accorgermene? La pazzia mi era forse strisciata addosso come un ladro nella notte?
Gira a destra. Giro a destra, senza fiatare. Guida, e io guidavo.
Non si trattava di una voce nella mia testa. Qualcosa si era sintonizzato sul Motore Principale, e scoprivo ciò che stavo per fare solo un terzo di secondo prima che accadesse. Ero ancora in grado di pensare, ma i pensieri non sembravano aver molto a che fare con alcuna delle mie azioni... il che non differiva eccessivamente dalla vita di tutti i giorni, direi.
Tuttavia, non potevo controllarmi. Non ero responsabile delle mie azioni. Al diavolo allora. Si avvicinava un fine settimana di tre giorni, qualcosa che volevo godermi da vivo; così, non avendo alternative, decisi di adattarmi. Se avete una presenza aliena in voi o siete preda delle vostre fondamentali psicosi possessive, perché agitarsi qua e là e comportarsi senza dignità? Perché non godersi il panorama?
Era una bella sera per guidare in campagna. Campi tremolanti di merli che mi guardavano passare... pascoli dissodati dove mucche da latte con le mammelle piene si dirigevano stancamente verso le stalle... frutteti di noci dai rami pesanti dietro cui era già notte piena... e il cielo color rame all'orizzonte, poi sopra uno strato di giallo, bianco panna che si fondeva al blu, al blu marino e poi al blu notte. Per essere posseduti, questa era una della sere migliori.
Gira a destra. Sto girando, capo; guarda il mio corpo, lo sta facendo.
Era una stradina dissestata, fiancheggiata su entrambi i lati da pescheti... la strada oltrepassava un paio di canali irrigui sui cui argini erano allineati dei giacinti... una svolta a sinistra, un'altra veloce a destra... e mi trovai sul viale d'accesso a una distinta casetta bianca a forma di cubo, fatta con assi di legno, con un sacco di Ford e Chevrolet vecchie di dieci, quindici anni parcheggiate tutte intorno, molte delle quali avevano reliquie degli anni Sessanta che pendevano dallo specchietto retrovisore o appoggiate sui sedili, come grosse collane, fasce per la fronte, amuleti occhio di Dio malandati, e libri consunti di Krisnamurti. Alcune delle automobili più nuove avevano etichette adesive di riconoscimento per il parcheggio in università, una di un ufficio legale, e un'altra di un ospedale. Che razza di accozzaglia di gente era questa? E perché avevo ricevuto misteriose istruzioni per unirmi a loro?
Mi misi a bussare sulla zanzariera, e una signora hippie di mezza età con lunghi capelli diritti aprì la porta. Non piegò la testa in segno di saluto, si limitò ad alzare gli occhi e a guardarmi dal basso in alto, quasi come un cane abituato ad essere picchiato quando viene chiamato.
- Sì? - chiese lentamente.
- Sono stato, ehm, mandato qui, o forse portato qui, da... loro.
- Oh! - Sorrise, alzò il viso verso di me e sganciò la zanzariera. - Venga, venga. - Il posto odorava di patchouli e vin brulé. - Mi chiamo Giunchiglia Chablis. E lei chi è?
Giunchiglia Chablis? Contrariamente alla logica, fornii il mio vero nome. - Sebastian Eeps - dissi. - Per favore, non mi chiami Sebastian. Eeps è meglio.
- Sono già tutti qui - esclamò la donna, mentre mi conduceva attraverso la cucina anni Trenta, con un sacco di minuscole piastrelle esagonali sul piano di cottura, simili a quelle che rivestono i gabinetti delle stazioni degli autobus. - Da questa parte. - I rumori si fecero più intensi: un ridacchiare e poi risate acute, tonfi di tazze su superfici di legno, cigolio di mobili e un coro di voci metalliche e monotone, e qualcuno che chiacchierava in modo stridulo, mentre un'altra voce incalzava: - Sì? Davvero? Sì? No!
Ed erano tutti lì dentro, proprio così. Un bel panorama di tutti gli scarti umani possibili e immaginabili. Cinque "uomini" e sei "donne". Quelli con i pantaloni a zampa d'elefante erano dietro, qualcuno aveva fazzoletti cashmere al collo, due tizi vestiti con vecchi abiti in poliestere e coi capelli unti abbondantemente, si sporgevano sul tavolino da caffè mentre mangiavano noci candite da un piatto e le due donne, che non sembravano essere arrivate con la macchina del tempo dagli anni Sessanta, portavano enormi parrucche e vestiti attillati a fiori stampati. Ed erano tutti felici come pasque, solo per il fatto di chiacchierare e agitare le mani, e ognuno era d'accordo con gli altri.
