Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
* * Back * *

L'OSCURA ANIMA DEL PROGRESSO - Franco Forte

1

Sul pianerottolo, davanti alla porta di legno rinforzata, l'uomo che quel giorno si faceva chiamare Joachim Waldstein cominciò a spogliarsi metodicamente, con estrema calma. Era l'una di notte. Fuori dell'edificio la città si stagliava nell'alone traslucido dello smog, un collare d'organza che soltanto la pioggia avrebbe potuto spazzare via.
Waldstein era concentrato, e le sue labbra carnose si muovevano nella penombra lasciando esalare un filo di voce mentre si spogliava.
- Intendersela con le ragazze, litigare con gli uomini, aver più credito che denaro... Così va avanti il mondo.
Cantava l'aria per basso Mit Mädeln sich vertragen, un'opera giovanile con testo di J. W. Goethe, e le parole suonavano rauche nelle cavità oscure della sua laringe.
Su un gradino aveva impilato ordinatamente la giacca grigia, i pantaloni, la camicia, la cravatta. Le scarpe erano più sotto, con i calzini arrotolati conficcati dentro. Waldstein non indossava la canottiera, e prima di sfilarsi i boxer prese un lungo respiro e concluse il motivo dell'aria Intendersela con le ragazze. Era un brano molto semplice, cosparso di esuberanza giovanile, pensato per un basso e un'orchestra composta da archi, oboi e corni. Nel catalogo delle opere compariva con la sigla WoO 90. L'aveva composta all'età di 22 anni.
Piegò anche i boxer, li depose sulla camicia con il colletto inamidato e si raddrizzò lisciandosi all'indietro i capelli lunghi e neri. Non li tagliava da quattro anni, e quando era nudo gli sfioravano la schiena in modo sensuale.
Adesso era pronto. Il ritmo della musica, l'allegro vivace animoso dell'incipit, gli scorreva nel sangue.
- Sì - annuì l'uomo che quel giorno, in quel secolo, si faceva chiamare Waldstein. - Ci siamo.
Avanzò a piedi nudi sul pianerottolo e si accostò alla porta. Bussò quattro volte, come convenuto.
Non dovette attendere più di una manciata di secondi. La donna che comparve nella losanga di luce era alta e dinoccolata. Si stagliava come un'affilata ombra cinese. Waldstein vide la catenella della porta tendersi fino alla portata massima, venti centimetri. La donna abbassò gli occhi e cominciò a farli scorrere sul corpo nudo dell'uomo.
- Voltati, tesoro - disse quando fu arrivata alla radice dei capelli.
Waldstein obbedì in silenzio. Il freddo gli correva nella ossa filtrando dai talloni, e altre arie musicali premevano nei corridoi sconfinati della sua mente, ma si sforzò di tenerle sotto controllo.
- Va bene - disse finalmente la donna richiudendo la porta e riaprendola dopo aver sfilato la catenella. Aveva controllato che fosse tutto a posto, che non ci fossero grinze o smagliature sulla sua pelle tesa dal freddo. - Entra. Gli altri sono qui già da un pezzo.
Waldstein non sorrise. Non annuì. Si limitò a raccogliere i vestiti e a entrare nel lago di luce le cui propaggini traboccavano andando a morire sul gelido pianerottolo.

2

La sala era gremita all'inverosimile. Dalle ampie vetrate si poteva scorgere la mezzaluna orientale della città, i lontani sobborghi pieni di tafferugli notturni e le macchie di luce indistinte dell'aeroporto.
I camerieri giravano tra gli invitati reggendo vassoi d'argento, e quando uno di loro passò accanto a Waldstein, questi allungò la mano e raccolse un calice di champagne. L'assaggiò in punta di lingua, frenando la tentazione di seguire il ritmo della musica che si sprigionava dagli altoparlanti facendo danzare la mano nell'aria, allo stesso modo in cui le bollicine dello champagne veleggiavano verso morte certa nel lungo calice del bicchiere.
