Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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SIAMO SEMPRE NOI - Laura Serra
Nel 1954, in Non saremo noi, Philip Dick immagina il mutante dei mutanti, un essere dorato, velocissimo e apollineo destinato a soppiantare l'uomo. Dick non è l'unico a prevedere evoluzioni eccezionali, naturalmente. Un anno prima, Sturgeon ha fantasticato che il superuomo sia l'"Homo Gestalt", il prodotto delle facoltà paranormali di un gruppo di emarginati. Dotati di poteri ESP sono anche gli slan di van Vogt, sagaci devianti nemici della guerra e della violenza, insomma buoni, come già buono era l'homo superior di Olaf Stapledon, così buono, anzi, da uccidersi per non distruggere la volgare e normale umanità. Oltre a mutanti e superuomini la SF degli anni Cinquanta e Sessanta si sbizzarrisce a prefigurare cronache del dopobomba, società chiuse come quelle degli insetti, colonie spaziali dove si combatte la noia con gli allucinogeni, mondi alternativi in cui Hitler ha vinto la guerra, imperi galattici strutturati secondo il modello di quello romano, robot simpatici o distruttori, catastrofi planetarie e ovviamente alieni di ogni latitudine, tentacolo e colore.
Poi arriva l'inner space, lo spazio interiore, e il politically correct fa il suo ingresso nel genere. Compaiono in scena scrittori che sono docenti universitari, poeti, poetesse, editor, critici, figlie di antropologi, giornalisti, psicologhe collaboratrici del Pentagono e letterati con bachelor, master o Ph. D. I lettori hanno l'onore di leggere "l'unico scrittore nero (e per di più gay) di fantascienza", "l'unica scrittrice nera di fantascienza", "l'unica autrice dichiaratamente lesbica della fantascienza" e via dicendo. A volte il genere intristisce, stemperandosi in elucubrazioni che hanno degno esito, sempre politicamente corretto, nel cyber-punk. Tuttavia non intristisce solo per quello, ma anche perché l'illusione della conquista spaziale muore con il Challenger e il taglio di fondi alla NASA, gli alieni appaiono assai meno probabili delle madonne lacrimanti sangue e la realtà comincia a diventare così grottesca da eguagliare o superare le più sfrenate previsioni. Venuto meno, con il crollo dell'URSS e del muro di Berlino, il quadro della dittatura totalitaria descritto dallo Zamjatin di Noi e dall'Orwell di 1984, si profila una società sempre più simile a quella del Mondo nuovo di Huxley. Una società così beatamente edonistica da rendere difficili l'ironia scanzonata di uno Sheckley o quella sferzante di un Vonnegut; l'ironia, infatti, presuppone la partecipazione intelligente del pubblico, una partecipazione che l'analfabetismo di ritorno e la vasta acquiescenza a modelli imposti dai media vanno progressivamente spegnendo. La stessa usanza di leggere diventa, salvo che per grassi e ripugnanti best-seller, una mania di pochi, quasi da filatelici o numismatici. La sbornia da tv e da film hollywoodiani per adolescenti insipienti mette radici talmente profonde da rendere inusitati i ritmi più placidi della lettura di un classico o della visione di un film d'autore. L'istupidimento trova conferma e conforto nella politica, ormai roba da clown: palcoscenico per attori, tycoon, sassofonisti e grandi bevitori. Fitness, jogging, trekking, lifting, loft, panel, talk show, telemeeting, modem, Internet, fax e fix (di coca, ero, crack o ecstasy) rappresentano i doveri civici di destre e sinistre che muoiono e risorgono cambiando nome in continuazione.
La scomparsa di originalità, individualità e senso critico potrebbe anche rivelare un certo macabro fascino, se non fosse già stata descritta dettagliatamente nel 1932. "Non si può consumare molto se si resta seduti a leggere libri" si dice nel Mondo nuovo di Huxley. La gente deve stare sempre in gruppo, in compagnia. La solitudine è dei reietti. L'etica del consumo offre "tutti i vantaggi del cristianesimo e dell'alcol" e "nessuno dei difetti". Tramite l'ipnopedia, esercitata da slogan ripetuti durante il sonno, ma anche da una tv che "viene lasciata in funzione come un rubinetto aperto, dalla mattina alla sera" da spettacoli dozzinali come Tre settimane in elicottero, "superfilm a colori, parlato sinteticamente, cantato, stereoscopico e odoroso" e dal soma, una sorta di Procaz che ognuno prende al minimo accenno di turbamento interiore, la felicità formale diviene condizione costante, perché, come osserva il governatore - naturalmente cialtrone - Mustafà Mond, "la società industriale è possibile solo quando non vi sia rinuncia". Bisogna "concedersi tutto sino ai limiti estremi dell'igiene e delle leggi economiche. Altrimenti le ruote cessano di girare".
"La civiltà è sterilizzazione", si ripete nel Mondo nuovo. L'orrore della sporcizia, delle malattie, della vecchiaia, della bruttezza fisica, l'orrore per ogni legame profondo e ogni afflato emotivo che non sia di natura puramente sessuale producono il consumatore perfetto, che vive sempre a contatto con gli altri, fa continue vacanze in elicottero, cura la forma fisica, snocciola un'ecolalia di discorsi precotti e si bea di film dalla trama becera e dal tripudio di effetti speciali. L'importante è che questi film provochino "una quantità di sensazioni gradevoli".
"Bisogna scegliere tra la facilità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte. Ora abbiamo i film odorosi e l'organo profumato", sentenzia Mustafà Mond. Più di sessantanni dopo, è evidente che anche la piccola arte è stata sacrificata: quella magari ingenua, magari didascalica, ma certo immaginosa e intellettualmente stuzzicante della fantascienza classica. La realtà rischia di diventare così demente che l'unico metodo di estrapolazione e "previsione" rimasto, di là dall'avventura puramente evasiva e dall'onanismo politicamente corretto, è il demenziale alla Douglas Adams, ultimo epilogo del signor Carmody e dei suoi dialoghi paradossali. Il resto, all'interno e soprattutto all'esterno della narrativa, è nebbia, ovvero noia. Nessun mutante apollineo e dorato, se non nei film - odorosi o meno - che la premiata ditta Dreamworks Skg (Spielberg, Katzenberg e Geffen) vorrà portare sugli schermi; nessuna società strutturata more insectorum (a meno che, come in Una supposizione insensata di Henry Kuttner e C. L. Moore, schiacciati dalla routine non giudichiamo all'improvviso strano essere uomini e logico essere insetti); nessuna colonia spaziale in cui drogarsi, perché già qui, come dice il protagonista di The Secret Songs di Fritz Leiber, ci imbottiamo di farmaci "per sopportare il lavoro"; nessun impero galattico, nessun alieno carismatico, nessun androide malefico o emarginato, nessun vento dal nulla, nessun deserto d'acqua o foresta di cristallo, nessun robot più amabile di un ottuso computer; ma un'esplosione di politiche simili al "bokononismo" di Vonnegut, che predicano impavidamente la loro simultanea verità e falsità. Nonostante Sturgeon, gli handicappati non sono diventati supenormali, ma i normali spesso paiono subnormali. Nonostante Stapledon, non è nato nessun homo superior, o forse quello che lui costringe al suicidio ha voluto non già benevolmente, bensì perfidamente, lasciare il posto all'homo vulgaris. Nonostante Dick, non abbiamo per mutazione generato alcun "animale perfettamente adattabile" capace di soppiantarci. Come ha dimostrato Aldous Huxley, non ci siamo evoluti molto. Siamo sempre noi.
FINE