- Questo è il nostro raduno annuale - mi disse Giunchiglia.
- Raduno di cosa?
- Non lo sa?
- No. Non è stata assolutamente una mia idea quella di venire qui Mi sono limitato a fare ciò che mi veniva detto.
- Ohhh - esclamò lei. - Capiscooo.
- Allora, di che tipo di raduno si tratta?
- Siamo stati tutti rapiti e sottoposti a esperimenti chirurgici. Dagli alieni.
Rapiti e sottoposti a esperimenti chirurgici. Diedi un'altra occhiata alla compagnia. Rapiti e sottoposti a esperimenti chirurgici. Dagli alieni. Solo allora iniziai ad ascoltare ciò che stavano realmente dicendo.
Una delle donne con una gran massa di capelli spiegò: - Non sentii male quando mi innestarono la sonda nel pancreas, ma quando mi hanno fatto scorrere quegli aggeggi che vibravano giù per l'arteria del collo, be', cara, riuscivo a malapena a star ferma.
Già.
- Tutti abbiamo fatto la conoscenza degli alieni - disse Giunchiglia. - E loro hanno fatto esperimenti sulla maggior parte di noi.
- E vengono alla vostra porta, suonano il campanello, o cosa?
- Be', non credo che nessuno sia stato avvicinato in questo modo, ma mi faccia controllare. Ehi, gente! Amici? - Il chiacchiericcio si smorzò. - Gli alieni sono per caso venuti a casa vostra, vi hanno suonato il campanello, o sono semplicemente entrati?
I tizi vestiti in poliestere aggrottarono la fronte. Le signore con i vestiti a fiori tamburellarono con le dita sulle labbra mentre pensavano per un istante, e poi un coro acuto di: - No -, - Non da me -, e - Non che io ricordi - si levò verso di noi.
- Grazie a tutti - annunciò Giunchiglia. - Grazie. Ora avete fatto sentire al signor Eeps che è a casa propria. Lo sa come vanno le cose a una festa - disse rivolta a me. - Ora devo fare la parte dell'ospite. Ma lei si mescoli tra loro. Siamo tutte persone amichevoli. Le porto del vino, ok?
- Con piacere. - Ok, pensai, così sono qui, qual è il messaggio allora?
Qualunque cosa mi avesse spinto a guidare fin lì, ora, apparentemente, mi lasciava a sbrogliare le cose da solo. Ci si aspettava da me che parlassi ai membri di questo gruppo? Mi sentivo come il gatto pezzato di cui vedevo il muso sbirciare da sotto il divano grigio a tre posti, dove il signore e la signora Poliestere erano seduti, facendo penzolare le caviglie dinanzi al suo naso. Il gatto aveva gli occhi sgranati e sembrava nervoso, a disagio, come se avesse preferito essere sotto una macchina a masticare un topo. Più o meno come me.
- Signor Eeps? - Era una delle signore a fiori stampati, quella con la grande parrucca biondo-rosato. Il gioco era iniziato.
- Sì?
- Sono Aggie Keller Kirkham, da Sacramento. Le interessa ascoltare resoconti di come siamo stati rapiti e sottoposti a esperimenti chirurgici?
- Oh, sì, certamente. - Giunchiglia tornò e mi porse una tazza di vin brulé dolce. Avanti, presenza aliena, stavo pensando, dimmi cosa fare.
La signora Kirkham iniziò con un profondo sospiro. - Circa tre anni fa, sì, penso fosse tre anni fa, quando stavo scendendo per la Novantanovesima ed ero quasi a Turlock, sa dov'è, suppongo, bene, vicino a quella fabbrica con il silo...
Stavo rapidamente perdendo interesse, ma allo stesso tempo, qualcos'altro mi prendeva.
