Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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MA CHE FUTURO CI HAI FATTO? - Giuseppe Lippi

Viviamo nel futuro, negli anni memorabili (a priori) che fanno corte al 2000. In gran parte dei racconti di SF scritti negli anni Cinquanta e Sessanta era questo lo scenario per antonomasia, l'ultimo scorcio del XX secolo che Heinlein definì gli Anni Folli e George Orwell immaginò con filosofica accuratezza. E già ci siamo lasciati alle spalle, oltre al 1984, l'enigmatico 1973 di Mark Phillips e il terribile 1980 di Occhi bianchi sul pianeta Terra, per non parlare dello sconvolgente quanto "assurdo" 1960 di Fredric Brown. Fra poco scoccherà l'ora della Battaglia per la Terra: nel penultimo atto del "Pianeta delle scimmie", infatti, si vaticinava che lo scontro frontale tra uomini e gorilla sarebbe avvenuto nel 1996, mentre a breve distanza (se sopravviveremo alla carneficina con i nostri cugini primati) seguiranno le importantissime scoperte lunari del dottor Floyd e la missione oltre Giove dell'astronave Discovery.
Altri giorni, altri occhi... In attesa di verificare se il 2001 ci porterà davvero un'aurora cosmica accompagnata dai valzer di Strauss, dimentichiamo per un attimo il futuro-futuro e concentriamoci sul futuro-presente, quello in cui viviamo oggi, dicembre 1995, e chiediamo a Chi Sta Lassù, con una punta d'angoscia:
"Ma che futuro ci hai fatto?"
Per rispondere a questa sheckleyana domanda bisogna guardarsi intorno, uscire dalla macchina del tempo in cui siamo partiti nel 1964 o giù di lì e prendere in considerazione il mondo "reale", la fantasmagoria in cui siamo immersi fino al collo. È un mondo pieno di luci e colori, spie ammiccanti e servomeccanismi, terminali telefonici senza fili e telecomunicazioni dallo spazio, computer e ingegneri genetici... C'è perfino, guarda un po', lo spettro di un Grande Contagio che si aggira per il mondo in omaggio alla memoria di Charles Eric Maine.
Pura fantascienza!
Può darsi, ma in questo pezzo non vogliamo concentrarci sulle meraviglie della tecnica e sugli scenari "virtuali" che qualche ingenuo continua a trovare fantascientifici (mentre sono soltanto elettronici): no, a beneficio degli Enoch Soames del passato, di tutti gli inquieti uomini-libro del terzo pianeta andremo a scavare nei meandri dello spettacolo e della rappresentazione, dell'arte (se volete) o dell'imbonimento (se preferite); e cercheremo di mostrare come nella nostra cultura si sia avverato in pieno lo scenario immaginato nella più curiosa parabola sull'arte di massa che ci abbia dato la fantascienza americana: il solipsistico Regola per sopravvivere di Richard Matheson. Ricordate quel racconto?
Scritto negli anni Cinquanta, narra la storia di uno scrittore che sforna con regolarità bellissimi, e lunghissimi, romanzi fantasy. Cicli interminabili e pieni di miele con eroine stupende che puntualmente sposano il principe fatato, storie che strappano il pianto perfino al postino addetto al recapito del manoscritto e al redattore che lo prepara per la composizione. Quando il libraio riceve la prima copia finita del romanzo, non può esimersi dal divorarlo immediatamente, mentre il tipografo è già in paradiso e si appresta a fame, magari, una sapida rilettura. Ma il racconto è alla fine, Matheson scopre le carte: scrittore, postino, tipografo, rivenditore non sono che lo stesso uomo. È l'ultimo individuo rimasto sulla Terra spopolata, dove soltanto una commossa riappropriazione dell'industria culturale può essere considerata, malinconicamente, la "regola per sopravvivere" di cui parla il titolo.
Sebbene il mondo non sia (ancora) spopolato, sebbene molti di noi abbiamo l'impressione di vivere in un formicaio, molti altri però si sentiranno solidali con l'eroe di Matheson: uomini soli in mezzo a milioni di altri consumatori solitari, difesi esclusivamente dalle ombre dei propri "intrattenimenti" privati e sempre più disposti ad accettare - per sopravvivere - merce artistica che ha valore soltanto sul piano del solipsismo, cioè in un ambiente di comunicazioni "chiuse" ed egoistiche almeno quanto sono materialmente ramificate.
Ma per capire come si sia arrivati a tutto questo bisogna fare un passo indietro. Qualcuno ricorda ancora il mondo antecedente al 1977? In una società di date fatidiche quanto fittizie, quell'anno, tuttavia, può essere scelto come un autentico spartiacque nel mondo della fantascienza e del cinema popolare. Fu quando uscì Guerre stellari, il film che lanciò la voga dell'intrattenimento planetario e al cui confronto i Via col vento o i James Bond del passato facevano sorridere.
