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Urania - Asimov d'appendice
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GORBACIOV - Isaac Asimov
Titolo originale: Gorbachev
L'invito che ricevetti per partecipare al pranzo di onore di Gorbaciov fu dovuto interamente al mio status di scrittore di fantascienza. È stato un tale onore per me, per la mia rivista, e per la fantascienza in generale, che mi sento in obbligo di riportare l'episodio come resoconto speciale. Che differenza da quando si era solito punire i ragazzi a scuola perché leggevano fantascienza, sulla base che fosse "spazzatura ".
Il 25 maggio 1990, venerdì, ricevetti una telefonata dall'Ambasciata sovietica di Washington. Volevo andare a Washington per pranzare con il Presidente Gorbaciov all'Ambasciata sovietica il 31 maggio, alle ore tredici? Il Presidente sarebbe stato a Washington in occasione di un summit con Bush, e voleva pranzare con vari luminari della cultura (Mi chiesero anche il numero telefonico di Ray Bradbury, ma non l'avevo).
Fui istantaneamente incerto sul da farsi. Non ero riuscito a incontrare Gorbaciov quand'era stato l'ultima volta a New York, perché, sebbene avessi ricevuto un invito a un ricevimento, Gorbaciov era partito un giorno prima a causa del disastroso terremoto in Armenia, e perciò il ricevimento era stato cancellato. Fu una grande delusione per me, e ora che mi si presentava una seconda possibilità, non volevo perderla. D'altra parte, odio viaggiare e avevo già programmato due viaggi a Washington ad anno inoltrato, così esitai prima di fissarne un terzo.
Risposi che avrei dovuto consultare mia moglie e l'addetto all'Ambasciata replicò prontamente che ero invitato solo io, non Janet (non c'era posto). Questo fatto complicò le cose, per cui chiesi di essere richiamato nel pomeriggio. Mi consultai con Janet, che con sollecitudine mi disse che dovevo andare, e altrettanto prontamente aggiunse che sarebbe venuta con me e, se non poteva prendere parte al pranzo, mi avrebbe almeno aspettato e poi si sarebbe fatta raccontare tutto. Per provare che stava facendo sul serio, prenotò il treno delle 8 per Washington per il giorno 31, e prenotò anche una vettura salone, in modo che avremmo potuto fare comodamente colazione durante il viaggio.
Martedì 30 ritirai i biglietti, più quelli per il treno di ritorno delle sedici dello stesso giorno, dal momento che non volevo passare la notte a Washington. Di nuovo vettura salone, cosicché Janet avrebbe potuto cenare con tutto comodo.
L'alba del 31 annunciava una giornata luminosa e assolata, con i migliori auspici per un tempo perfetto, come fu in realtà. Cielo terso, con una temperatura che raggiungeva forse i venticinque gradi di minima e affatto umida. La temperatura si aggirava sui tredici gradi quando partimmo, ma ci vestimmo come per una giornata di prima estate e avemmo ragione di farlo.
Portammo con noi alcune cose che pensavamo avrebbero potuto servirci in caso di incidenti o scomodità (cosa che non avvenne) e portai con me alcune delle pillole che prendo di questi tempi. Il bagaglio principale consisteva di un paio di libri che avevamo portato per Gorbaciov, il mio Cronologia della scienza e delle scoperte, una vasta e considerevole storia della scienza, principalmente per mostrare a Gorbaciov che non ero solo uno scrittore di fantascienza, e quello di Janet, uno dei suoi ultimi libri della saga di Norby, La grande avventura di Norby e Yobo.
Il viaggio a Washington fu tranquillo (esattamente come avevamo sperato che fosse); ci fu realmente servita la colazione, anche se soddisfeci il mio appetito con pane e prosciutto. Arrivammo alla Union Station di Washington alle 11 e un taxi ci portò all'Ambasciata sovietica, dove il mio biglietto di invito ci permise di superare il cordone di polizia. Eravamo in anticipo di qualcosa come due ore, e quindi non ci fu permesso di entrare. Spiegai che me ne rendevo conto; ero solo venuto a chiedere se, mentre partecipavo al pranzo, a mia moglie sarebbe stato permesso di aspettarmi da qualche parte all'interno dell'Ambasciata. La persona con la quale parlai non ne era certa. Non era chiaramente lui che prendeva le decisioni, e suppongo che la necessità di una stretta sorveglianza lo impacciasse. Ci lasciò per consultare qualcun altro, poi tornò e disse che pensava fosse possibile esaudire la mia richiesta. Era palese che non voleva prendere su di sé la responsabilità.