Mentre la signora Kirkham continuava a ciarlare di come era stata risucchiata dalla sua auto e di come le teste-lisce le avessero conficcato aghi nel corpo - e si divertì, ma fu anche seria nel raccontarmi tutto ciò - potevo percepire il resto della sua vita - che cosa significava essere Aggie Keller Kirkham da Sacramento quando non veniva esaminata dagli alieni o quando beveva vin brulé e mangiava biscotti al cioccolato con i suoi compagni di esperimento. Ed era una sensazione sinistra.
Le brillavano gli occhi mentre mi mostrava cicatrici indistinte sulle braccia dove aveva detto che le erano stati conficcati gli aghi, ma da qualche parte, sotto tutto ciò, c'era un denso grumo di solitudine, di malinconia e isolamento, dove nulla accadeva al di fuori di una miserabile routine quotidiana scandita da un apparecchio televisivo in bianco e nero lasciato sempre acceso e da una passeggiata fino a un supermercato da due soldi nelle vicinanze, dove errava tra le corsie per un'ora e mezzo, esaminando lacche per capelli, rocchetti di filo e cornici per quadri.
Fortunatamente, le onde di tristezza si dissolsero altrettanto rapidamente di come erano giunte.
- ... così spaventoso - stava dicendo la donna - ma quando organizziamo il nostro raduno annuale per coloro che hanno subito esperimenti da parte degli alieni, mi sento più a mio agio di quando sono a casa mia, lo sa? Cose orribili, spaventose o incomprensibili accadono a tutti - chiocciò - ci vuole solo un po' di coraggio, suppongo, per dire: "Eh sì, è successo, è capitato a me questa volta". Dovrebbe conoscere Emily. Emily è la più coraggiosa del gruppo.
Emily era la più strana del gruppo. Aveva all'incirca ventotto anni, capelli ricci castani, fluenti e rigogliosi, una pelle perfetta come il lattice più fine, occhi del colore del cuore di una sequoia, e mani che potevano fare da modello agli anelli in una rivista per gioiellieri. Il resto del suo corpo non sarebbe stato fuori posto nel numero annuale di una rivista per soli uomini, ma bastava darle un'occhiata per capire che buona parte del suo impianto elettrico era spento. Iniziava qualche movimento grazioso con le mani e, più o meno ogni trenta secondi, zzzzt, si colpiva ripetutamente il braccio o il viso le si contorceva in una smorfia o le si chiudeva un occhio oppure un angolo della bocca tentava di tirarsi su fino a una delle orecchie. Era molto lieta di conoscermi.
- Signor Eeps! Ho letto... zzzzt... dell'esperienza che ha avuto con i Televoidi. Ha avuto altri contatti in seguito con gli extraterrestri?
Non volevo entrare nei dettagli delle mutilazioni del bestiame o di come ero finito a Barrow, in Alaska, ed ero stato confinato per due mesi con un gruppo di politici finiti e predicatori evangelici maniaci. Così mi limitai a rispondere: - No.
- Mi presero per la prima volta, fanno due anni questo... zzzzt... questo marzo - disse Emily. - Alla mia sorella aliena è successo un anno fa.
- Sorella aliena?
- Sì. L'hanno chiamata Polynomia, e ha i più bei capelli color oro del mondo - Così, con quindici o, venti zzzzt, Emily mi raccontò la sua storia, e non fu molto piacevole.
Non solo ascoltavo come gli alieni le avessero conficcato nel corpo degli aspiratori e le avessero rubato gli ovuli, ma percepivo la triste vita che riempiva il resto dei suoi giorni. Il negozio di manicure al bowling dove lavorava, i muri ingialliti, la sedia da barbiere cigolante e incrinata su cui i suoi clienti dovevano sedersi, e come cercava di far finta che il suo negozio fosse "antiquato" piuttosto che fatiscente, e c'era qualcos'altro che rimaneva in sospeso, qualcosa che riguardava un aborto a buon mercato quando aveva sedici anni che l'aveva lasciata sterile.
- Non vedo l'ora di vederla di nuovo - concluse Emily. - Anche se gli alieni ogni volta mi legano con una cinghia e mi tagliano via dei pezzi, e... zzzzt... non usano mai l'anestetico, ma per quanto faccia male, non vedo l'ora di tornare e vederla di nuovo.
- Buona fortuna - dissi stupidamente. Iniziavo a sentirmi sinceramente depresso. Giunchiglia tornò nei paraggi e mi riempì nuovamente la tazza di vin brulé, conducendomi poi al divano dove il signore e la signora Poliestere erano seduti e disegnavano dei tubi su un tovagliolo.
