Science Fiction Project
The Lost Treasures
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VENERE SULLA CONCHIGLIA - Kilgore Trout
I / II / III / IV / V / VI / VII / VIII / IX / X / XI / XII / XIII / XIV / XV / XVI / XVII / XVIII / XIX / XX / XXI
Capitolo I
La leggenda del vagabondo dello spazio
Va', viaggiatore.
Va' dappertutto. L'universo è un posto grande, forse il più grande che ci sia. Eppure, dovunque atterrerai, ti parleranno di Simon Wagstaff, il Vagabondo dello Spazio.
Anche sui pianeti dove lui non è mai apparso, la sua storia è cantata in ballate e narrata nelle taverne degli spazioporti. La leggenda e il folclore hanno fatto di lui una figura popolare su tutti i dieci miliardi di pianeti abitabili, e su almeno un milione, secondo gli ultimi calcoli, il protagonista di sceneggiati televisivi a puntate è lui.
Il Vagabondo dello Spazio è un Terrestre che non invecchia mai. Porta i Levis e un maglione grigio logoro, con toppe di pelle marrone ai gomiti e, sul davanti, un enorme monogramma: SW. Ha l'occhio sinistro coperto da una benda nera. Ha un banjo elettrico a energia nucleare che non lascia mai, e tre compagni fissi: un cane, una civetta, un robot femmina. È affabile e gentile, e non rifiuta mai un autografo. Il suo unico, ma terribile, difetto è che fa domande alle quali nessuno sa rispondere. O almeno ne faceva fino a mille anni fa, quando è scomparso.
Questa è la storia delle sue peregrinazioni e del perché non lo si veda più nel cosmo conosciuto.
Ah, già. Soffre anche di una vecchia ferita al deretano e non può stare seduto a lungo. Una volta qualcuno gli ha chiesto che effetto facesse essere senza età.
- L'immortalità è un dolore al sedere - ha risposto.
Capitolo II
Piove sempre sui picnic
Fare l'amore durante un picnic non è cosa nuova. Solo che questa volta succedeva in cima alla testa della sfinge di Ghizeh.
Simon Wagstaff non si divertiva al cento per cento. Le formiche, sempre presenti a un picnic dovunque si svolga, gli si arrampicavano su per le gambe e le natiche. Ma Simon persistette. Dopo un po' lui e la sua ragazza ricaddero supini, e rimasero a fissare, ansimanti, il cielo egiziano.
- È stato bello, vero? - disse Ramona Uhuru.
- Più che passabile, certo - disse Simon. - Su, in piedi. Ci conviene vestirci prima che qualche turista arrivi fin qui.
Si alzò e s'infilò i Levis neri, lo sformato camiciotto grigio, e i sandali di finta pelle di cammello. Ramona si fece scivolare indosso il caffettano scarlatto, e aprì il cesto della colazione. Dentro c'era una quantità di ghiottonerie, fra cui una bottiglia di vino etiopico: Leone di Giuda all'Anidride Carbonica.
Simon era un giovanotto di trent'anni, basso e tarchiato. Aveva capelli castani folti e ricciuti, orecchie aguzze, sopracciglia folte e scure, il naso lungo, diritto e affilato, e grandi occhi marrone che sembravano sempre sul punto di versare lacrime. Aveva labbra sottili e denti forti, e in certo qual modo le due cose insieme facevano un effetto bellissimo quando sorrideva.
Anche Ramona era bassa e tarchiata. Ma aveva grandi occhi neri da cane da pastore, e una voce tenera come la coda di un cucciolo, e che, come la coda di un cucciolo, stava raramente quieta. A Simon andava bene così. Se Ramona era una parlatrice assillante, non era in compenso un'assillante ascoltatrice. Simon era un assillante interrogatore, ma non chiedeva risposte a Ramona, perché sapeva che lei non ne aveva. E non gliene faceva una colpa. Nessuno avrebbe saputo rispondere alle sue domande.
Chiacchierando di questo e di quello, Ramona stese e lisciò la coperta Navajo fatta in Giappone. Ramona era stata fatta a Memphis (Egitto, non Tennessee), anche se i suoi genitori erano di Bali e del Kenya.
Simon era stato fatto durante la luna di miele dei suoi nel Madagascar. Suo padre era un ebreo mezzo greco e mezzo irlandese, un critico musicale che scriveva sotto lo pseudonimo di K. Kane. Tutti pensavano, con buoni motivi, che K. stesse per Killer. Aveva sposato una bellissima mezzo soprano indiana della tribù Cippewa, che cantava sotto lo pseudonimo di Minnehaha Langtry.
Durante la loro prima notte di nozze il condizionatore d'aria si era guastato, e loro attribuivano le imperfezioni di Simon alle inclementi condizioni in cui era stato concepito. Simon le attribuiva agli otto mesi passati in un grembo di plastica. Sua madre non aveva voluto rovinarsi la linea, e perciò lui le era stato levato dal grembo e messo in un cilindro collegato a una macchina. Simon aveva capito le ragioni di sua madre, però non le aveva mai perdonato di essersi poi data ai bagordi ingrassando di trenta chili. Se doveva diventare obesa in ogni caso, perché non l'aveva tenuto dov'era suo diritto stare?
Ma non era una giornata da sprecare rimuginando i traumi dell'infanzia. Il cielo era azzurro come le vene di un neonato, e la brezza condizionava l'aria aperta. A nord, le restaurate piramidi di Cheope e di Chefren attestavano che gli antichi Egizi ci sapevano fare davvero con le costruzioni. A est, sull'altra sponda del Nilo, le bianche torri del Cairo con le loro antenne TV provocavano i cieli. Ma avrebbero scontato quel giorno stesso la loro arroganza.
Ai piedi della sfinge, turisti e visitatori provenienti da pianeti lontani si aggiravano tra le bancarelle di salsicce, birra, e oggetti ricordo. Fra loro c'erano i giganteschi treppiedi di Arturo, pieni di scherno per le cose che i Terrestri definivano antiche. I loro edifici più vecchi avevano centomila anni, ed erano stati costruiti su rovine che ne avevano due volte tanti. I Terrestri non si offendevano, perché gli Arturiani erano ridicolissimi quando sogghignavano, con quel roteare i lunghi genitali come se fossero stati dei portachiavi. Era quando un Arturiano si profondeva in elogi, che i Terrestri si risentivano, perché in quei casi l'Arturiano sollevava uno dei suoi treppiedi, e irrorava l'oggetto di approvazione con un liquido che puzzava di cipolle marce. Molti Terrestri avevano dovuto subire sorridendo, soprattutto ambasciatori. Ma questi ricevevano la cosiddetta "indennità di contingenza".
Tutto si aggiusta sempre in qualche modo.
O almeno così pensava Simon Wagstaff in quella giornata radiosa.