Chiesi poi se ci fosse un hotel nelle immediate vicinanze e infatti ce n'era uno, l'Hotel Jefferson, proprio in linea obliqua dall'altra parte dell'incrocio rispetto all'Ambasciata. Si rivelò ideale. Era gestito da proprietari giapponesi e in condizioni perfette. Non era neppure affollato, dato che la strada era stata bloccata per ragioni di sicurezza, e ciò significava che poche persone avrebbero potuto raggiungere l'hotel. Eravamo pressoché soli e fummo trattati con la massima cortesia.
Ci dirigemmo nella sala da pranzo e, in solitario splendore, a Janet fu portata un'insalata di aragosta e un delizioso dessert di frutta in gelatina, mentre io mi accontentai di una tazza di caffè. Janet mangiò in tutta tranquillità dato che avevamo un sacco di tempo.
Alla fine, erano all'incirca le 12.30, tornammo all'Ambasciata e dovemmo aspettare al di qua dei cordoni di polizia, mentre venivano preparate le stanze che ci avrebbero accolto. Una delle persone addette alla sorveglianza, e che si rivelò essere un uomo dei servizi segreti (piuttosto piccolo e magro, con i baffi, e con quello che sembrava un apparecchio acustico, ma che senza dubbio era un congegno perché gli venissero trasmessi ordini se fosse stato necessario), mi riconobbe, e la cosa mi fece piacere.
Mi sentivo in qualche modo a disagio per dover attendere al di qua dei cordoni di polizia, a chiedermi se a causa di qualche pasticcio non mi avrebbero fatto entrare; tuttavia, anche a John Kenneth Galbraith, quando comparve in tutti i suoi due metri di statura, non fu permesso di entrare. Ne fui rinfrancato.
L'accesso ci fu consentito alle 12.45. Mi limitai a condurre Janet con me e, una volta che mi trovai effettivamente all'interno dell'edificio, riferii che mi era stato detto che Janet avrebbe potuto aspettarmi, e chiesi se era possibile trovarle un posto comodo. Una donna sovietica molto attraente, la gentilezza in persona, la condusse in una stanza dove avrebbe potuto riposare in tutta tranquillità. Notando che, quando Janet scomparve dalla mia vista, assunsi un aspetto ansioso, la donna si offrì di mostrarmi dove mia moglie sarebbe stata alloggiata e mi promise che mi avrebbe condotto lì una volta terminato il pranzo. Così baciai Janet, attraversai il passaggio a volta predisposto come metal detector, e salii per un'ampia scala a chiocciola, oltrepassando un gigantesco ritratto di Lenin.
Presenti tra gli ospiti vidi Jane Fonda, Gregory Peck, Douglas Fairbanks Jr., Galbraith, Van Cliburn, Andrew Wyeth, Ray Bradbury, del quale avevano ovviamente ottenuto il numero di telefono, Jesse Jackson, e altri che non riconobbi.
Jesse era l'unica persona di colore presente e c'erano forse tre donne. Era un raduno pressoché interamente maschile.
Non feci alcuno sforzo per presentarmi agli altri, dato che è mia ferma convinzione di non cercare mai di fare la conoscenza di qualche celebrità. Lascio sempre che siano loro a cercare di fare la mia conoscenza.
Qualcuno lo fece. Qualcuno venne a salutarmi e a dirmi che mi aveva incontrato nella tale e talaltra occasione o mi aveva sentito parlare in questo o quel discorso. Venivo poi presentato a qualcun altro, che mi diceva il proprio nome; io replicavo dicendo: - Sono Isaac Asimov - e il mio interlocutore mi rispondeva invariabilmente: - Si, lo so. - Era piacevole.
