Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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STORIA DI NINO - Vittorio Catani
Le mie prime indagini sul caso di Nino riguardarono l'insolita circostanza dell'incidente automobilistico. Solo in secondo momento, dai colloqui con i genitori, seppi che i signori Ernesto e Magda Rosati avevano adottato il bambino. Nino era stato prelevato a quattro anni e mezzo da un orfanotrofio nell'entroterra di Barcellona, in Spagna, ma delle sue origini i Rosati non possedevano notizie certe.
Nella mia qualità di comandante della vicina stazione di polizia di Foligno ero stato chiamato a occuparmi dei limitati eventi connessi con l'incidente, e nulla mi avrebbe obbligato a estendere le mie investigazioni indietro nel tempo; tuttavia mi risolsi di farli a titolo - lo dico subito - puramente personale. Intuivo che il caso di Nino nascondeva qualcosa di inconsueto, e non avrei avuto pace finché non ne fossi venuto a capo.
Fu così che poche settimane dopo l'inizio di questa storia - era una bigia mattina di settembre - mi ritrovai a circa duemila chilometri di distanza a salire faticosamente una scalinata intagliata in un paesaggio brullo e pietroso che portava su un'alta collina, all'Orfanado "Sinite parvulos". Balbettando uno spagnolo approssimativo esibii le mie credenziali. Poco dopo venni ricevuto dal direttore, padre Jorge. L'Orfanado era di solida pietra scura, spoglio, arredato con essenziale mobilio spagnolo di pregio. Padre Jorge mi aspettava. - Señor Comandante...
- Ermanno Dorigo, padre - lo interruppi io. - La prego, la circostanza m'impone di chiederle di abbandonare i formalismi.
Fortunatamente il mio interlocutore si esprimeva in un accettabile italiano. Rispose: - Certo, señor Dorigo. La notizia che lei ha fatto precedere alla sua visita mi provoca grande costernazione. Ricordo benissimo "el niño"... Una creatura particolarmente sensibile, sa. Oh, scusi, penso ancora a lui come a "el niño" (voi direste "il bambino"), come lo chiamavamo qui. Devo ritenere che "Nino" derivi da questo nostro vezzo? Bene, comunque lui venne subito battezzato, qui dentro. Rammento bene quel mattino. Lo chiamammo Benjamín Ireneo, un nome che però rimase solo in queste vecchie pratiche - e padre Jorge batté una mano su una cartella.
- Padre, forse lei ha già intuito il motivo della mia visita. Le mie incombenze di lavoro non c'entrano, ma io devo sapere tutto su "el niño".
Padre Jorge sorrise appena, il che bastò a creare sul suo volto una ragnatela di rughe. - Capisco il suo sentimento, questa... accorata empatia, direi, che prendeva anche noi, e chiunque qui fosse a contatto col bimbo. Ma devo anticiparle che la deluderò.
In circa un'ora di monologo, che ascoltai in attento silenzio, padre Jorge ricapitolò alcuni dati salienti. Ed era una cronaca davvero particolare. Quando era entrato al "Sinite parvulos", Nino non aveva neanche due mesi (l'Orfanado possedeva un piccolo reparto per i neonati). Era cresciuto normalmente benché tendesse a isolarsi in un suo mondo privato, fantastico, che si rifletteva nel suo linguaggio: essenziale, ai limiti di una infantile poesia. Ma ecco che intorno ai due anni e mezzo aveva contratto una forma degenerativa di congiuntivite.
- Lo curammo amorevolmente - disse padre Jorge - e infatti un paio di settimane dopo appariva ristabilito. Invece... ancora adesso mi sembra impossibile. Nessuno di noi si accorse che "el niño" stava perdendo rapidamente la vista. Il male, señor Dorigo, gli aveva stravolto le funzioni visive e nei suoi piccoli occhi entrava troppa luce. Tanta di quella luce che in pochi giorni ne rimase accecato.
Ovviamente sapevo già della sua cecità, ma osservai meravigliato: - Non avrei mai potuto immaginarne la causa. Non credo neanche che lo sappiano i signori Rosati.