Raccolse la guida e la lesse sorseggiando il vino. C'era scritto che la sfinge aveva avuto origine presso gli Egiziani, che l'avevano immaginata come un mostro dalla testa di uomo e il corpo di leone. D'altro lato i Greci, non appena ne avevano scoperto l'esistenza, l'avevano trasformata in un mostro dalla testa di donna e il corpo di leonessa. La sfinge greca aveva perfino i seni da donna, bei coni bianchi dalle punte rosa che dovevano aver distratto gli uomini impedendo loro di pensare alla soluzione dell'enigma. Edipo aveva ignorato quegli ostacoli alla riflessione, il che forse non gli faceva onore. Edipo era stato un po' strano: aveva sposato la madre e ammazzato il padre. Aveva dato sì la risposta giusta alla domanda della sfinge, ma questo non gli aveva risparmiato altri guai in seguito.
Chissà che vita sessuale aveva avuto la sfinge? Gironzolava lungo la strada di Tebe di Grecia, che era molto lontana da Tebe d'Egitto e dalle sfingi maschio. Che fosse stata una specie di vedova nera che faceva l'amore con gli uomini prima di divorarli?
Simon non era particolarmente lascivo, ma come tutti pensava molto al sesso.
La sfinge egizia aveva solidità e un'immensa antichità. La sfinge greca aveva classe. L'egizia era ponderosità e mascolinità. La greca era bellezza e femminilità. Ci volevano i Greci per cavare qualcosa di filosofico dal puro fisico degli Egizi. I Greci avevano fatto la sfinge donna perché conosceva Il Segreto.
Ma lei aveva trovato qualcuno capace di rispondere alle sue domande.
E subito dopo si era uccisa. Simon non correva grossi rischi di essere costretto a uccidersi.
Nessuno rispondeva mai alle sue domande.
La guida che lui aveva in mano diceva che la faccia della sfinge aveva i lineamenti del faraone Chefren. La guida che aveva nella tasca posteriore dei calzoni diceva che la faccia era quella del dio Harmachis. Ormai non importava più quale delle due avesse ragione: la sfinge restaurata aveva la faccia di una famosa diva del cinema.
La guida che Simon aveva in mano diceva inoltre che la sfinge era lunga 57 metri e alta 22. Quella che aveva in tasca diceva che la sfinge era lunga 52 metri e alta 20. Che una delle squadre di misurazione fosse stata ubriaca? Che fosse stato ubriaco il curatore del testo? Che il compositore avesse avuto problemi finanziari e coniugali? Che qualcuno avesse malignamente inserito i dati sbagliati per il gusto di prendere in giro la gente?
Ramona disse: - Ma tu non mi ascolti!
- Scusami - disse Simon. Gli dispiaceva davvero. Quello era uno dei rari momenti in cui Ramona si rendeva conto all'improvviso di parlare da sola. Questo la spaventava. Quelli che parlano da soli sono o pazzi, o pensatori, o persone sole, o le tre cose insieme. Ramona sapeva di non essere né una pazza né una pensatrice, perciò doveva essere sola. E aveva paura della solitudine più ancora che di annegare, che era il suo orrore prediletto.
Anche Simon si sentiva solo, soprattutto perché gli sembrava che l'universo fosse sleale a non fornire risposte alle sue domande. Ma non era il momento di pensare a se stesso; Ramona aveva bisogno di conforto.
- Ascolta, Ramona, ti dedico una canzone d'amore.
La canzone era intitolata: "La matematica anatematica dell'amore". Era una poesia di Ippolito dei "conti" Bruga, nato Julius Ganz, un espressionista del principio del ventesimo secolo. Ben Hecht aveva scritto una biografia su di lui, ma l'unica copia superstite era conservata negli archivi del Vaticano. Anche se i critici consideravano Bruga soltanto un poeta minore, Simon lo preferiva a chiunque altro, e aveva musicato molte delle sue poesie.
Ma prima di cantare, Simon pensò che doveva spiegare i riferimenti e la situazione, perché Ramona leggeva soltanto fumetti e bestseller.
- Robert Browning era un grande poeta vittoriano che sposò la poetessa minore Elizabeth Barrett - disse.
- Lo so - disse Ramona. - Non sono stupida come mi credi tu. Ho visto "I Barrett di Wimpole Street" alla televisione l'anno scorso. Con Peck Burton e Marilyn Martiri. Una storia tanto triste. Il padre di lei era una vera carogna. Le ha ammazzato il cagnolino solo perché Elizabeth se l'era data a gambe con Browning. Il vecchio Barrett aveva messo gli occhi addosso a sua figlia, ti pare possibile? Be', lei non se l'è esattamente data a gambe. Era paralizzata dalla vita in giù, e Peck, cioè Browning, ha dovuto spingere la sedia a rotelle per le vie di Londra, col vecchio che li rincorreva con un cavallo e un carretto. È stata la scena d'inseguimento più emozionante che abbia mai visto.
- Lo credo - disse Simon. - Dunque sai già tutto. A ogni modo, Elizabeth scrisse una raccolta di poesie d'amore dedicate a Browning, i "Sonetti dalla Portoghese". Lui la chiamava la sua portoghese perché era molto bruna.
- Che carino!
- Sì. Bene, il sonetto più famoso è quello in cui lei enumera le varie specie d'amore che prova per lui. Bruga si è ispirato a questo per una sua canzone di cui ti canterò adesso il ritornello.
Simon cantò:
"I modi in cui t'amo voglio cantare e contare"
disse Liz Browning. Ma a Bob le addizioni mentali
Sottraevano dai vasi seminali
Il vigore necessario per amare.
Per cui rispose: "Piantala con i conti
e contentati solo che ti monti".
- Queste sono state le ultime parole di Bruga - disse Simon. - Un minuto dopo è stato picchiato a morte da un ubriacone arrabbiato.
- Non gli do torto - mormorò Ramona.
- Braga dava il meglio di se stesso quando era pagato in contanti per la sua poesia estemporanea - disse Simon. - Ma in questo caso aveva improvvisato gratis. Aveva invitato quel pezzente nel suo appartamento al Greenwich Village per scolare con lui e la sua amante un paio di galloni di vino. E questo è il ringraziamento che ha avuto.
- Chiunque ha il diritto di criticare - disse Ramona.
Simon trasalì. Ramona disse: - Cos'hai?
Lui pizzicò il banjo come se spennasse una gallina, traendone lunghi accordi.
Piume di tristezza ondeggiarono attorno a loro. Ramona sbottò in una risatina da gallina come se avesse appena fatto un uovo. Ma era nervosismo che proclamava, non gioia. Diventava sempre irritabile quando lui si lasciava prendere dalla malinconia.
- È una giornata così bella - disse. - Come fai a essere triste quando c'è il sole? Stai rovinando il picnic.
- Scusami - disse Simon. - Il mio sole è nero. Ma hai ragione tu. Siamo innamorati, e gli innamorati devono farsi felici l'un l'altro. Senti quest'antica canzone araba: "L'amore opprime. La mia anima sospira... Che ala ci sfiora tutti e due, cara, nell'aria malata e senza un suono?".
Fu allora che Ramona si rese conto che l'umore di lui veniva più dal di fuori che dal di dentro. La brezza era calata, e tutto intorno era sceso un silenzio denso e greve come la natività di un fungo in una miniera di diamanti o l'emissione di gas durante un'adunanza di preghiera. Nel cielo si erano raggrumate nubi nere come le chiazze marce di una banana. Eppure soltanto un minuto prima l'orizzonte era intatto come una genealogia fasulla.