Il salone era grande e arredato con gusto, Dominique ci sapeva fare. Lui le aveva dato qualche consiglio, ma alla fine aveva dovuto arrendersi all'evidenza: la modestia di quella donna eguagliava il suo occhio elegante. Si fermò quando vide un dipinto alla parete, certamente una copia di pregio di un quadro del Rinascimento. Rappresentava una donna su un campo di battaglia, con le braccia spalancate e l'espressione inerme. Sotto il suo ginocchio c'erano le rovine di un edificio, e da esse spuntava il braccio di un uomo esangue.
- I nordici amano tutto quello che è fuori e oltre la natura.
Waldstein sobbalzò. Non si era avveduto della donna che l'aveva avvicinato, più bassa di una spanna e con il profilo affilato, tagliato a doppia lama.
Lei sorrise e lo guardò con gli occhi obliqui. - Delacroix. Credo si riferisse a Edgar Allan Poe, ma quando ha dipinto quel quadro forse nutriva già in sé il germe del risentimento.
Waldstein tornò a guardare la donna sulla tela, la veste aperta sul seno, il moro alle sue spalle che teneva una mano sull'impugnatura della spada.
- Davvero notevole - disse, lisciandosi all'indietro i capelli sulla fronte in un gesto meccanico. La donna al suo fianco sembrò fremere di desiderio. Succedeva sempre.
- S'intitola "La Grecia morente a Missolungi". Non è il mio preferito. Delacroix ha fatto di meglio.
Waldstein sorrise e si passò la lingua sul labbro inferiore. Aveva visto una pubblicità in televisione e si era convinto che gli ordini delle cose stavano mutando. Adesso erano le donne a cacciare gli uomini, a farsi ammaliare dalla loro vanità, e bastava un semplice gesto, le labbra inumidite per far scoccare nel loro ventre le scintille del desiderio.
Il party spumeggiava attorno a loro, ma Waldstein si rese conto che la donna l'attraeva. Era appena arrivato e già sentiva il bisogno di appartarsi.
- C'è molto rumore, qui - disse porgendole il braccio. - Andiamo da qualche parte a fare due chiacchiere? Ancora non ci siamo presentati.
- Laura - disse lei, seguendolo con gli occhi che brillavano. - Il resto non ha importanza.
L'opera numero otto, la serenata per trio d'archi in re maggiore attaccò nel cervello di Waldstein intonandosi alla sua andatura. Era uno di quegli atti di musica evanescente, astratta, che bene s'incarnavano nel sentimento frizzante e malinconico che lo pervadeva. Il gioco dei contrasti, l'Adagio e l'Allegretto, l'umore che cambiava con un refolo di vento.
Voleva vederla nuda per accertarsi che fosse del tutto umana. Poi forse le avrebbe fatto conoscere Delacroix. Un personaggio quanto mai sinistro che aveva intravisto con la coda dell'occhio aggirarsi per la sala, con la pelle tesa e splendente della sua ultima muta.
Forse a lei non sarebbe piaciuto come i suoi quadri.

3

Dominique lo vide dall'angolo del pianoforte e si sbracciò per richiamare la sua attenzione. Waldstein aveva gli occhi stanchi, e la piacevole spossatezza che lo coglieva dopo ogni accoppiamento era adesso un languore nauseante sul fondo dello stomaco. Laura era stata una delusione. Non aveva capito, non aveva intuito la grandezza del momento e si era lasciata andare, senza respirare l'impeto della rivelazione.
Adesso giaceva abbandonata su un letto, col bianco corpo pieno di striature rosse. Quando si fosse risvegliata non avrebbe ricordalo nulla, neppure la forza raggelante dell'amplesso che li aveva uniti. Waldstein si rese conto che non era il caso di presentarle Delacroix o Vincent. Non avrebbe potuto sopportare tanta energia in un giorno solo.