Non era esattamente un film di fantascienza, era una kermesse di ingredienti studiali a tavolino con una freddezza esemplare, e che, con la scusa di regalare alle giovani generazioni il fascino dei vecchi serial alla Flash Gordon, otteneva come principale risultato quello di incassare alcuni miliardi e gettare le basi per l'attività tecnologica della Industrial Light & Magic, la società di effetti speciali computerizzati voluta da George Lucas.
Per il resto, calma piatta: nessuna idea veramente originale, nessun concetto esteticamente apprezzabile anche dal pubblico adulto, non molti guizzi nella regia (come pure ne avrebbe avuti, negli stessi anni, l'altro grande intrattenitore mondiale Steven Spielberg). Ma il film non era pensato per il pubblico adulto: Guerre stellari e i suoi seguiti furono veramente geniali su un altro piano, quello delle strategie produttive, distributive e del merchandising (oltre che al già ricordato livello dell'applicazione tecnologica). Si vide - e in questo Lucas fu un pioniere - che l'elettronica e i computer avrebbero permesso di attuare una vera rivoluzione nel cinema, vale a dire il più potente mezzo d'intrattenimento insieme alla televisione. Non ci sarebbero stati limiti ai trucchi e agli effetti visuali; come aveva capito Walt Disney quarant'anni prima, progettando Biancaneve, si sarebbe potuta raccontare qualsiasi fiaba che servisse a indorare la pillola al mondo: un mondo necessariamente indifferenziato, con spettatori di tutte le lingue, razze e culture, purché abbastanza semplici da mandar giù uno spettacolo così ingenuo scambiandolo per esperienza meravigliosa.
Difficile pensare che un regista come Lucas non si rendesse conto dei pericoli artistici insiti in un'operazione del genere: quando puoi contraffare lutto, quando puoi "disegnare" sullo schermo gli effetti che vuoi, quando puoi far accedere lo spettatore a una realtà virtuale e seconda senza che questo ti limiti in alcun modo, cioè ti sfidi a renderti credibile, evidentemente come creatore abbandoni il campo dell'arte (sia pure dell'arte popolare) ed entri in quello dell'ingegneria, come una quindicina d'anni dopo avrebbero dimostrato i programmatori e progettisti di videogiochi.
La pecca di Guerre stellari, da un punto di vista apocalittico, non è altro che quella di essere il capostipite di un genere di spettacolo i cui referenti sono tutti interni e non tengono alcun conto dell'orizzonte esterno. Questa tendenza, certo non inventata da George Lucas, è stata però notevolmente rafforzata dalle possibilità offerte dalla manipolazione elettronica dell'immagine, che in sé e non è affatto un male (vedi l'uso geniale che ne hanno fatto altri registi, per esempio Tini Burton) ma che può condurre alla realizzazione di prodotti artistici totalizzanti in cui l'esperienza è sostituita dalla falsificazione, cioè dall'illusione di essere proiettati nell'ambiente immaginario della storia fino a che questo sostituisca, ipocritamente, il mondo.
La polemica può sembrare sterile e retroattiva, ma secondo noi contiene elementi vitali. Si parla sempre più di arte elettronica: occorre tenere in mente, tuttavia, che non è possibile entrare in una dimensione estetica (almeno nel senso che si è dato ali 'aggettivo "estetico" fino a oggi) se non si instaura un rapporto originale tra la nostra immaginazione e ciò che sta oltre (o dietro) di essa: questo qualcosa, che potremmo definire la "realtà" nel senso più vitale della parola, è sempre intrecciato alle opere originali, anche quelle più fantastiche e frivole, anche ai cartoni animati e ai musical, ai film di fantascienza e a quelli di Totò. Fino a oggi, infatti, per opera artisticamente riuscita - a prescindere dal "genere" e dal livello di raffinatezza - si è inteso un'opera che in qualche modo trasformasse il reale, trasportandone i vari aspetti sul piano dell'invenzione o dell'interpretazione originale.
Tuttavia, se io snobbo la realtà o mi limito a falsificarla, se la scimmiotto ma non ho la minima intenzione di capirla, se, in parole povere, riduco l'universo intero a un videogame, ho ben poche possibilità di soddisfare qualsiasi canone artistico, fossero pure quelli del cinema di avventure. Il pubblico per il quale sono pensate le saghe di Lucas o quelle di tanti bestseller fantasy è un pubblico "murato" dentro esperienze sempre più rarefatte: come l'autore-editore-poslino-libraio di Matheson, esso fa parte di una catena della quale non è consapevole, e i cui bisogni spirituali possono essere alimentati solo in modo illusorio e contraffatto.