Simon si alzò e rimise il banjo nell'astuccio. Ramona si diede da fare a riporre piatti e tazze nel cesto. - Non ci si può fidare di niente - disse, prossima alle lacrime. - Mai, dico mai, piove da queste parti nella stagione asciutta.
- Come avranno fatto quelle nubi ad arrivare qui senza vento? - disse Simon.
Come sempre, la sua domanda rimase senza risposta.
Ramona aveva appena ripiegato la coperta quando caddero le prime gocce di pioggia. I due si slanciarono per la distesa in cima alla testa della sfinge in direzione dei gradini, ma non riuscirono a raggiungerli. Le gocce diventarono una solida massa d'acqua, come se tutto il cielo fosse stato un'enorme caraffa rovesciata maldestramente da un gigante ubriaco. Furono buttati a terra, e il cesto fu strappato dalle mani di Ramona e trasportato dalla fiumana oltre la testa della sfinge. Per poco Ramona non lo seguì, ma Simon le afferrò una mano e insieme strisciarono fino alla ringhiera di protezione all'orlo della testa, e si aggrapparono a una sbarra verticale.
In seguito, Simon non riuscì a ricordare quasi niente con chiarezza. Fu tutto una lunga immagine confusa di paralizzato orrore, di brutali rovesci di pioggia, freddo, battere di denti, le mani che gli dolevano per lo sforzo di stringere la sbarra di ferro, l'oscurità sempre più fitta, l'improvviso affluire di gente in fuga dal basso, un vago chiedersi perché si accalcassero tutti in cima alla testa della sfinge, la terrificante scoperta del perché quando un mare gli si riversò addosso, lui che preso dal panico cercava di tendersi verso l'alto per non annegare e infine lasciava andare la sbarra perché l'acqua gli era arrivata al naso, un unico grido soffocato di Ramona in un punto imprecisato di quel finimondo, e poi lui che nuotava senza sapere dove andare.
L'astuccio del banjo gli fluttuava davanti. L'afferrò. Era un mezzo d'appoggio sull'acqua, e dopo essersi liberato di tutti i vestiti, riuscì a tenersi a galla stando aggrappato all'astuccio e agitando i piedi. A un certo punto un cammello gli passò vicino attorniato da cinque uomini che battagliavano per salirgli in groppa. Poi andò giù, e l'ultima cosa che Simon vide di lui fu un occhio che roteava.
Trasportato dalla corrente, poco dopo passò accanto alla cuspide della Grande Piramide. C'era avvinghiata una donna che urlava, e che continuò a urlare finché l'acqua, salendo, non le riempì la bocca. Simon proseguì, sforzandosi inutilmente di accettare l'idea che in un modo o nell'altro era caduta tanta acqua che l'arida terra d'Egitto si trovava adesso a 150 metri sotto di lui.
Poi, nel buio della notte e sotto la pioggia ancora semisolida, venne il momento in cui si preparò ad abbandonare il suo spirito fradicio e a lasciarsi andare a fondo. Era troppo stanco per lottare ancora. Era finita. A ramengo anche lui.
Simon era ateo, ma pregò Jahvé, il dio di suo padre, Maria, la divinità favorita di sua nonna, e Kitchi Manitu, il dio di sua madre. Male non poteva fare.
Prima di essere spacciato, urtò contro qualcosa di solido. Qualcosa che era anche cavo, perché rimbombava come un tamburo sotto le raffiche di pioggia.
Qualche secondo dopo, il rimbombo cessò. Simon era così intontito che gli ci volle del tempo per capirne il motivo: anche la pioggia era cessata.
Tastò l'oggetto tutto attorno. Era a forma di bara, ma troppo grande per essere una bara, a meno che non ci fosse dentro un elefante. La parte superiore era levigata, e sporgeva dall'acqua di una ventina di centimetri. Sollevato l'astuccio del banjo, Simon si tirò l'oggetto vicino. Lo sentì immergersi un po' sotto il suo peso, ma appoggiandoci sopra le palme delle mani, riuscì a issarsi lentamente sulla superficie piatta e spostarsi poi al centro.
Rimase sdraiato a faccia in giù, ansando, troppo depresso e intirizzito dal freddo per dormire. Ciononostante si addormentò, anche se i suoi sogni non furono piacevoli. Ma d'altra parte lo erano raramente.
Quando si svegliò, guardò l'orologio: erano le 7.08 del mattino. Aveva dormito almeno dodici ore, benché non fosse affatto riposato. Poi, sentendo caldo a un fianco, si girò lentamente. Un cane era accovacciato contro di lui, e dopo un po' apri un occhio. Simon gli diede un buffetto e si rivoltò a faccia in giù, circondando il corpo della bestia con un braccio. Aveva fame, e si chiese se non avrebbe finito per mangiare il cane. O viceversa. Era un bastardo di una trentina di chili contro i suoi sessantaquattro. Era probabilmente più forte di lui, e certo aveva molta fame. I cani hanno sempre fame.
Si riaddormentò, e quando si svegliò era di nuovo notte. Il cane era in piedi, indistinta sagoma giallo-bruna, dal muso lungo, che camminava rigidamente come se avesse l'artrite. Simon lo chiamò perché non voleva che dissestasse il delicato equilibrio. Il cane gli si avvicinò e gli leccò la faccia, ma non fu chiaro se lo facesse per bisogno d'affetto o per sentire che sapore aveva. Alla fine, Simon si addormentò, risvegliandosi poi rigido come un pezzo di legno (o un osso sotterrato da un cane). Ma aveva caldo. Le nubi erano sparite, il sole brillava, e l'acqua sulla superficie dell'oggetto si era asciugata.
Per la prima volta, Simon lo vedeva, anche se non sapeva ancora che cosa fosse. Era lungo circa tre metri e largo due, e aveva un coperchio di plastica trasparente.
Simon si trovò faccia a faccia con un morto.
disse Liz Browning. Ma a Bob le addizioni mentali
Sottraevano dai vasi seminali
Il vigore necessario per amare.
Per cui rispose: "Piantala con i conti
e contentati solo che ti monti".
Capitolo III
La "Hwang Ho"
Simon scoprì allora di stare sopra una di quelle bacheche di plastica in cui, in un museo del Cairo, erano esposte le mummie degli antichi Faraoni. La cassa, a tenuta d'aria, era uscita dall'edificio galleggiando.
Simon spinse in mare il cane riluttante, poi si calò lui stesso accanto alla bestia. Fece una faticaccia ad alzare il coperchio e a farlo scivolare in acqua, ma alla fine ci riuscì. Poi, strisciando, scavalcò il bordo e si lasciò cadere, insieme con un po' d'acqua, nella bacheca. Stando in piedi sull'orlo della bara aperta sul fondo della bacheca, issò dentro il cane, che fiutò la mummia e si mise a ululare.
Dopo molte migliaia di anni di dimenticanza, la mummia aveva qualcuno che piangeva sulla sua tomba.
Simon scese sul fondo della bacheca e fissò la faccia da falcone di un ex-sovrano dell'Alto e Basso Egitto. La pelle era tirata come quella di un senatore del Kentucky e secca come una relazione del governo. Il tempo aveva succhiato, insieme con gli umori vitali, la carne di sotto. Ma le ossa conservavano la loro arroganza.