- Ludwig, caro! - Dominique lo chiamava sventolando le lunghe mani affusolate. Sembrava aver dimenticato il suo nome attuale, o forse voleva dimostrare così la sua impudenza. - Ti prego, non puoi deluderci. Suona qualcosa. Fallo per me.
Lei contravveniva alle regole, e per qualche istante Waldstein pensò di ruotare sui tacchi e abbandonare l'appartamento. Ma ormai la folla si divideva davanti a lui come le acque del Mar Rosso, e tutti gli occhi lo scrutavano avidi di cogliere il sapore di quella novità (per raccontarla al prossimo party, forse, o per deriderla dietro il cristallo di un bicchiere ricolmo di champagne).
Waldstein si guardò attorno con angoscia. In quei momenti, attimi spaventosamente eccitanti a cui non sapeva rinunciare, la spina dorsale gli s'irrigidiva e il cuore accelerava, inondandolo di antica gloria. Era uno sbaglio e lui lo sapeva. Per questo cercava di evitare quegli inviti e diffidava soprattutto di se stesso, della sua capacità di resistere a una tentazione che era scolpita nel suo corredo genetico.
Se gli altri avessero saputo... se avessero compreso la verità...
Ma no. Le facce che lo circondavano erano bianche, quasi trasparenti, con il pallore cereo del Ventesimo secolo cosparso come biacca cosmetica, una mistura di smog e tossine assorbita dall'aria, dal cibo, dalla terra e dall'acqua.
In qualche modo, con tutti i suoi disagi e le sue peculiarità, lui rimpiangeva gli sfarzi dell'Ottocento.
- Suonerai per noi, vero, Ludwig amore mio? Sarà il giorno più bello della mia vita.
Dominique era unica. La dea Gauri della Mano destra, la Shakti prakashatmika, colei che è luce e manifestazione. Usava sottilmente la sua abilità nelle tecniche tantriche, e anche in quel momento, mentre muoveva le dita come se solleticasse l'aria, lui sapeva che stava componendo qualche mudra di richiamo.
Aveva scelto un nome che le si confaceva, e un nuovo aspetto che metteva in risalto l'agilità delle lunghe gambe e il pallore delle braccia sottili. Lei era la più anziana di tutte, e già dai primi secoli dell'era cristiana, quando aveva assunto la sua prima forma, sapeva esattamente qual era il suo scopo: tracciare il Vajrayana, la Via del Diamante e della Folgore. E aprire la strada ai suoi simili perché potessero integrarsi con la specie di quel mondo senza destare sospetti.
Ma adesso forse era diventata troppo sicura di sé. E quindi pericolosa.
Per questo Waldstein era stato mandato da lei.
- Tesoro!
Un mormorio si alzò dalla folla, mani affusolate si allungarono e cominciarono a spingerlo verso il pianoforte.
Mentre cercava di opporsi debolmente cominciò a scaldarsi le dita, recitando per se stesso e per gli altri la parte del recalcitrante. Eppure sapeva che non avrebbe potuto resistere, non questa volta. Erano più di novant'anni che non suonava. Era arrivato al limite. La scossa elettrica che lo pervase quasi lo fece stramazzare a terra.
Dominique lo calamitava con i suoi occhi di ghiaccio, i cinque elementi fruscianti dalle dita: aria, acqua, terra, fuoco e anima. Le loro emanazioni lo circondarono come fantasmi, e lui si ritrovò seduto sulla panchetta davanti alla tastiera d'avorio.
Tra gli altri c'erano Delacroix, Einstein, Cicerone e Leonardo. Poteva avvertire i loro sguardi di rimprovero puntati su di lui.
- È trascorso il tempo delle esibizioni, del genio innaturale che sconvolgeva queste creature. Adesso dobbiamo confonderci, dobbiamo somministrare la nostra energia con parsimonia, se non vogliamo esaurirla prima che arrivino a prenderci.
Ma lui era stato stregato. Dagli occhi di Dominique e dal ritmo arcano che gli ribolliva nel sangue.