Eppure, sbaglieremmo nell'affermare categoricamente che i film di Lucas e prodotti simili (anche nel campo della narrativa di consumo) si pongano al di fuori del campo estetico: certo, queste opere non si conformano ai sentimenti fin qui vigenti in fatto di raffinatezza e abilità nel racconto, ma è altrettanto indubbio che con Guerre stellari e una parte dei film di Spielberg, oltre che con centinaia di prodotti d'imitazione, sia sbocciata a poco a poco una concezione nuova dello spettacolo; una concezione tecnologico-autoritaria, direi, ma blandamente autoritaria: il pubblico è chiamato a ridere, piangere o battere le mani di fronte a cose sempre più sofisticate e sempre più ovvie, eppure questo non fa che assecondare una diffusa tendenza alla passività (nella ricezione dello spettacolo e della "cultura") che da molti è sentita ormai come familiare, desiderabile e addirittura necessaria. Non avete mai sentito i commenti di chi non sopporta più i film alla tv senza le interruzioni pubblicitarie? Quando ci sono gli spot ci si alza e si va a fare la pipì o uno spuntino, o meglio ancora li si guarda in alternativa al prodotto continuo, narrativamente strutturato in senso classico...
L'arte tecnologica, e l'arte elettronica in particolare, pongono numerosi interrogativi per il futuro della cultura di massa. A nostro modesto avviso le arti "popolari" del cinema, del fumetto, della televisione e della canzonetta hanno registrato, negli ultimi vent'anni, un micidiale impoverimento sul piano dell'immaginazione e della capacità di interessare un uditorio adulto. La loro distribuzione su scala planetaria (una necessità che di per sé ci guardiamo bene dal criticare) ha provocato fraintendimenti e storture non indispensabili, ma ormai forse irreparabili: si pensi al ritorno in auge delle soap opera americane, il cui ritmo narrativo ha creato un'estetica fondata sul continuo rinvio o iterazione del pathos; si pensi al cinema "corretto" al computer in cui attori morti o infermi recitano nuovi ruoli, pronunciando battute inaudite; si pensi alla malvagità dei "buoni sentimenti" che al cinema (e in tanta narrativa pop, ivi inclusa la fantascienza) hanno fatto strage di ogni parvenza di lucidità artistica e sincerità d'ispirazione. Sì, decisamente, mala tempora currunt per l'intrattenimento genuino. E già camminano fra noi donne e uomini che non hanno mai visto un film non virato, che ignorano l'esistenza del cinema muto, che amano un certo genere letterario ma solo dal 1980 in poi, che leggono solo libri tradotti e credono che un contenuto "corretto" sul piano politico e sessuale, ambientalista e razziale sia il massimo a cui può aspirare il messaggio di un autore.
Sì, la narrativa popolare si è fatta pesantemente edificante ed è anzi progettata con lo scopo di apparirlo sempre più. Essa ha bisogno di un'ideologia, per essere venduta: il pubblico vuole comperare non solo una "storia" o dei "sentimenti", ma la convinzione e rassicurazione che l'acquisto che sta facendo sia importante, al passo coi tempi e ideologicamente a posto.
E ovunque le stesse facce di automi e di robot, che siano spacciatori di merce adulterata o frettolosi consumatori, vi guarderanno con gli stessi occhi beoti per ripetere: "Niente roba sorpassata, per favore... No, quella è preistoria... Sì, oggi finalmente i personaggi hanno un vero spessore psicologico!" (detto magari dell'ultima e cretina avventura dell'Uomo Ragno o del più miserabile fra i polpettoni fantascientifici...).
Questo è più o meno ciò che è avvenuto nel campo dell'arte popolare negli ultimi due decenni. Questo è il futuro che ci è stato fatto (che ti siamo fatto).
Non è il mondo del Pianeta proibito o dell'Astronave atomica del dottor Quatermass, ma di Su dai canali (sempre Matheson) e Il video ci guarda (Fredric Brown). È il mondo in cui Dave Bowman, eroe di una missione trascendente, inganna i lunghi mesi di volo verso Giove guardando le registrazioni dei programmi BBC e gli spettacoli gratuiti offerti dai cento canali che arrivano via satellite. Per fortuna che a distrarlo ci pensa un "ego" altrettanto solipsista e impazzito come quello di HAL... Ed è a Lui che vorremmo rivolgere un'Ultima Domanda:
"HAL, esiste ancora l'arte?"
Sinistro sfarfallio, e poi, accendendosi come un maxischermo, la Risposta:
"Sì, adesso esiste!"

FINE