- Signor Eeps - uno dei due disse - stavamo appunto disegnando i tipi di strumenti che furono usati su di noi quando fummo catturati dagli extraterrestri.
- Sembra il genere di cose che usano per aspirare il grasso dalle persone - dissi.
- Non fu divertente, glielo dico io. Mi chiamo Johnny Thormann. Lavoro nel campo degli pneumatici per carrelli elevatori.
- Un'occupazione interessante - dissi, stringendo la mano che mi offriva.
- Sono Freddy Burkett. Refrigerazione.
- E siete entrambi oggetto di esperimenti chirurgici?
Annuirono all'unisono.
- Ditemi se sbaglio, ma da quello che ho sentito fino a ora, ho l'impressione che le vostre esperienze non siano state del tutto piacevoli.
- Mi cavarono un occhio - disse Freddy. - Quello sinistro. Quell'omuncolo mi venne incontro, ero legato, capisce, mi venne incontro, rizzò il dito per farmelo vedere, e il dito era una specie di cosa appiattita, come un coltello per il burro.
Iniziai a captare in Freddy la stessa vuota tristezza che avevo percepito negli altri... un magazzino, una confusione di scaffali ingombri, tubature di rame polverose, l'odore di motori bruciati... niente da fare per cinque o sei ore al giorno, se non dare l'impressione di essere occupato...
- E poi non ha fatto altro che cacciarmi quel piccolo dito dritto nell'occhio, tra la palpebra e il globo, e tirarlo fuori. Quando uscì fece una specie di rumore simile a un risucchio, come quando si tira fuori la polpa di un arancio dalla scorza. Lasci che glielo dica, fa male. Un male cane.
- Ci scommetto - disse Johnny.
- Potevo ancora vederci, però. Il piccoletto me l'aveva tolto in modo che potessi guardare attraverso la cavità orbitale vuota.
- Umorismo da alieni - esclamò Johnny. - Penso che vogliano scoprire come funzioniamo, come reagiamo alle cose. Chissà cosa ci faranno prossimamente... ci mangeranno, ci renderanno animaletti domestici, oppure ci annoteranno soltanto in una guida turistica e se ne voleranno via.
Freddy richiamò la sua attenzione con un colpo di gomito.
- Digli dell'esperimento sulle urla che ti hanno fatto.
- Oh, sì. Credo che fosse per valutare la tolleranza al dolore.
Iniziò un'intensa narrazione sui vari diametri di filo metallico che gli avevano agganciato alla testa, e su come l'avevano suggestionato psicologicamente prospettandogli una serie di possibili modi per smembrarlo, in modo da poter misurare il volume delle sue urla. Almeno, questo era il motivo che si era immaginato avessero.
Ma non riuscivo a prestargli molta attenzione, perché stavo captando il senso di solitudine opprimente all'interno del commercio di pneumatici per carrelli elevatori. Giorno dopo giorno di incontri con clienti che talvolta gli erano davvero simpatici, ma ai quali poi doveva sempre mentire, estromettersi dalla loro amicizia mentendo e dicendo che le loro gomme erano consumate e pericolose, che il battistrada era fatto di gomma ritrattata soggetta ad autocombustione, che il metallo del cerchione era logorato o che non valeva il lavoro; e riuscivo a vedere come ogni notte Johnny, sulla strada per tornare a casa, pregasse che la vicina di casa uscisse a vuotare la spazzatura e gli sorridesse incontrandolo... e come Johnny, circa una volta all'anno, cercasse di suicidarsi con il gas, senza riuscire a sopportarne l'odore abbastanza a lungo per morire.
- Devo andare ora - dissi, alzandomi.
- Oh, la prego, rimanga e canti insieme a noi - mi pregò Emily, appoggiandosi al mio braccio. - Poi mangeremo torta di formaggio e gelato fatto in casa.
- Non penso di potere, davvero. Devo andare a casa e fare al mio cane la sua puntura di insulina.
- Ohh, capisco. Peccato, la parte più bella della festa sta proprie per iniziare, e così la perderà. Torni più tardi, se vuole. Andiamo avanti fino alle ore piccole.
Uno dei ragazzi vestiti in poliestere stava già martellando Yesterday a pianoforte, e Emily li guidava.