Simon si guardò attorno e scoprì un cartello fissato con viti nel lato della bacheca, ma non poté leggerlo perché era rivolto all'esterno. Dall'altra parte della bara, sul fondo della bacheca, trovò un cacciavite, un preservativo usato, un paio di mutande da donna, e un panino imbottito con salame e formaggio e avvolto nella stagnola. Evidentemente un custode del museo aveva combinato un appuntamento dietro la bara. O forse il guardiano notturno si era portato dietro una ragazza per far passare le ore di solitudine. Nell'uno o nell'altro caso, la coppia era stata disturbata e aveva dovuto svignarsela, lasciandosi dietro quegli indizi.
Simon benedisse quei due e aprì la stagnola. Il pane, il formaggio e il salame erano duri come il cartone ma mangiabili. Simon divise il panino in due, ne diede un pezzo al cane e rosicchiò ben contento la sua parte. Il cane, dopo aver ingoiato tutto in un boccone, guardò la metà di Simon e brontolò.
Simon pensò che avrebbe avuto delle noie con lui, finché non si rese conto che era la pancia del cane, non la gola a brontolare.
Allora gli diede un buffetto e disse: - Ti piacciono gli ossi vecchi? Puoi prenderteli. Ma non adesso.
Prese il cacciavite e staccò il cartello. Diceva:
MERNEPTAH
Faraone dal 1236 al 1223 a. C.
Tredicesimo figlio di Ramsete II
Rese la vita difficile a Mosè
Mosè e la storia, a loro volta, avevano reso la vita difficile a Merneptah. Tutti lo consideravano un cattivo. Quando leggevano sulla Bibbia che era annegato nel Mar Rosso mentre inseguiva gli Ebrei in fuga, pensavano: "Si meritava una morte peggiore". Ma questa storia era un mito. Merneptah era morto miseramente a sessantadue anni soffrendo di artrite e di carie ai denti. Come se questo e una cattiva reputazione non bastassero, gli imprenditori di pompe funebri gli avevano asportato i testicoli, e i profanatori di tombe gli avevano tagliuzzato il corpo, portandogli via tra l'altro il braccio destro.
- Sei ancora utile, vecchio - disse Simon. Strappò via le bende e poi il pene, che gettò al cane. Il cane lo azzannò prima che toccasse terra e lo inghiottì. Una misera fine per il possente fallo che aveva fecondato centinaia di donne, pensò Simon.
Desiderava tanto qualcosa da mangiare. La sua pancia rumoreggiava come un autocarro in salita. Se non riusciva a prendere qualche pesce, avrebbe finito per morire di fame, e allora il cane l'avrebbe divorato.
Non avendo altro da fare, decise di pensare a un nome da dare al cane. Dopo avere scartato Spot, Fido e Rover, scelse Anubis. Anubis era il dio egiziano dalla testa di sciacallo che guidava le anime dei morti nell'aldilà. Lo sciacallo era una specie di cane, e questo cane, se non una guida, era certamente un compagno di viaggio su quella strana barca che li portava verso una morte ignota ma inevitabile.
Qualunque fosse stato il suo vecchio nome, il cane rispose a quello nuovo. Leccò la mano di Simon e alzò verso di lui occhi grandi, scuri e dolci come quelli di Ramona. Simon gli accarezzò la testa. Era bello avere qualcuno che gli dimostrava affetto e lo aiutava a non sentirsi completamente solo. Naturalmente anche questo, come tutto, aveva il suo lato negativo: avrebbe dovuto provvedere ad Anubis.
Si alzò, strappò via la gamba destra del Faraone, e la gettò al cane. Anubis la sgranocchiò voracemente, ma poco dopo ebbe un terribile attacco di diarrea. Simon salì sulla bara e si sporse dal bordo della bacheca per respirare aria fresca. In quel momento vide la civetta.
Lanciò un grido di gioia. Siccome le civette vivevano sugli alberi, e gli alberi crescevano sulla terra, la terra non poteva essere lontana. Guardò il grosso uccello virare e andare verso nord finché non lo vide scomparire. Da quella parte c'era la salvezza. Ma come arrivarci?
Quando venne il crepuscolo, senza terra in vista, si preparò scoraggiato ad andare a letto. Sollevò Merneptah e lo depose nei dieci e più centimetri d'acqua sul fondo della bacheca, poi si allungò nella bara. Quando si svegliò col sole negli occhi, era ancora più stanco e affamato. Non aveva sete però, perché la pioggia aveva diluito l'acqua del mare tanto da renderla potabile. Ma l'acqua non produce calorie.
Guardò fuori della bara, con l'idea di mangiarsi lui stesso un pezzo di Faraone, ma le condizioni in cui era ridotto Anubis lo dissuasero. Più tardi, mentre pensava di morire di propria volontà lasciandosi annegare, vide qualcosa a nordovest. Col passare delle ore, la cosa lentamente s'ingrandì, e nel momento in cui il sole sprofondò nelle acque, Simon vide che non era, come aveva sperato, una costa. Era un sommergibile, o qualcosa che sembrava un sommergibile. Ma era troppo lontano per contare di arrivarci a nuoto.
L'alba lo trovò sveglio, che guardava a nordovest con la speranza che il sommergibile non si fosse allontanato durante la notte. No. Era andato alla deriva lungo la stessa rotta di collisione, e si era avvicinato abbastanza perché si vedesse che era un'astronave, non un sommergibile. Sul fianco aveva due grandi ideogrammi cinesi con sotto, in alfabeto latino: "Hwang Ho". Poiché non andava a motore, la "Hwang Ho" doveva essere priva di equipaggio. Probabilmente ferma sulla pista di uno spazioporto chissà dove, quando era caduta la pioggia i membri dell'equipaggio non erano riusciti a rifugiarvisi.
I portelli erano chiusi, ma questo non costituiva un problema. C'era sicuramente, a lato di ciascuno, una piastra che li faceva aprire con una semplice pressione.
Passarono altre ore, e Simon concluse che non si sarebbe mai scontrato con l'astronave. Allora spinse la pesante bara di legno contro la parete della bacheca, facendola oscillare e imbarcare acqua. La fece inclinare ancora di più col suo peso, e si tuffò in mare. Anubis non voleva muoversi, ma non ebbe scelta. Simon raggiunse a nuoto il portello più vicino e fece pressione sulla piastra. Il portello arretrò e si spostò di lato. Simon introdusse l'astuccio del banjo e si issò all'interno. Dopo aver tirato su Anubis, rimase in piedi, un po' vacillante, a guardare il vortice prodotto dalla bacheca che affondava finché la superficie dell'acqua non tornò liscia.
- Pensa, però - disse ad Anubis. - Se il vecchio Merneptah fosse davvero annegato nel Mar Rosso, e il suo corpo fosse andato perduto, non ci sarebbe stata una bacheca per lui nel museo, e io e te saremmo annegati qualche giorno fa. Viene proprio da chiedersi se era destino o se siamo soltanto stati fortunati, eh?
Simon pensava parecchio alla predestinazione e al libero arbitrio.