Mi fermai a parlare con Ray Bradbury, un mio vecchio amico, anche se non ci siamo visti più di quattro o cinque volte in tutta la vita.
Mi chiese: - Ci sono altri scrittori di fantascienza presenti? - No - gli risposi - ma penso che noi due Grandi Maestri possiamo reggere bene il peso.
Fu d'accordo con me.
Erano presenti un certo numero di ufficiali sovietici, naturalmente, e qualcuno di loro mi riconobbe subito. Uno disse che mi aveva riconosciuto dal mio marchio. Mi accarezzai le fedine bianche e dissi: - Intende queste, naturalmente.
- No - replicò l'altro. - Intendo questa. - E indicò il mio cravattino da bolscevico.
Una targhetta posta su ogni tavolo indicava i nomi dei vari ospiti disposti. Ero stato assegnato al tavolo sette, che insieme al tavolo otto era quello più lontano dal podio. Jane Fonda si trovava al tavolo più vicino, il che mi parve comprensibile. Se fossi stato Gorbaciov, avrei preferito guardare lei da vicino piuttosto che me. Poi qualcuno mi si avvicinò e mi suggerì gentilmente di allinearmi, dato che erano esattamente le tredici e Gorbaciov e Raissa erano pronti a salutare i loro ospiti. Non li avevo visti entrare.
Gorbaciov appariva esattamente come in televisione, fatta eccezione per la voglia sulla testa, non così pronunciata nella realtà come in TV. Era pressappoco della mia stessa altezza, aveva occhi brillanti e scuri, il sorriso facile, e sembrava totalmente a suo agio e assolutamente ben disposto.
Tenevo in mano i due libri. Avevo interrogato un funzionario sovietico, il quale mi aveva detto che non potevo darli direttamente a Gorbaciov, ma avrei potuto affidarli a lui dopo il pranzo: avrebbe fatto in modo che Gorbaciov li ricevesse. Quando giunsi al cospetto del presidente, mi tese la mano e mi salutò (con un traduttore simultaneo dietro le spalle che traduceva le sue osservazioni in inglese).
Dissi: - Sono Isaac Asimov. Sono uno scrittore.
- Sì, lo so - rispose. - Mia figlia è una sua grande ammiratrice e ama molto i suoi libri. Li legge sempre.
Non potei trattenermi dall'aggiungere: - Trova il tempo per fare qualcos'altro? - anche se sospetto che Gorbaciov non sappia che ho pubblicato quattrocentocinquantaquattro libri, e probabilmente non colse l'ironia della battuta. Allora, istintivamente, gli porsi i volumi che avevo con me; lui li prese, li guardò con quello che mi parve interesse e li passò a qualcuno dietro di sé.
In seguito strinsi la mano anche a Raissa, e mi diressi nella sala da pranzo, un luogo assai raffinato che poteva alloggiare settanta od ottanta persone, decorato con molto gusto.
Ci volle un po' di tempo prima che Gorbaciov finisse di sistemare la ricezione con gli auricolari, ma alla fine ci riuscì e tutti presero posto.
Gorbaciov iniziò a parlare e coloro che tra noi non capivano il russo si misero le cuffie per poter ricevere la traduzione simultanea. Il traduttore sembrava molto nervoso e non lo biasimo. Mentre traduceva, doveva ascoltare Gorbaciov e non perdere nessuna delle parole successivamente pronunciate. E commettere un errore nella traduzione sarebbe stata, naturalmente, una cosa molto seria.
Il discorso fu piuttosto disorganico, anche Gorbaciov parlò di tutti gli argomenti appropriati al tema della pace nel mondo. Menzionò l'azione della Lituania come un gesto intrapreso e condotto troppo celermente, senza le adeguate considerazioni. Il risultato è, così dice, che la Lituania non sa come agire nel proprio futuro, e così anche l'Unione Sovietica. Fu un'ammissione molto franca che mi impressionò enormemente.
Nominò alcune delle persone del pubblico, ma alla fine disse: - Abbiamo qui presenti due scrittori di fantascienza, Asimov e Bradbury, gli scrittori che mia figlia preferisce. - Fu una bella pubblicità e i miei commensali sovietici mi sorrisero e si congratularono con me per essere stato menzionato.