Ieri, i contatti sembravano così lontanii,
anche se abbiamo sofferto, oggi siamo quii.
Insieme grazie a ieri.


- Suppongo che dovrò lasciarla andare ora - disse Emily, spostandosi e tornando dagli altri. La sua depressione latente era evaporata come acqua da una teglia... un padre morto di tumore cerebrale, una madre suicida... ma al momento era felice, era piena di gioia. - Arrivederci allora - gridò. La luce brillò come un neon sui suoi occhiali da nonna a lente quadrata. - Arrivederci! Ritorni se può! Arrivederci, signor Eeps!
Aprii la porta e mi diressi nel cortile d'ingresso, circondato dai gusci d'acciaio di auto male in arnese e dalle ombre piene e buie di vecchi alberi, dove gli insetti notturni cicalavano e stridevano e si divoravano a vicenda.
All'interno della casa le luci gialle risplendevano calde, e potevo vedere molti di coloro che avevano sperimentato il rapimento da parte degli alieni aprire e chiudere le bocche all'unisono, mentre cantavano la loro versione privata. Spostati, suicidi incompetenti, patetici logorroici che tornando a casa avrebbero trovato il nulla... Erano buffi, era facile renderli ridicoli, erano molto simili a me, e si stavano divertendo un mondo.
Lì avevano degli amici. Da Giunchiglia si sentivano a casa. Qualunque voragine emotiva avesse reso tetre le loro giornate, ora non se ne stavano preoccupando. Erano in casa e stavano cantando a squarciagola. Era dunque quello il messaggio?
Indugiai lì al buio ancora per un poco, sentendomi depresso perché stavo guardando un gruppo di "sperimentatori di prigionia aliena" che si stavano divertendo un sacco, e io ero lì, un tipico individuo normale, alla ricerca dell'azione, imprenditore nel campo dell'Insolito e del Bizzarro, fuori in cortile che li invidiava. Che schifo.

A metà strada verso casa, realizzai che non ero più io a guidare. Stava guidando quella cosa... verso la parte sud della città, lungo i binari ferroviari, oltre gli spiazzi di terreno all'aperto dove la gente vendeva elettrodomestici rotti per guadagnarsi da vivere, poi le mie mani girarono il volante verso il sudicio parcheggio della Missione del Viandante. Due ubriachi dormivano lunghi distesi sul gradino d'ingresso, le loro facce sudicie e dalla barba ispida si accendevano di un rosa tenue sotto il debole neon che seguiva il contorno della croce sopra la porta.
Forse il messaggio era qui. Forse non c'erano messaggi. Forse qualcuno mi stava solo facendo perdere del tempo. Di nuovo.
Scavalcai gli ubriachi ed entrai; l'aria puzzava di alcol e di vestiti sporchi. Mezza dozzina di tipi cenciosi erano ammassati sul retro, ridevano e battevano le mani mentre guardavano un piccolo televisore in bianco e nero.
- È un bel programma? - chiesi. Ero giunto al punto in cui volevo porre termine a quella faccenda.
- Sì. - Uno di essi si voltò. Era il signor Sacco-di-malattie, il portatore di messaggi alieni, ma aveva un aspetto assai più vivace di un paio di ore fa. - È "Domandissima". Conosciamo quel tipo. Quello lì in televisione.
Concentrai la mia attenzione sul piccolo schermo.
- Benissimo - esclamò la voce metallica dell'annunciatore - eccoci alla sua domandissima: se potesse apparire su un'emittente ricevuta in tutto il mondo, cosa farebbe o direbbe?
La telecamera inquadrò il concorrente. Era un tipo anziano vestito con abiti sformati, fuori moda da vent'anni, e dietro le labbra paffute probabilmente non aveva neanche un dente. Dopo anni di moscato, il suo viso si contorceva sdolcinatamente mentre formulava le parole.
- Be' - biascicò - direi a tutti di non aver paura degli alieni. Sono ovunque. Sono innocui. Li incontro sempre.
I vagabondi della missione urlavano e agitavano le gambe. - Sammy ce l'ha fatta!
- "Non aver paura degli alieni"! - gridò l'annunciatore, agitando una mano sopra la testa. - Pubblico, quanti punti assegnate a questa risposta?