Anubis pensava soprattutto a mangiare, e non aspettò nemmeno che Simon finisse il discorso. Si addentrò a passo svelto nell'astronave, e Simon fu esortato dal proprio stomaco a seguirlo. Fece un giro di esplorazione e scoprì che a bordo non c'era anima viva, come aveva previsto. Ma c'era una buona scorta di cibi e bevande: tutto quello che desiderava, per il momento. Siccome non voleva star male, si costrinse a mangiare leggero. Anubis si seccò per le porzioni ridotte, ma non poté farci niente oltre che assumere un'aria di rimprovero.
- Tra qualche ora ne avrai di più - disse Simon. - Molto di più.
Il passo successivo fu frugare negli armadietti alla ricerca di vestiti che gli andassero bene. E di nuovo ebbe indosso uno sformato camiciotto grigio, un paio di Levis, e sandali.
Quando tornò nella stanza vicino al portello aperto, la civetta era appollaiata sullo schienale di una poltroncina.
La questione della sua provenienza era ancora irrisolta, ma Simon pensò che probabilmente era arrivata fin lì facendosi portare dall'astronave. Doveva essere affamata anche lei, e Simon andò a prepararle un piatto di "egg foo yong". Quando tornò indietro, la trovò accovacciata su un mucchio di carte stracciate, sul sedile della poltroncina. Posò il piatto sul pavimento davanti a lei. La civetta volò giù a beccare il cibo, e diede modo a Simon di scoprire di che sesso era: aveva appena fatto un uovo.
Anubis si avventò sul sedile e ingoiò l'uovo. La civetta non sembrò farci caso, e questo fece pensare a Simon che la catastrofe le avesse distorto l'istinto materno. Meglio così, perché altrimenti la conoscenza tra i due animali avrebbe potuto partire col piede sbagliato.
Decise di chiamare Atena la sua nuova compagna. Atena era la dea greca della saggezza, e il suo simbolo era la civetta. Le civette erano considerate intelligentissime, anche se in realtà erano stupide quanto le galline. Ma Simon era un patito di mitologia. Il minimo che ci si potesse aspettare da uno che aveva chiamato Orfeo il suo banjo.
Esaminò gli strumenti nella cabina di comando, perché aveva sentito dire che anche un idiota sarebbe stato in grado di regolare la rotta di un'astronave. Tuttavia in quel caso avrebbe dovuto essere un idiota cinese. Ma se a bordo esisteva un libro da cui poter imparare il cinese, sarebbe arrivato a capire in che modo si pilotava quell'apparecchio computerizzato. Aveva già preso la decisione di lasciare la Terra per sempre. Non c'era più niente qui che lo trattenesse.
Negli anni successivi, durante le sue peregrinazioni, gli fu chiesto spesso che cosa era successo al suo pianeta natale.
"La Terra è stata lavata da cima a fondo" fu invariabilmente la sua risposta. "Il gioco della vita è cessato a causa della pioggia".
Il grosso interrogativo in quel momento era: chi aveva fatto questo alla Terra? Qualcuno aveva provocato il diluvio. Non sarebbe mai capitato nel normale svolgersi degli eventi. Qualcuno aveva pigiato un bottone che attivava una macchina o sostanze chimiche capaci di far precipitare il cento per cento dell'acqua dell'oceano atmosferico.
Chi e perché?
Era stato l'esperimento andato male di uno scienziato pazzo? O qualche pianeta aveva scatenato l'inondazione perché la Terra gli rovinava gli affari? O era successo semplicemente perché i Terrestri puzzavano? I Terrestri avevano fama di essere la razza più maleodorante dell'universo. Su un milione di pianeti erano chiamati I Fetenti. Un vecchio detto arturiano diceva: "Mai stare sottovento rispetto a uno shrook o a un Terrestre". Gli shrook erano animaletti di Arturo VI analoghi alla nostre puzzole, ma molto più potenti.
Alcuni extraterrestri sostenevano che la causa del cattivo odore dei Terrestri era la dieta, che, perfino tra i cinesi, consisteva principalmente di salsicce, patatine fritte, bibite analcoliche e birra. Ma gli octopodi di Algol, che erano forse la più filosofica tra tutte le razze, affermavano che non era un fatto di alimentazione. La psicologia influenzava la fisiologia. I Terrestri puzzavano perché la loro etica puzzava.
Questa reazione aveva sconvolto i Terrestri, che però si erano applicati a risolvere il problema con la loro solita immorale efficienza. Era stata creata un'enorme industria di profumi, che impiegava milioni di lavoratori, e i viaggiatori provenienti dalla Terra non mancavano mai di profumarsi prima di sbarcare su un pianeta straniero. C'era un profumo speciale per ogni pianeta, perché quello che piaceva agli Spicani disgustava i Vegani. L'unico pianeta sul quale i profumi erano tabù era Sirio VII. I caninoidi che lo abitavano si riconoscevano tra loro fiutandosi posteriormente, e perciò l'uso dei profumi era rigorosamente proibito. I Terrestri avevano dovuto adattarsi all'usanza, altrimenti non avrebbero mai potuto trattare una vendita. Avevano tentato di aggirare l'ostacolo inviando rappresentanti privi del senso dell'olfatto, ma l'espediente non aveva funzionato. I Siriani erano tutti esattamente uguali, e si rifiutavano di portare cartellini d'identificazione. Perciò un Terrestre doveva avere il naso fine se voleva sapere con chi aveva a che fare.
Questa necessità aveva aperto un campo interamente nuovo per specialisti che ricevevano compensi favolosi. Per essere assunti occorreva prendere una nuova laurea, in Filosofia dell'Anumologia. Nonostante gli stipendi altissimi, c'erano continue sostituzioni nel settore, e la principale causa di dimissioni era il suicidio. Poi un giovane e brillante funzionario dell'Ufficio Pubbliche Relazioni aveva avuto l'idea di eseguire al calcolatore una ricerca di un particolare tipo di feticisti. Era saltato fuori che sulla Terra esistevano oltre cinquecentomila masochisti ai quali piaceva torturarsi con i cattivi odori. Di questi, cinquantamila erano specializzati in escrementi di cane. La Compagnia Commerciale Siriana ne richiedeva soltanto dodicimila, e così il campo era stato monopolizzato di colpo da quel gruppo ristretto. Il laureato in Filosofia dell'Anumologia non era più richiesto. I nuovi aspiranti, ansiosi di lavorare su Sirio, si facevano concorrenza e la Compagnia li assumeva con stipendi da fame.
Lo stesso giovane e brillante funzionario aveva avuto l'ispirazione che aveva liberato la Terra da tutti i pervertiti. In qualche punto dell'universo esisteva un pianeta sul quale una particolare perversione terrestre era considerata non solo normale ma altamente desiderabile. Aveva eseguito un'altra ricerca al calcolatore, e ben presto la Compagnia aveva fatto un'inserzione offrendo posti di lavoro a feticisti, masochisti, sadici, seviziatori di bambini, razzisti, militari di professione, morfinomani, alcolizzati, collezionisti di armi, motociclisti, amanti degli animali, esibizionisti, fanatici religiosi, iscritte all'Unione Femminile Cristiana della Temperanza, e appassionati di fantascienza. Gli stipendi e il prestigio offerti erano così alti che molti non-pervertiti avevano tentato di farsi assumere. Ma erano stati scartati dopo un'accurata selezione eseguita in base a una serie di test psicologici. Quelli giudicati idonei avevano dovuto frequentare una scuola commerciale diretta dalla Compagnia. Il traffico, per la sua espansione su altri pianeti oltre Sirio, era diventato il più vasto della Terra.