Forse non c'era nessuno degli altri, la missione era stata affidata a lui solo. Gli sguardi severi che vedeva erano offuscati, c'era un pentagramma ricco di suoni davanti ai suoi occhi, inciso nella sua mente.
Fletté le dita diverse volte, inclinò la testa come non faceva da tempo.
Nella grande sala calò il silenzio quando i polpastrelli incontrarono l'avorio. Eseguì l'opera numero 7, la sonata in mi bemolle maggiore per pianoforte. Avrebbe compiuto duecento anni l'anno venturo, ma il timbro, la potenza e tutto il sapore primevo erano ancora custoditi nelle sue dita e nel ventre del pianoforte.

4

- Joachim Waldstein? Un nome difficile. Tedesco? O forse austriaco?
Le dita lunghe e affusolate inseguivano l'architettura complessa e gloriosa del Concerto n. 4 sulla tastiera, adulando l'avorio e accarezzando l'ebano con lo stesso slancio che avrebbe potuto essere profuso a un'amante. Il circolo di persone attorno al pianoforte era distratto ed eterogeneo, due uomini in giacca e cravatta, un'anziana insegnante di greco antico, una donna attraente a cui il caldo, l'impegno formale e la tensione della serata stavano liquefacendo l'impalcatura cosmetica... e poi quel ragazzino efebico con gli occhi annegati in qualche perduto sogno di libertà negata.
Joachim Waldstein non alzò lo sguardo e non rispose alla domanda, a quella voce rauca che si faceva largo a spallate tra le sonorità lucenti del rondò finale, uno sbocciare di vita e fiamme melodiche che risentiva dell'acustica di quel vasto salone senza tendaggi, stucchi e arazzi di rilievo, e con il rimpianto nel cuore per l'assenza degli archi, dei clarinetti, dei corni, del flauto, delle trombe, dei fagotti e degli oboi che insieme ai timpani avrebbero dovuto accompagnare il Concerto trascinandolo verso il finale con l'incanto indispensabile dell'orchestra, strinse le mascelle, affondò nel vivace e raccolse i rari, preziosi brandelli di ricordi che come per incanto la musica riusciva a recuperare dal baratro insondabile del tempo.
- Ma forse è un nome d'arte. Fa chic farsi passare per austriaci se si esercita questo mestiere, non è vero? Ve l'immaginate un americano, un inglese o un pakistano che eseguono Mozart?
Il Concerto fiorì con un grappolo audace di note che erano anche il canto disperato di una protesta vana, ma il ragazzo efebico storse la bocca e si rivolse all'anziana insegnante.
- Non Mozart. Questo è Ludwig van Beethoven.
Joachim Waldstein riaprì gli occhi, trasecolò nel rendersi conto che gli stucchi e i broccati erano un'ombra pallida nella sua immaginazione, e provò a respirare. Era difficile farlo quando ci si rendeva conto di essere morti da secoli. Non fisicamente, in quella carne incorruttibile, bensì nell'anima, nella parte più limpida e sincera della propria essenza.
La vecchia insegnante sorbì il suo drink e si strinse nelle spalle rachitiche.
- Beethoven, Mozart - disse cercando sostegno nello sguardo annoiato dei due uomini in giacca e cravatta - che differenza fa? Non mi riferivo alla musica in sé ma a un'intera epoca. L'Austria ha dominato il mondo, da questo punto di vista. Se volevi essere qualcuno dovevi trasferirti a Vienna e dimenticare le tue radici.
Joachim Waldstein attese che la goccia di sudore che gli si era fermata per un attimo sulla tempia scivolasse verso il basso, evaporando nel calore del ricevimento, poi scostò la panchetta e si alzò.
- Scusatemi - disse, piegandosi in un leggero inchino d'altri tempi - ho bisogno di rinfrescarmi.
Con lo sguardo del ragazzo efebico incollato alla schiena tagliò la folla vociante e si diresse verso il bagno. Vi entrò, si appoggiò alla porta e cercò di fermare le piastrelle rosa che gli vorticavano attorno.