- Cosa vuole spiegare, l'inspiegabile? - Padre Jorge batté nuovamente sullo scartafaccio. - Comunque qui c'è tutto di lui. Tutto - concluse amaramente - tranne l'essenziale.
Prima di congedarmi chiesi a padre Jorge ciò che più mi stava a cuore, cioè se avesse notizia dei veri genitori di Nino. Mi rispose: - Señor, è questa la delusione che le avevo preannunciato. Mi creda, abbiamo sempre saputo ben poco. Le dico solo in confidenza che la madre era una giovanissima ragazza di Alicante, una certa Nélida Sara. Secondo le mie incerte fonti Nélida era stata in contatto con gente residente in Italia. Non so altro, né me ne interessai. Il mio racconto si ferma qui.
Come ho già avuto modo di riferire, "el niño" aveva lasciato definitivamente l'Orfanado e la Spagna intorno ai quattro anni e mezzo. I signori Rosati, assegnatari dell'adozione, abitavano in un piacevole paesino a pochi chilometri da Foligno. Per quanto ne sappia oggi, dopo la conclusione dell'intera storia, i Rosati si trasferirono altrove. Sono trascorsi molti anni, ma il ricordo è molto vivo: gente di media estrazione, piuttosto semplice, dedita al lavoro e alla famiglia. Ovviamente dopo il viaggio in Spagna non interruppi i contatti con padre Jorge. Era evidente che anche lui era rimasto molto interessato a ogni novità sulla vicenda, e di fatto la nostra divenne subito una mutua collaborazione.
Infatti una sera, pochi giorni dopo il mio ritorno dall'Orfanado, padre Jorge mi telefonò e mi disse: - Señor, grazie al rinnovato stimolo della sua perseveranza sono sulle tracce delle persone che si interessarono per far adottare Nino e spero che presto potrò comunicarle buone notizie.
Di certo, comunque, si capiva che i misteriosi registi della vicenda avevano voluto che il bimbo finisse in un ambiente tradizionale e tranquillo, evitando gente ricca o individui eccentrici. Infatti Ermanno Rosati era titolare di una piccola azienda manifatturiera alla periferia del paese; la signora Magda aveva insegnato alle elementari anni prima, poi si era ritirata per accudire una famiglia numerosa. Dopo la morte del sesto figlio i coniugi avevano fatto il voto di accogliere in casa un orfanello: in questo modo Nino era entrato nella loro casa.
Dai Rosati seppi che Nino riusciva a condurre una vita relativamente normale nonostante la cecità. Giunto in età scolare, fu scelto un insegnante privato che avviò il piccolo a studi che si protrassero in modo abbastanza anonimo per poco più di un anno e mezzo. Dopodiché Nino, improvvisamente, non volle più saperne in alcun modo di libri. Scendeva in strada e si intratteneva tutto il giorno nel giardinetto prospiciente la villetta dei genitori, giungendo a volte a inoltrarsi nei vicoli retrostanti. Aveva socializzato con alcuni ragazzini che gli si erano affezionati molto e sui quali pare avesse un certo ascendente. Possedeva anche una certa abilità manuale. Con pochi modesti oggetti (pezzi di legno, cubetti, cordicelle, chiodi) si costruiva semplici giochi di destrezza sfidando e meravigliando i suoi amichetti. In seno a quel minuscolo consesso acquistò carisma, tanto che - tutto questo lo appresi dai famigliari e da vicini di casa - i ragazzi lo interpellavano per dirimere i litigi. Quando il padre lo seppe si incuriosì, e gli chiese come riuscisse a trovare sempre un giudizio equo. Nino rispose nel suo tipico gergo: - Se non fanno pace poi si danno bum-bum, piangono, poi il mio cuoricino fa bum-bum a me.