La Terra era stata ripulita dei pervertiti, e la popolazione rimasta aveva sperato in un'età dell'oro. Ma nel giro di vent'anni si era arrivati allo stesso numero di pervertiti di prima. Il fatto aveva suscitato scalpore, e i governi delle varie nazioni avevano creato speciali agenzie investigative. I risultati delle indagini non erano mai stati resi noti, perché indicavano che la colpa era del sistema di educazione. Gli elettori non avrebbero digerito l'informazione. E così la Terra era tornata tranquillamente alla normalità, cioè si era nuovamente riempita di pervertiti.
Per la Compagnia andava bene. Non sarebbe stata mai a corto di personale competente.
Simon si chiese se qualche pianeta, offeso per questa esportazione di indesiderabili, non avesse deciso di fare pulizia generale dell'origine dell'affronto. Forse un giorno l'avrebbe scoperto, ma poteva riuscirci soltanto se imparava a far funzionare l'astronave. Questo era possibile, perché aveva trovato un libro che insegnava ai cinesi a leggere e scrivere in inglese. Invertendo l'ordine delle istruzioni, lui avrebbe potuto imparare a leggere il cinese.
Passarono alcuni giorni. L'astronave andava alla deriva. Quando venivano dei temporali, Simon chiudeva il portello e se ne stava tranquillo. E poi, un giorno, mentre era intento a studiare il cruscotto, sentì una forte vibrazione percorrere tutta l'astronave. Accese il televisore esterno, e vide quello che aveva sperato di vedere: la punta della "Hwang Ho" era conficcata nel fango della riva in un'ampia baia. Davanti si vedeva il pendio di una montagna.
Il giorno dopo, Simon uscì col cane e la civetta e si guardò in giro. Non si trovavano, come aveva pensato, su una montagna, ma su una sella tra due cime.
Salì lungo il pendio della montagna.
Il giorno dopo, Simon uscì col cane e la civetta e si guardò in giro. Non si trovavano, come aveva pensato, su una montagna, ma su una sella tra due cime.
Salì lungo il pendio della montagna più vicina, e a metà strada trovò una lapide capovolta, semiaffondata nel fango che l'aveva trascinata fin lì dall'alto. La raddrizzò, e lesse l'iscrizione.
IL 27/9/1829, J. J. VON PARROT
CITTADINO TEDESCO FU IL PRIMO
CHE ARRIVÒ IN CIMA AL MONTE ARARAT
5085 METRI SUL LIVELLO DEL MARE.
NON TROVÒ L'ARCA, MA SI GODETTE
IL PANORAMA MANGIANDO PANE E SALAME.
QUESTO È SUCCESSO 58 ANNI PRIMA
DELLA "PAUSA CHE RIDÀ LA CARICA"
Offerto dalla Società Produttrice
della Coca Cola.
Simon era arrivato con la sua arca nello stesso posto in cui si pensava che fosse sbarcato Noè. Era una coincidenza che poteva succedere soltanto in un romanzo di qualità infima, ma alla Natura non importava un fico dell'estetica letteraria. Le voci da cavallette di migliaia di critici si erano levate strillando contro di Lei e poi si erano spente, mentre Essa continuava imperterrita a scrivere le Sue storie, nessuna delle quali aveva un lieto fine.
Simon non credeva più alla narrazione biblica del diluvio, da bambino però l'aveva presa sul serio. Ma alle medie, aveva cominciato ad avere dei dubbi. Allora era andato da un vecchio rabbino che si chiamava Isaac Apfelbaum e gli aveva chiesto perché il libro della Genesi raccontasse frottole madornali come la storia del giardino dell'Eden, degli angeli che svegliavano le figlie degli uomini, del diluvio, della torre di Babele ecc.
Il rabbino aveva sospirato e poi gli aveva spiegato in tono paziente che i libri sacri di qualsiasi popolo non erano stati scritti come testi scientifici. Erano parabole che avevano lo scopo di insegnare alla gente a essere buona e a mantenersi entro certi limiti di comportamento in modo che la vita andasse più liscia possibile. Erano, in realtà, delle guide per procurarsi il paradiso in terra, e, si sperava, nell'aldilà. Dei vecchi saggi avevano escogitato quelle regole di vita come il migliore modo di tenersi lontano dai guai.
- Nessuno è stato scritto da vecchie sagge? - aveva chiesto Simon. - Perché? Gli uomini hanno il monopolio della verità?
- Dimentichi Mary Baker Eddy - aveva detto il rabbino.
- È stata malandata in salute tutta la vita - aveva detto Simon. - Un malato può essere veramente saggio?
Il rabbino questo non lo sapeva. E in ogni caso preferiva sorvolare.
- E come mai le guide sono tutte diverse? - aveva chiesto Simon. Adesso, guardando il monte Ararat, ripensava a quella domanda. E pensava anche alle guide che aveva letto poco prima del picnic. Se gli uomini non riuscivano a mettersi d'accordo sulle misure della sfinge, un oggetto fisico finito, come potevano sperare di fotocopiare il paradiso? Sempre che il paradiso esistesse. Simon non l'aveva detto al rabbino,- ma aveva pensato che credere ai Cancelli di Perle o alla Strada di Mattoni Gialli era ugualmente giustificato.
- Le guide indirizzano soltanto su vie diverse - aveva detto il rabbino. - Ma il risultato finale è lo stesso. Tutte le strade portano a Roma.
E a questo punto aveva taciuto. Se avesse continuato, avrebbe convertito il ragazzetto al cattolicesimo.
Simon guardò le scritte che gli scalatori post-Parrot si erano sentiti in dovere di tracciare sulla lapide. Uno spiritoso aveva scarabocchiato sotto l'ultima riga dell'iscrizione: "Il primo sono stato io. Firmato: Noè".
Subito sotto, un altro spiritoso aveva scritto: "No, cretino, il primo sono stato io! Firmato: Dio".
Di lato, in senso verticale, c'era un'iscrizione più recente: "Frocio chi legge".
Dall'altra parte del testo originale, sempre in senso verticale, c'era scritto: "Non siamo fatti tutti per amare tutti?".
Sotto queste parole Simon incise col cacciavite: "Io sì, ma non è rimasto nessuno da amare".
Dopo che ebbe scritto, si sentì ridicolo. E gli venne voglia di piangere. Era l'ultimo dei cretini i cui nomi e facce appaiono spesso nei luoghi pubblici. Che testamento! Chi c'era lì per leggerlo oltre a lui, unico superstite?
Un attimo dopo lo scoprì.
Faraone dal 1236 al 1223 a. C.
Tredicesimo figlio di Ramsete II
Rese la vita difficile a Mosè
CITTADINO TEDESCO FU IL PRIMO
CHE ARRIVÒ IN CIMA AL MONTE ARARAT
5085 METRI SUL LIVELLO DEL MARE.
NON TROVÒ L'ARCA, MA SI GODETTE
IL PANORAMA MANGIANDO PANE E SALAME.