Stava sbagliando. Stava commettendo un grave errore. Forse Cagliostro aveva sempre avuto ragione. In quell'epoca di pulsioni elettroniche l'anima era stata sconfitta e rinchiusa nell'umida prigione degli intestini di un computer.
Come poteva quella gente apprezzare la sua musica, le impennate del genio creativo, l'armonia e la potenza subliminale delle emozioni che s'intrecciavano in un ordito musicale tanto complesso quanto affascinante da interpretare? Come potevano ascoltare il pianto, le risate e i suoni multiformi del pianoforte quando i guizzi dell'elettricità avevano bruciato inesorabilmente l'abilità individuale a favore della mediocrità di massa?
Beethoven era morto, Mozart era morto, Delacroix dimenticato da tutti. Non il rimpianto per le loro opere e per le loro esecuzioni, bensì la capacità di riconoscerne l'espressione vitale quando se la trovavano davanti. Ormai il genio, la creatività e l'adulazione della forma erano perfettamente imitabili dalle macchine, e la freddezza delle simulazioni scivolava su piani di comprensione che erano troppo elevati e raffinati per appartenere a una comune coscienza di massa.
Lui aveva suonato per pochi orecchi discreti, per un'élite che non si lasciava sfuggire la minima variazione armonica e vibrava nel suo intimo seguendo la corsa mozzafiato dell'orchestra, mentre il pianoforte li precedeva e li guidava come il bastone nella notte perenne dei ciechi.
Adesso il suono era corrotto, l'udito insufficiente, il gusto, il tatto e l'odore dell'arte così distanti dai naturali livelli di comprensione che occorrevano dei sintetizzatori digitali per essere apprezzati o almeno riconosciuti, degli strumenti gelidi e arcani che Cagliostro avrebbe bandito dal suo laboratorio per timore di restarne invischiato irrimediabilmente.
Quando riaprì gli occhi vide l'immagine di se stesso riflessa in uno specchio, e dopo essersi mordicchiato il labbro iniziò a ridere. Forse era davvero iniziato il principio della fine, per quelli come lui. Avevano resistito a lungo, amalgamandosi a un mondo alieno grezzo e immaturo, incapace di comprendere le sfumature aeree della vera arte.
E questo era sempre più vero a mano a mano che la tecnologia progrediva, che il tempo scorreva nel fossato arido dell'universo, che i giorni del naufragio si disperdevano nelle nebbie del ricordo.
Forse non sarebbero mai venuti a prenderli, e loro avrebbero dovuto cominciare a pensare alla morte. Dominique per prima. Con il suo sguardo malinconico che si era arreso da tempo.
Lei non voleva più nascondersi, voleva riassaporare il gusto e l'eccitazione dei primi anni dall'approdo, quando era stato facile per loro emergere sulla razza in embrione che popolava quel mondo e guidarla con distacco nei lenti passi dell'evoluzione.
Eppure cominciava a essere evidente la verità. Nessuno sarebbe arrivato a prenderli, e quell'isola nell'oceano del cosmo sarebbe stato il loro ultimo approdo.
Per questo Balzac si era ucciso, ripetutamente, incapace di arrendersi all'evidenza e al disgusto della sua colpevole immortalità.
E forse era per questo che Waldstein desiderava continuare a lottare. Per non doversi consumare ancora nella risata agghiacciante che vedeva riflessa in quello specchio bordato di lucido ottone.

5

La pioggia era arrivata. Una cortina leggera ma persistente di minuscole gocce d'acqua che perdevano la verginità quando venivano a contatto con la cappa di smog, e schiantandosi sui tetti o sugli impermeabili delle poche persone in giro a quell'ora della notte rilasciavano una fine poltiglia che era l'anima combusta dei motori e delle centrali del riscaldamento.