Oltre ai "suoi" giocattoli aveva anche quelli che gli comperavano i genitori. La madre tenne a precisarmi che mai lui ne aveva distrutto alcuno e mi chiamò in casa per vedere: erano tutti nella sua semplice stanzetta, lucidi e in bell'ordine. Aggiunse: - Comandante Dorigo, vuole sapere una stranezza? Ogni tanto Nino qualche giocattolo lo rompeva; vede quella grande trottola? Una mattina lui era giù a giocare proprio sotto il bordo di un marciapiede, e un furgone la schiacciò facendo retromarcia. Non vedemmo più la trottola, poi una settimana dopo gliela ritrovammo tra le mani perfettamente lucida e funzionante. - Secondo la signora Magda, Nino sapeva riparare i giocattoli ed era convinto che questi in qualche modo lo "difendessero". Aveva raccontato che la trottola gli aveva salvato la vita evitando che fosse lui a rimanere schiacciato.
L'abbandono degli studi segnò per Nino una nuova svolta. Lui giustificò la sua irremovibilità spiegando che ora doveva cercare di capire "la voce". Non aveva tempo per nient'altro. Venne così fuori che da qualche tempo il bambino ascoltava qualcosa che nessun altro percepiva. Un controllo medico appurò che soffriva di un disturbo congenito al nervo acustico; secondo gli specialisti consultati il processo era irreversibile, anzi pareva inverosimile che Nino conservasse ancora l'udito. Lui intanto continuava ad ascoltare cose sulle quali restava reticente. - Comunque capimmo che doveva essere una "voce" maschile - mi disse il signor Rosati. - Maschile e da padre autoritario. Sì, era come se lo chiamasse per impartirgli istruzioni urgenti. Ma era evidente che lui udiva solo una specie di cantilena confusa. Una volta scoppiò a piangere e gridò disperato che c'erano cose importanti da fare ma che non riusciva a capirle.
Questi avvenimenti lo lasciarono solo e stordito. Allontanò gli amici dei vicoli. Con i fratellastri non legava particolarmente, con gli animali invece aveva un rapporto privilegiato. Nel giardinetto c'era un cucciolo tigrato, Trillo, che seguiva Nino passo passo. Lui gli si affezionò quasi morbosamente. Proprio in quel periodo nel quartiere si verificò una misteriosa moria di piccole bestie: cani, gatti, uccelli, lucertole. La gente del paese pensò ad avvelenamenti, all'inquinamento. Le bestiole non mostravano traumi fisici, semplicemente giacevano morte per strada.
Il dottor Bartolo Amaldi, il genetista, entrò in scena parecchio dopo, e del suo rintraccio devo ringraziare gli indizi fornitimi da padre Jorge in una lunga lettera. Finalmente qualcosa di concreto! Gli risposi con un telegramma che diceva semplicemente: "Mi inchino ai rari dilettanti migliori dei professionisti. Riconoscente, Dorigo". Adesso toccava a me. Così scoprii che le ricerche dovevano spostarsi a Torino.
Amaldi, al quale mi presentai esibendo le mie credenziali e manifestando subito il motivo della mia visita, mostrò una controllata sorpresa. Non fu mai reticente: la sua arma, all'inizio almeno, fu semplicemente quella di rimandarmi a un suo amico, tale Adalberto Borri, che però nel frattempo era morto.
Adalberto non era stato un collega di lavoro di Amaldi, bensì un biologo interessato al mondo vegetale. Nel corso di alcuni incontri, Amaldi mi confidò che anni prima Adalberto aveva chiesto alle autorità competenti - e ottenuto - di esaminare la sacra Sindone, il controverso telo che secondo la tradizione avrebbe avvolto Gesù dopo la morte. Decenni di studi su quel lenzuolo hanno portato alla luce, fra l'altro, microscopici reperti botanici. Adalberto ne era incuriosito. Andò a Torino, osservò al microscopio alcune zone della Sindone e individuò sulla fronte dell'immagine alcuni grani di polline, che asportò. Amaldi disse: - Credo che non fosse autorizzato a toccare nulla, comunque venne da me, in quanto genetista, perché voleva tentare degli esperimenti di ricostruzione genetica di antichi vegetali. Come lei sa il mio laboratorio è sempre stato all'avanguardia, sin dal 1998 aveva ottenuto uno stanziamento dal governo, per. la ricerca genetica. Ma a un più attento esame del materiale portatomi da Adalberto, ci accorgemmo che il polline era in realtà un grumo di cellule umane mummificate.