Alcuni numeri lampeggiarono sulla parte inferiore dello schermo: 40... 57... 62... 68... 71... E si fermarono al 73. Un aspro segnale acustico, simile alla sirena dei vigili del fuoco, suonò, e il conduttore del programma all'improvviso assunse l'aspetto di uno che avesse perso la propria madre.
- Imbecilli! - esclamò uno dei barboni.
- Sammy - disse il presentatore - sono spiacente, davvero. Pensavo che fosse una buona risposta. Pensavo che fosse una risposta grandiosa... ma il nostro pubblico, be', direi che è più difficile da accontentare di me. Tuttavia Sammy, qui a "Domandissima" abbiamo tanti premi di consolazione per te... Un favoloso asciugacapelli GE! E...
Qualcuno spense il televisore.
- Dovevano dargli i soldi - disse il tipo con i punti neri.
- Almeno è arrivato a rispondere al domandone - borbottò uno degli altri.
- Adesso ho io una domandissima da farti - esclamai. - Fin da quando sei apparso sulla porta di casa mia quest'oggi dicendomi che gli alieni mi stavano inviando un messaggio, sono accadute cose davvero insolite, anche se nessuna di esse implicava il fatto di ricevere un messaggio. E non certo per colpa mia, eccomi qui al vostro piccolo club privato di alta classe. Allora? Cosa c'è sotto? C'è un messaggio?
- L'ha detto lì, in televisione - disse il tipo sdentato con il cappello alla Frank Sinatra. - L'ha detto Sammy. Voi gente normale dovreste aprire di più le orecchie.
Quest'ultima osservazione mi prese alla sprovvista. Questo tipo mi stava dando del normale?
- Il messaggio è "Non abbiate paura degli alieni"? È originale. Detto in tutta onestà, mi fanno più paura i cavoli a merenda degli alieni. Ma questa sera, ho incontrato persone che non sono dell'opinione che i vostri amici alieni siano tipi così gradevoli.
- Wow - esclamò uno dei vagabondi. - Nessuno di voi vuole dargli un indizio?
Mi rivolsi al signor Puntineri. - E tu allora, con tutte quelle cicatrici, sembri una delle vittime di Compagni di gioco degli alieni con machete.
- Quali cicatrici? - Si alzò e aprì il cappotto. Era vero. Niente cicatrici. Probabilmente mi si spalancò la bocca.
- Vuoi un po' di sherry? - mi chiese il tipo con il cappello alla Sinatra.
- Non ci arrivi, vero? - disse il signor Puntineri. Allungò una mano verso di me, e io provai una sensazione nervosa alla spalla da fare accapponare la pelle. - Dammi la mano - disse.
Gliela tesi. Era come se dei vermi mi scivolassero lungo le arterie verso la punta delle dita. Volevo urlare, ma non volevo mostrarmi un codardo.
- Ora guarda - disse. Mi prese la mano tra le dita mutilate, la piegò un poco all'indietro, e attraverso un foro grande quanto una capocchia di spillo da cui non uscì sangue, un filo metallico liscio e sottile quanto un capello serpeggiò fuori dalla parte inferiore del mio polso.
Simile a un maledetto verme di Dirofilaria, a una sanguisuga o simili, quella cosa uscì dal mio corpo, si avvolse in spire grandi quanto il diametro di una matita, e cadde sul suo palmo teso. - Grazie - disse.
Volevo vomitare. - Tu... tu me l'hai messo dentro questa mattina! Hai violato il mio corpo! - Gradualmente, lentamente, sottile come una carezza, la consapevolezza si fece strada in me. - Sei... tu sei...
- Heh-heh!
- Indovina un po'?!
- Sì. Noi siamo loro. - Tutti sogghignarono mostrandomi i denti marci. - Be', la maggior parte di noi lo è.
- Io no - disse il tizio con lo sherry. - Io sono un ubriacone.
- Ok - dissi; non volevo essere intimorito. Voglio dire, dopo tutto, mi ero trovato alle prese con predicatori evangelici spretati e politici screditati. - Allora spiegatemi perché mai tutte quelle persone si sono fatte l'idea che voi li tagliuzzate, che abbiate rubato gli ovuli di quella donna, e abbiate cavato l'occhio di quel tipo, facendo in modo che potesse vedere dalla cavità orbitale vuota?
- Stiamo solo cercando di aiutarli - disse uno dei barboni. - Avevano bisogno di sentirsi speciali. Non avevano nulla per loro stessi, lo sai?