L'uomo che dalla mezzanotte del giorno prima aveva deciso di chiamarsi Waldstein camminava a capo scoperto, con i lunghi capelli neri ricoperti di rugiada chimica. L'aria non aveva più il sapore di una volta, i cibi erano pallide imitazioni dei sapori che l'avevano inchiodato a tavola nei sontuosi banchetti dell'aristocrazia viennese.
Waldstein non sapeva per quale motivo avesse suonato l'opera numero 7, prima del Concerto. Dominique non aveva nulla della fragile ragazza a cui originariamente si era ispirato per comporla.
Anna Luise Barbara Keglevic von Buzin. Babette. Una donna che fluttuava ancora nei suoi sogni come una medusa ancestrale, con il corpo trasparente che si muoveva al ritmo delle composizioni che lui le aveva dedicato: il Concerto per pianoforte dell'opera numero 15, le dieci Variazioni sul tema La stessa, la stessissima e le Variazioni per pianoforte dell'opera 34.
Ma Babette non aveva la profondità affilata di Dominique, non era alta come lei, non aveva gli occhi alieni che friggevano in olio bollente.
E non aveva la stessa carica, la stessa energia vitale che sfrigolava a contatto con l'aria e riusciva ad addomesticare i suoi propositi, qualcosa che esulava dai mudra in cui s'atteggiavano le sue mani o dal kharma che la circondava come una sfera eterea di plasma.
Quando aveva terminato di suonare era rimasto per qualche secondo con gli occhi chiusi e il volto piegato verso la tastiera del pianoforte. La musica era ancora viva dentro di lui, gli rombava nel cuore e gli faceva rintronare i timpani. Per un momento aveva avuto l'impressione di trovarsi ancora in qualche salotto di Vienna, circondato da spettatori muti ed estasiati che non attendevano altro che il sollevarsi del suo viso per tributargli un fragoroso applauso. Più di duecento anni dopo. Come una droga fragorosa che tornava a bruciargli le vene.
Ma l'impressione era svanita presto quando il coacervo di voci, risate, suoni e rumori di quel dannato Ventesimo secolo si era fatto strada attraverso la cupola d'estasi che lo circondava e l'aveva irriso con uno schianto, un colpo di pistola che l'aveva fatto barcollare e quasi precipitare dalla panchetta laccata.
Aveva sollevato lo sguardo e si era accorto che gli invitati bevevano champagne, chiacchieravano, si scambiavano risate e sguardi languidi. Soltanto due o tre tra i presenti erano rivolti verso di lui, rare anime sensibili che avevano bevuto sbalordite alla sapienza della sua musica.
Ma quando guardò meglio si accorse che quelli che lo scrutavano erano gli occhi freddi e calcolatori di Dominique, la smorfia fiera e intransigente di Cicerone, la vacua espressione d'ansia di Delacroix e l'intelligente diletto di Leonardo, che da sempre apprezzava il suo modo unico e ineguagliabile di suonare.
C'erano solo loro. Gli altri non avevano neppure intuito la verità, non se ne interessavano, la purezza dei suoni si era confusa con l'epoca elettronica della piattaforma digitale. Il genio creativo, la strabiliante capacità di certi esseri umani di emergere sui loro simili erano stati stemperati dalle apparizioni ai talk show e dagli effetti speciali.
Adesso chiunque avrebbe potuto essere un genio creativo. La più ambigua mediocrità poteva trionfare dagli intestini di un televisore.
Forse era per questo che il consiglio aveva deciso di risparmiare la loro essenza vitale, imponendogli di evitare di manifestarsi apertamente in attesa del giorno del recupero.
Eppure la contraddizione era pungente e audace: i più grandi uomini della storia, gli inventori, i generali, gli statisti e gli esploratori che maggiormente avevano contribuito a quei continui balzi in avanti del progresso tecnologico-sociale erano appartenuti tutti alla loro specie, si erano materializzati su quel mondo per un'imperscrutabile volontà cosmica.
- Non sappiamo quando verranno a prenderci - aveva mormorato Cesare all'ultima riunione. - Non sappiamo se verranno mai a prenderci.