Van Cliburn e Andrew Wyeth sedevano al mio stesso tavolo, ma non parlai con loro. Per la maggior parte del tempo chiacchierai con l'ufficiale sovietico alla mia sinistra che, come scoprii, una volta aveva fatto parte di un'equipe televisiva che mi aveva intervistato sulla pace mondiale al Central Park. Avevamo camminato per il parco mentre mi poneva le domande e io rispondevo.
Mi chiesi: - Come sta sua moglie?
Risposi: - Mi sta aspettando di sotto. - Poi aggiunsi con fare contrito: - Odiamo essere separati.
- Ancora?
E quando mi mostrai sorpreso, mi ricordò l'intervista televisiva. Una volta terminato il colloquio, avevo fatto cenno a Janet, che era rimasta ad aspettarmi vicino all'ingresso del parco ed eravamo corsi uno incontro all'altro pieni di giubilo. Sopraffatto dalla consapevolezza che ci stessimo correndo incontro nel parco, imitai le sequenze cinematografiche nelle quali l'atto di correre è mostrato al rallentatore, e Janet raccolse lo spunto. Quando ci riunimmo, ci abbracciammo e ridevamo, e fu solo allora che ci rendemmo conto che il cameraman sovietico ci era corso dietro per filmare tutta la scena.
L'amico che sedeva alla mia sinistra mi disse: - È una sequenza molto popolare in Unione Sovietica. E piaciuta molto alla gente.
Pensai: "Che colpo per gli accordi mondiali. I sovietici possono vedere che le coppie americane sposate si amano".
Il mio amico si dimostrò contrariato dal fatto che Janet dovesse aspettare di sotto. Al nostro tavolo c'era un posto libero - una disdetta, senza dubbio - e avrebbe potuto mangiare con noi. Anche se, in seguito, Janet mi fece notare che una cosa simile sarebbe stata inappropriata, dal momento che nessun altro aveva portato la moglie (o marito). Tuttavia, Van Cliburn aveva con sé la madre anziana:
Parlai con il signor Gerasimov, che sedeva al tavolo accanto. Dissi che l'avevo riconosciuto dalle sue frequenti apparizioni televisive in qualità di portavoce del governo sovietico, ma lui replicò che avrei dovuto riconoscerlo dal fatto che una volta era venuto nel mio appartamento a intervistarmi. Uno a zero per lui.
- La prego - gli dissi - mi dica che le cose andranno bene in Unione Sovietica, perché le notizie che giungono qui sono spaventose.
Alzò le spalle e rispose: - Solo pochissime persone in Unione Sovietica capiscono il significato della parola democrazia. Non comprendono che per poter godere della democrazia occorre anche esercitare la responsabilità.
Replicai: - Anche negli Stati Uniti ci sono persone che non lo capiscono.
Il pranzo fu notevole per due caratteristiche. C'era da mangiare in abbondanza e il servizio fu rapidissimo. Non iniziammo a mangiare fino alle tredici e trenta e mi era stato detto che il pranzo si sarebbe concluso alle 14.30, dato che Gorbaciov aveva, naturalmente, alcuni impegni per il pomeriggio.
La conseguenza fu che un vero e proprio esercito di camerieri si abbatté su di noi con portate su portate; non appena avevamo terminato un piatto, questo veniva portato via in un baleno, e una nuova portata ci compariva davanti.
Iniziammo con antipasti assortiti: caviale, olive, due o tre tranci di diverse qualità di pesce (incluso il pesce più celestiale tra tutti, lo storione). Non avrei dovuto neppure assaggiarlo, ma pensai che non l'avrei fatto mai più - e così pensando, finii per prenderne - e che mi ci sarebbe voluta una dose extra di diuretici per parecchio tempo.
Di seguito, giunsero tre (li contai, proprio tre) piatti di carne a grandezza naturale: tacchino affettato, salmone ai ferri e pollo alla Kiev, ognuno con il suo contorno di verdure.