In quel momento, ascoltando Amaldi, non capii dove sarebbe andata a parare questa storia. Ma forse voi che mi leggete sarete in una condizione di maggiore obiettività. Il passo logico era breve e temerario, gli eventi successivi forse inevitabili. Adalberto chiese a Bartolo Amaldi di analizzare il DNA di quelle cellule, e i due ipotizzarono la possibilità di ricostruire la serie cromosomica completa, sia pure integrando con materiale esterno alcuni anelli della catena distrutti.
Amaldi raccontò: - Adalberto era fuori di sé. Voleva... clonare Gesù. Comandante Dorigo, capisce l'enormità della cosa? L'idea prese a incalzarlo giorno e notte. Si sentiva chiamato a qualcosa di eccezionale, ma al contempo era terrorizzato e non sapeva decidersi. Come cattolico osservante forse non si sarebbe mai risolto a farne nulla, per lui la faccenda aveva implicazioni morali e teologiche da schiacciarlo. Ma... c'ero anch'io. Un agnostico completo. Mi creda, dovetti riflettere molto, ma poi pensai di dargli una bella spinta. Gli ricordai che la Sindone poteva essere un'impostura, e questo è notorio. Gli espressi la mia certezza che clonare quel DNA vecchio di venti secoli sarebbe stato impossibile. Tra l'altro non va sottovalutato che Adalberto sapeva di avere un male incurabile che non gli avrebbe concesso molto tempo: questo giocò certamente, in qualche modo, a favore dell'esperimento.
Amaldi mi illustrò, in altre conversazioni, alcuni dilemmi di Adalberto. Vidi che per lui stesso svelare finalmente i fatti a qualcuno che appariva fidato e partecipe era fortemente liberatorio. - Vuole un'idea dei problemi che lo occupavano in quel periodo? Cercava di capire se un clone di Gesù si sarebbe identificato con Lui. Si rispose di no, ma che Gli sarebbe stato vicino più di qualunque altra cosa, certo più dei vari presunti messia succedutisi nei secoli. Secondo la teologia Gesù nacque anzitutto uomo. Un Suo clone, comandante Dorigo, sarebbe stato divino? Avrebbe avuto in sé la Grazia? Sarebbe stolto negarlo, nelle nostre decisioni giocò anche una sconfinata superbia. Ricordo come fosse ieri. Una sera andai dal mio amico e gli annunciai che avevo deciso anche per lui. Avremmo clonato il DNA e saremmo rimasti a vedere. Perché pretendeva di dare risposte a domande più grandi di lui? Le risposte le avremmo ottenute dai fatti! Rassicurai Adalberto che, considerata la mia lunga attività di genetista, non avrei avuto difficoltà a reperire e affittare un utero. Comunque la gestante non avrebbe mai saputo nulla dell'antefatto.
La scelta della "madre" avvenne tramite canali riservati e cadde su un'adolescente spagnola; era di Alicante e si chiamava Nélida Sara Huesca. Ovviamente io lo sapevo già, grazie a padre Jorge. - Nélida era affetta da una forma di vaginismo e sosteneva di non aver mai avuto rapporti sessuali e forse era vero - mi disse Amaldi. - Ma a noi la cosa interessava perché comportava un minor rischio di contrarre malattie; volevamo prendere ogni precauzione possibile. Alla ragazza fu prelevato un ovulo che le venne reimpiantato dopo aver provveduto a svuotarlo del suo patrimonio genetico e a fecondarlo con quel DNA. Lei si impegnò solennemente a continuare a non aver rapporti per tutta la gestazione: le fu dato un buon anticipo per consentirle di svolgere decorosamente il suo compito... e alla fine, sa cosa? - Amaldi mi guardò e sorrise. - Avemmo la dimostrazione che mi sbagliavo! Perché il DNA era valido e il bimbo nacque. - E concluse ironico: - Secondo me in questa storia si è verificato un unico vero miracolo, ed è stato proprio questo.