Ma forse c'era qualcos'altro, c'era la consapevolezza che il loro ruolo si era esaurito, che la commistione con la brulicante umanità in espansione era ormai avvenuta, e neppure le loro qualità superiori, il loro genio creativo che apparteneva a una razza maturata nelle profondità dell'universo li avrebbero più distinti dagli altri, attirando solo irosità e persecuzione, anziché rispetto e meraviglia.
Ormai l'umanità progrediva da sola, aveva scelto la sua strada fatta di esplosioni innovative dettate dalla mediocrità, si era specializzata in settori così arcani e complessi che travalicavano il loro desiderio di espressione.
Waldstein si strinse il bavero della giacca attorno al collo e rabbrividì.
Era per questo che Dominique aveva deciso di rompere gli argini, di sfidare apertamente il consiglio proponendo quegli scampoli di audacia che avevano il sapore di un incantesimo.
Non c'era più spazio per la speranza, per i calcoli e per la parsimonia. Ormai quelli come lei, della sua generazione, erano ai limiti dell'energia disponibile, e prima di dileguarsi nel nulla volevano rivivere gli attimi audaci della loro gioventù, il senso di trionfo e potere che avevano esercitato, non per prevalicare, ma per sentirsi vivi.
Lui era stato mandato da lei per redarguirla, per farle comprendere la gravità delle sue azioni, del pericolo a cui mandava incontro l'esistenza stessa della sua specie, dopo gli anni della barbarie che avevano affrontato troppo arditamente e per cui avevano pagato un alto prezzo.
Erano rimasti in pochi, un migliaio di creature spurie e senza identità sparse sui cinque continenti, e le vestigia della loro razza erano conservate in uno spettro di energia e di memoria che rischiava di esaurirsi prima di quanto programmato, prima che qualcuno potesse arrivare a recuperarli.
Ma forse Dominique aveva ragione. La loro essenza si cibava di emozioni e sensazioni che erano superiori alla piatta distesa grigia di quelle metropoli, e lui ne aveva avuto la conferma quando aveva cominciato a far correre le mani sull'avorio del pianoforte.
Dopo novant'anni le scintille avevano ripreso a divampare, e la corrente che si era sprigionata aveva avuto la forza di un torrente in piena, di una cascata dai ghiacciai in scioglimento.
Quella era la sua natura, quella la sua dimensione.
E doveva essere grato a Dominique se gli aveva permesso, anche solo per qualche breve istante, di tornare a immedesimarsi nell'anima del grande compositore che era stato quasi duecento anni prima.
Assaggiò una goccia di pioggia e ne avvertì il sapore amaro.
Non sapeva se gli altri erano là per il suo stesso scopo. Ma aveva visto i loro volti dopo che aveva terminato di suonare, aveva potuto indagare nei loro occhi e vi aveva colto il rimpianto e la nostalgia per una potenza evocativa che adesso, da troppo tempo, dovevano tenere sotto controllo.
Avrebbe riferito positivamente al consiglio. Dominique non era pericolosa, anzi poteva dimostrarsi un'importante valvola di sfogo per quelli come lui, per i Delacroix che vibravano e tremavano a ogni commento della gente riferito ai loro quadri.
Gli altri lo avrebbero appoggiato, lo sapeva. Perché aveva visto vibrare le labbra di Cicerone mentre tratteneva l'impulso di arringare quella folla di stupidi questuanti; aveva visto galleggiare le formule dell'energia e il loro rapporto con lo spazio-tempo nello sguardo di Einstein quando il culmine della musica aveva toccato le corde intime dei suoi ricordi; e aveva visto sorridere Leonardo, quieto e rilassato mentre la sua grande, ineguagliabile mente ricominciava a studiare il percorso geometrico di qualche insoluto mistero della natura.
Loro erano con lui, e Waldstein con loro.
Ignorati dal mondo del Ventesimo secolo ma felici di esprimere l'energia che sapevano raccogliere dal bagliore lontano delle stelle.

FINE