Erano stati serviti due tipi di pane, bianco e nero, e le fette consumate venivano subito sostituite da nuove porzioni. C'erano due bicchieri per ogni commensale, uno per il vino rosso e uno per il vino bianco, e anch'essi venivano costantemente riempiti. Non i miei, tuttavia, dato che non li avevo toccati. Persino quando brindammo, mi limitai a imitare il movimento generale (in realtà senza bere). Il terzo bicchiere conteneva acqua, il che fu un sollievo, dato che dovevo prendere una pillola. La misi in bocca e presi un sorso d'acqua, che si rivelò subito per essere champagne. Spero che nessuno abbia notato l'espressione sorpresa della mia faccia.
Quando arrivarono i dessert (tre dessert, il primo dei quali era gelato alla fragola), guardai l'orologio: segnava già le 14.45. Il pranzo non era ancora terminato e, infatti, i vari ospiti iniziarono solo allora a porre una serie di domande.
Dovevo prendere il treno delle sedici; Janet mi mancava terribilmente, e capii che ne avevo abbastanza. Non aspettai gli ultimi due dessert, o il caffè. Porsi le mie scuse e me ne andai. Recuperai Janet, che mi aveva aspettato in perfetta comodità, e partimmo.
Fummo i primi a uscire, naturalmente, dato che ero stato il primo a sentire l'esigenza di andarmene prima di aver bevuto l'amaro, e ci incamminammo verso la strada, dove, così ci era stato indicato, avremmo avuto maggiori possibilità di trovare un taxi. Ci sentimmo vagamente buffi, dal momento che tutti gli altri, da quello che ero riuscito a vedere, erano arrivati in limousine. Eravamo gli unici in taxi. All'uomo dei servizi segreti che mi riconobbe, sottolineai questo particolare quando gli domandai dove si poteva prendere un taxi spiegandogli: - Sono nato povero, e povero sono rimasto.
Tutto andò bene fino a quando superammo i cordoni di difesa della polizia; poi, un'orda di giornalisti mi travolse, ma non perché fossi io, ma perché ero il primo a uscire. Volevano sapere cosa pensassi di Gorbaciov, come si era comportato, cosa aveva detto. Feci del mio meglio e spiegai loro esattamente ciò che ho narrato in questo saggio.
Poi vollero sapere con quale criterio erano state scelte le persone che avevano partecipato al pranzo. Replicai con la risposta che mi parve più ovvia: - Suppongo che volesse incontrare i personaggi più rappresentativi della cultura americana, famosi in Unione Sovietica. Per esempio, io e Ray Bradbury siamo scrittori di fantascienza, e i nostri libri sono enormemente popolari in Unione Sovietica.
Mi chiesero anche per quale ragione Gorbaciov aveva sentito la necessità di organizzare questo pranzo. Be', come facevo a saperlo? Così diedi la risposta che stimai più ragionevole: - Penso che il signor Gorbaciov possa aver creduto che un uomo politico non deve limitarsi a parlare esclusivamente a uomini politici.
Ma poi giunse un taxi libero e fummo tratti in salvo. Mi chiesi se nulla di tutto ciò sarebbe stato pubblicato sui quotidiani o trasmesso alla televisione, se anch'io sarei stato citato. Tuttavia, per quanto ne so, quella frenesia a base di cibo non approdò a nulla. Sul New York Times della mattina seguente, il pranzo occupava la prima pagina, ma non si leggeva che ero stato uno degli ospiti fino a quando si arrivava alla continuazione dell'articolo nella pagina interna, dove, in un riquadro, erano elencati alcuni degli ospiti. I nomi erano in ordine alfabetico e io ero il secondo. Quello che non avevo visto, e che Janet mi indicò, era una trascrizione del discorso con cui Gorbaciov aveva aperto il pranzo, completo di riferimento a Bradbury e al sottoscritto. Ne fui deliziato.
Prendemmo il treno delle sedici in perfetto orario e viaggiammo in modo molto gradevole e tranquillo fino a New York. Janet cenò in treno e io mangiai una mela.
Arrivammo a casa alle 19.15: ero stato lontano da casa per dodici ore esatte. Dodici ore trascorse molto bene: ero molto felice di aver preso la decisione di andare a Washington.
FINE