- Così li sfilettate, aspirate gli ovuli a quella donna, e cavate l'occhio di quel tizio? Siete disturbati mentalmente, lo sapete questo? Voi gente, se posso usare un vocabolo simile in questo contesto, siete tutti pazzi. E la decima persona che riducete in quello stato... mettere sottosopra i corpi delle persone in modo che abbiano qualcosa di cui parlare alle feste...
Il tipo col cappello trangugiò lo sherry, senza preoccuparsi di asciugarsi poi il mento. - A un sacco di gente piace parlare delle proprie operazioni. Mia madre, Cristo, avrebbe fatto qualunque cosa per finire sotto il bisturi. Cercò di sposarsi un dottore per farsi fare le operazioni gratis.
L'individuo pieno di punti neri scrollò le spalle e fece una faccia da "Lo vedi?". - Pensiamo che, se dobbiamo restare qui, dobbiamo ripagarvi.
- Dunque, è come se fossimo il vostro zoo, e fare a pezzi la gente è il vostro modo di pagare per il vostro divertimento.
- Ma non facciamo questo genere di cose per davvero - disse lui, mostrandomi una parte del petto su cui avevo visto le cicatrici. - Ci limitiamo a fare, uhm, ehm...
- Gesti un po' speciali - esclamò l'ubriaco.
- Giusto. Gesti un po' speciali. Riteniamo che se dobbiamo vivere qui, il minimo che possiamo fare è qualche gesto un po' speciale per dare una mano a qualcuno. Vogliamo che tu racconti la nostra storia, Eeps.
- La gente vi odierà a morte - replicai.
- E tu allora, Eeps? Fai né più né meno ciò che facciamo noi. Scrivi tutte quelle idiozie fantascientifiche perché pensi che la gente sia patetica e abbia bisogno di farsi qualche risata. - Strabuzzò gli occhi ed esclamò: - Era ora! Benvenuto sulla Terra, compagno alieno.
Che potevo fare? Cosa potevo dire? Mi venne in mente che forse avevo un po' esagerato con la codeina. Forse avevo bisogno di un periodo di riposo.
Una delle caratteristiche della saggezza è di sapere quando diavolo cavarsi fuori da una situazione.
Scavalcai gli ubriachi sugli scalini dell'ingresso, mentre mi dirigevo verso la macchina. L'aria era impregnata dell'odore di pomodoro proveniente dal silo un paio di chilometri più in là, e da una parte all'altra di parcheggi semi-vuoti, le luci al sodio rendevano il suolo giallastro, il colore della mostarda secca. In uno degli spiazzi, un pastore tedesco con la rogna gironzolava tra le carcasse rovinate di vecchie lavatrici e asciugatoi, si fermava, guaì un paio di volte verso il cielo abbagliante che odorava di pomodori. I suoi antenati un tempo avevano inseguito i caribù attraverso la tundra e cacciato i mammut attraverso le foreste ghiacciate, eppure ora quel cane pensava che fosse normale annusare frigoriferi e pisciare sulle lavatrici. E allora, dove mi portava questa considerazione? Me ne stavo nel bel mezzo del solito Mondo Miserabile, chiedendomi quale fosse il mio posto.
Senza realmente sapere quando andarmene, feci di nuovo capolino alla missione. - Prima avete detto "se dobbiamo vivere qui". Devo dedurre con ciò che non avete possibilità di scelta?
Sembravano tutti un poco imbarazzati. - Be', ah, tornare a casa...
- Pezzenti... venuti giù dalle stelle! - ridacchiò l'ubriacone. - Sono stati sbattuti giù! Eh già! Non ce la facevano neanche come alieni! - Scoppiò in una risata e sputacchiò sherry dappertutto sul televisore spento.
- Be', sì, una specie - disse il mio amico pieno di pustole. - Più o meno una cosa simile.
Immagino che non sia troppo tardi per aggiungersi alla compagnia.

Mi rimisi al volante e guidai attraverso la campagna fino alla casa di Giunchiglia. Erano felici di vedermi, ed era rimasta ancora della torta al formaggio. Ci raccontammo storie incredibili fino alle due del mattino, e mi sentii proprio a casa, come un vagabondo in una missione, come un cane in una discarica di rifiuti, come un freak tra i suoi simili.

FINE