QUESTO È SUCCESSO 58 ANNI PRIMA
DELLA "PAUSA CHE RIDÀ LA CARICA"
Offerto dalla Società Produttrice
della Coca Cola.
Capitolo IV
Quanti punti?
Il vecchio barcollante che avanzava farfugliando verso di lui aveva l'aria di avere cent'anni. Era calvo, con una lunga barba grigia che gli arrivava alle ginocchia. I suoi vestiti erano di uno stile passato di moda più di seicento anni prima. A quell'epoca lui non era ancora nato. E allora perché portava guanti di capretto gialli, un collare bianco, e un soprabito troppo stretto in vita?
Simon lo condusse nella "Hwang Ho", lo fece sedere su una poltroncina e gli diede un bicchiere di vino di riso. Il vecchio lo vuotò tutto d'un fiato, e poi, tenendo stretto Simon con una mano scarna, parlò.
- Chi ha vinto il campionato?
- Cosa? - disse Simon. - Che campionato?
- Il Campionato Mondiale del duemilaquattrocentocinquantasette - disse il vecchio. - L'hanno vinto I Cardinali di St. Louis o Le Tigri di Tokyo?
- Santo cielo! E io che ne so? - disse Simon.
Il vecchio gemette e si versò un altro bicchiere di vino. Lo annusò, arricciò il naso e disse: - Birra non ne hai?
- Solo birra tedesca - disse Simon.
- Mi accontento di quella - disse il vecchio. - Oh, quanto ho desiderato per tutti questi secoli un bicchiere di birra americana gelata. Specialmente la buona vecchia birra di St. Louis!
Simon andò a prendere nella dispensa l'unica bottiglia di Löwenbrau rimasta. Doveva essere stata dell'unico marinaio tedesco a bordo. A lato della sua cuccetta c'erano ritratti di Beethoven, Bismarck, Otto Munchkin, il primo uomo morto su una Volkswagen. Il marinaio aveva anche una piccola biblioteca, composta per lo più di libri cinesi o tedeschi. C'era anche il viaggio che uno scrittore del principio del ventesimo secolo, di nome Jack London, aveva compiuto nei Mari del Sud.
Simon tornò dal vecchio, con la birra.
- Ti è venuto in mente? - chiese il centenario.
- Che cosa?
- Chi ha vinto il campionato.
- Non mi sono mai interessato di baseball - disse Simon. - Perché è di baseball che parlate, vero?
- Ma non sei americano?
- Non ci sono più nazionalità - disse Simon. - Solo abitanti della Terra, una specie in pericolo. Voi come vi chiamate?
- Silas T. Comberbacke, Astronauta di Prima Classe - disse il vecchio. Bevve una lunga sorsata e sospirò in estasi. Ma disse: - I tedeschi non hanno mai imparato a fare la birra.
Una volta stornata la mente dal baseball, Comberbacke parlò come se non vedesse un essere umano da seicento anni. Come infatti era: aveva lasciato la Terra nel 2457 d. C. perché la sua ragazza era scappata con un parrucchiere.
- Questo ti dà l'idea della sua personalità - disse il vecchio. - Cristo, quello non ne sapeva niente di baseball!
Un giorno, mentre beveva in un bar su un pianeta della Galassia NGC 7217, Comberbacke aveva deciso improvvisamente di tornare a casa e scoprire chi aveva vinto il Campionato del 2457. Erano anni che lo chiedeva ad altri astronauti, ma nemmeno i tifosi lo sapevano. Erano tutti troppo giovani per ricordare una cosa tanto lontana. E così, d'impulso, si era fatto ingaggiare come AIC su un'astronave da carico ugandese e aveva preso la via di casa... o così aveva creduto. Ma durante il viaggio l'astronave aveva ricevuto un appello di soccorso da un pianeta della NGC 5128.
- La NGC cinquantuno ventotto è in realtà una collisione tra due galassie - disse. - Collide da un paio di milioni di anni, ma gli spazi tra i soli sono così vasti che la maggior parte degli abitanti dei pianeti non hanno mai pensato di avere motivo di preoccuparsi. Ma questo pianeta, Rexroxy, era destinato a essere colpito nel giro di un millennio. E così lo stavano sgomberando. In effetti, erano cinquecento anni che lanciavano l'appello di soccorso. Abbiamo atterrato su Rexroxy e ci siamo accordati con gli abitanti. Ci siamo liberati del carico e ne abbiamo ammassati a bordo circa tremila. Ti garantisco che ci hanno pagato lautamente!
"Il comandante aveva intenzione di partire per un pianeta di una stella vicino a Orione e scaricare là i passeggeri, ma doveva inviare un messaggio urgente al suo ufficio centrale. Mi sono offerto di portarlo io su un'astronave monoposto. Non avevo nessuna voglia di perdere un mese a scarrozzare quei ridicoli respiratori di cianuro. Sono arrivato qui due giorni fa, ho parcheggiato l'astronave dall'altra parte della montagna e sono andato in giro in cerca di qualcuno che sapesse dirmi chi aveva vinto il campionato".
- Speravo che sapeste che cosa ha provocato questa pioggia - disse Simon.
- Oh, lo so! Allora, chi ha vinto il campionato? Il giorno che sono partito, I Cardinali e Le Tigri erano alla pari. Accidenti a me, se non me la fossi presa tanto per Alma, sarei rimasto fino alla fine.
- So che la mia domanda è futile - disse Simon. - Ma, per favore, che cosa è successo per far piovere tanto?
- Non scaldarti così - disse il vecchio astronauta. - Se avessi visto tanti mondi distrutti o sul punto di esserlo quanti ne ho visti io, non ne faresti una questione tanto personale.
Comberbacke finì la battaglia e tamburellò con le dita sul bracciolo della poltroncina. Dopo un po', Simon disse: - Allora, che cosa è successo?
- Be', saranno stati gli Hoonhor!
- Che cosa sono gli Hoonhor?
- Cristo, ragazzo, ma non sai proprio niente! - disse Comberbacke. - Sono la razza che fa pulizia nell'universo!
Simon sospirò e gli chiese pazientemente di tornare indietro e cominciare dal principio. Gli Hoonhor, scoprì, erano gli abitanti di un pianeta di una galassia sconosciuta distante un trilione di anni-luce. Erano forse la razza più altruista dell'universo. Avevano sistemato tutto per bene a casa loro e adesso si davano da fare per gli altri.
- Non riescono a tollerare la vista di un popolo che distrugge il proprio pianeta. L'inquinamento, insomma. E così, non appena ne scoprono uno, fanno pulizia. Finora hanno risanato, è così che lo chiamano loro, risanamento, hanno risanato quasi mille pianeti solo nella Via Lattea. Ma davvero non ne hai mai sentito parlare?
- Credo che se qualcuno sulla Terra ne avesse sentito parlare, ne saremmo stati informati tutti - disse Simon.
Comberbacke scosse la testa e disse: - Se avessi immaginato che la Terra non ne sapeva niente, sarei corso qui ad avvertirvi. Ma lo spazio è grande, e non credevo che gli Hoonhor sarebbero arrivati fino alla Terra prima di un migliaio d'anni. C'è tempo, pensavo.