I due scienziati si erano attivati per far sistemare in tutta fretta il neonato in un orfanotrofio di comprovata validità, in attesa di cercare un adeguato affidamento. Amaldi non me lo dichiarò apertamente, ma mi parve chiaro che entrambi avessero paura di quel bambino. Che comunque, almeno in apparenza, era nato normalissimo.
Ed eccoci tornati all'inizio della mia storia. Non ho molte cose da aggiungere, purtroppo, se non che la crescente sordità di Nino e "la voce" lo portarono a estraniarsi, a farsi quasi muto. Si trascinò così per molti mesi. Trascorreva la maggior parte del suo tempo nel vicoletto dietro casa, addossato al muricciolo, bisbigliando tra sé e sé.. Poi, come sapete, ci fu l'incidente.
I Rosati chiamarono immediatamente il 113; qualcosa nella dinamica del fatto lasciò tutti perplessi. La tragedia avvenne nel periodo in cui il sindaco del paese aveva disposto per le autopsie di alcuni animali morti inspiegabilmente, ma questo genere di investigazione non aveva dato risultati. Io fui chiamato per approfondire le indagini; l'automobilista che svoltò nel vicolo, tale Fournier, dichiarò di essere un turista di passaggio. Secondo la sua versione, vide improvvisamente un ragazzetto buttargli un gattino fra le ruote anteriori. Il piccolo era corso con passi incerti verso il centro strada, qualcosa lo aveva fatto incespicare e cadere. Si era ritrovato anche lui sotto la vettura. Nino e Trillo morirono col cranio spiaccicato, sangue e visceri dell'uomo e dell'animale mescolati.
Da allora sono trascorsi molti anni. Mi decido a parlare solo adesso, lontano finalmente da un impatto emotivo che per me è durato a lungo. Ma nonostante ciò che scoprii, e nonostante abbia rimuginato a lungo i fatti, non ho alcun titolo per sapere chi fosse veramente Nino. Né, credo, ne ebbe padre Jorge, che messo a parte d'ogni cosa preferì ritirarsi in eremitaggio vari anni addietro. Di lui non ho più alcuna notizia. Circa Amaldi, l'ultima volta che lo vidi - anche questo incontro avvenne parecchio tempo fa - mi raccontò che Adalberto era morto due mesi dopo che Nino era entrato nell'orfanotrofio. - Meglio così, Dorigo - mi disse. - Non so come avrebbe reagito al seguito. Pensi che, già allora, una notte mi telefonò per dirmi che secondo lui la scienza aveva avuto l'ardire di trafficare col corpo umano, ed era inconcepibile che ora volesse manipolare anche il divino; come risultato avrebbe prodotto solo un riflesso opaco del divino.
Personalmente, penso che i duri eventi della breve vita di Nino alla fine dovevano averlo incattivito. Solo in questa luce ritengo si chiarisca l'atto altrimenti ingiustificabile contro il suo gattino. Volutamente il mio ragionamento si arresta dinanzi alle altre piccole, inspiegabili morti. Quando la madre mi mostrò alcune sue foto, chiesi di poterne conservare una. L'ho sempre qui, sulla mia scrivania. Non aveva ancora otto anni e... Sì, per ciò che può dirci la foto di un bambino, esiste secondo me una somiglianza col volto adulto della Sindone. Ma questo credete che dimostri qualcosa? Solo che Nino poteva davvero essere il clone di un individuo - chiunque costui fosse - morto secoli fa.
Perché invece se realmente di Lui si trattò... Be', rifiuto anzitutto di pormi il labirintico problema del perché Egli abbia accondisceso agli avvenimento che ho raccontato. Solo di una cosa, nel mio piccolo, sono sicuro. Se Nino fu davvero ciò che altri pretesero che fosse, questa è una storia esemplificativa dell'oggi. La storia, oserei dire, di un mondo che non riconobbe il suo dio, e di un dio che non seppe ritrovare il suo mondo.
FINE