Comberbacke sapeva che erano stati gli Hoonhor a provocare il Secondo Diluvio. Oltrepassando l'orbita di Plutone sulla via del ritorno, aveva incrociato una delle loro astronavi.
- Fanno così: liberano nell'atmosfera del pianeta una costanza che fa precipitare ogni particella di ossigeno presente nell'aria. Non hai idea del diluvio!
- Ce l'ho - disse Simon.
- Ah già, è vero. Di', sei sicuro che di birra non ce n'è più? No? Insomma, la precipitazione pulisce l'aria e la terra e fa annegare quasi tutti. Dopo che l'acqua è evaporata, gli alberi ricominciano a crescere dai semi, e rimane sempre sulle montagne qualche uccello e mammifero per rinnovare la vita animale. Rimane sempre anche qualche senziente, ma gli ci vuole del tempo per prolificare al punto da ricominciare a inquinare il pianeta. Gli Hoonhor mettono in lista i pianeti per un risanamento completo ogni diecimila anni. Ma in realtà sono scarsi di mano d'opera e possono passare anche cinquantamila anni prima che tornino.
Il vecchio aveva passato gran parte del tempo che era stato via dalla Terra viaggiando su astronavi che andavano a una velocità superiore a quella della luce. Questo spiegava perché non fosse morto e diventato polvere seicento anni-Terra prima. Sulle astronavi che andavano alla velocità della luce o più forte, si invecchiava molto lentamente. Dentro l'apparecchio, tutto era rallentato. Per un osservatore esterno, un passeggero dell'astronave impiegava un mese solo ad aprire la bocca per chiedere a qualcuno di passargli lo zucchero. Un orgasmo durava un anno, e questa era una delle cose che le Compagnie mettevano in particolare nelle loro pubblicità.
Quello che le Compagnie non chiarivano era che dentro l'astronave la gente aveva l'impressione di muoversi a velocità normale. Soggettivamente, il tempo era quello abituale. Quando un passeggero si lamentava di essere stato imbrogliato perché in effetti il suo orgasmo era durato soltanto quattro o cinque secondi, il comandante replicava che questo era vero nell'astronave, ma sulla Terra, secondo gli orologi che la Compagnia teneva in sede, ci aveva messo quattrocento giorni.
Se il passeggero continuava a brontolare, il comandante diceva che la colpa era di Einstein. Era stato lui a escogitare la teoria della relatività.
Il vecchio si ubriacò e cadde in deliquio. Simon lo mise a letto, e portò il cane a fare una passeggiata. La brezza, che veniva da sud, era torbida e appiccicosa, impregnata dell'odore di corpi putrefatti. L'acqua era evaporata, lasciando cadaveri di animali, uccelli ed esseri umani lungo il pendio della montagna. Questo faceva la felicità dei pochi avvoltoi e topi superstiti, il che dimostra ancora una volta che non tutto il male viene per nuocere. Ma Simon non era in vena di rallegrarsi con gli avvoltoi. Si sentiva quasi soffocare, e non avrebbe potuto fermarsi lì più a lungo a meno di chiudersi nell'astronave e aspettare che tutta la carne marcescente fosse stata divorata.
Guardò dall'alto del dirupo i corpi di centinaia di uomini, donne e bambini, e pianse.
Un tempo erano stati tutti neonati che avevano bisogno d'amore e che pensavano di essere immortali. Anche i peggiori tra loro avevano desiderato l'amore e sarebbero stati migliori se l'avessero trovato. Ma più tentativi avevano fatto per acchiapparlo, più avevano perduto le qualità per essere amati. Se perfino gli amabili faticavano ad avere l'amore, che possibilità avevano i non amabili?
Il genere umano aveva tentato per un milione di anni di trovare l'amore e l'immortalità. Si era parlato tanto sia dell'uno sia dell'altra, ma gli uomini parlavano sempre soprattutto delle cose che non esistevano. O, se esistevano, erano così rare che quasi nessuno le riconosceva quando le vedeva. L'amore era raro, e l'immortalità soltanto una cosa sperata, indimostrata e indimostrabile.
Almeno, sulla Terra era così.
Poco dopo, Simon si raddrizzò e agitò un pugno contro il cielo.
E fu allora che decise di lasciare la Terra e mettersi a fare la domanda fondamentale.
Perché veniamo creati solo per soffrire e morire?
Capitolo V
I "Bujum" dello spazio
Simon esplorò la zona a piedi, e trovò l'astronave monoposto nel punto in cui Comberbacke l'aveva lasciata. Era stata fabbricata dalla Titanic & Icarus, S.p.A., che a Simon non ispirava fiducia. Tuttavia, dopo averla esaminata da cima a fondo, decise di portarla fino alla "Hwang Ho". L'avrebbe sistemata sull'ampia piattaforma a poppa, e avrebbe potuto usarla come navetta o scialuppa di salvataggio durante i viaggi attraverso gli spazi interstellari.
Quando arrivò all'astronave grande, scoprì che il vecchio se n'era andato. Allora si rimise in viaggio a piedi, e dopo aver disceso il pendio melmoso, trovò Comberbacke che frugava tra le rovine di un villaggio. Il vecchio, al rumore dei piedi di Simon che emergevano dal fango con una specie di gorgoglio, alzò gli occhi.
- Una biblioteca deve averla anche un villaggio armeno - disse. - Ormai di analfabeti non ce ne sono più. Perciò deve esserci per forza un libro con i punteggi dei Campionati Mondiali.
- È tutto quello che desiderate per essere felice?
Il vecchio ci pensò un momento, poi disse: - No. Se riuscissi ad avere un'erezione, sarei molto più contento. Ma che me ne farei? Non ci sono donne in vista.
- Pensavo piuttosto a una che vi tenesse compagnia, magari anche un'infermiera.
- Trovane una appassionata di baseball - disse Comberbacke.
Simon si allontanò scuotendo la testa. Nelle settimane successive perlustrò accuratamente il Grande e il Piccolo Ararat, ma gli esseri umani che trovò erano tutti morti. L'ultimo giorno del suo giro, si avviò per tornare all'astronave con l'intenzione di sorvolare la zona finché non avesse avvistato un tratto di terraferma con qualche superstite. Avrebbe affidato loro il vecchio, e poi sarebbe partito per gli spazi interstellari.
Era quasi buio quando arrivò. L'astronave gli si presentò di fianco e, come sempre, qualcosa nel suo aspetto lo turbò. Non era mai riuscito a capire bene cosa. L'astronave era lunga circa centottanta metri, e aveva il corpo centrale di forma cilindrica. Il muso, però, era bulboso, e la poppa posava su due emisferi. Questi emisferi alloggiavano i motori che azionavano la "Hwang Ho", ed erano separati dall'apparecchio in modo da poter essere sganciati nel caso in cui i motori minacciassero di esplodere.
Dal portello laterale principale, lasciato aperto, usciva un fiotto di luce. Simon s'irritò terribilmente contro il vecchio, perché gli aveva raccomandato di chiudersi dentro di sera. Le zanzare imperversavano adesso che era arrivata la primavera. Per un motivo o per l'altro, il diluvio non le aveva sterminate, e si moltiplicavano a miliardi ora che la maggior parte dei loro nemici naturali, pipistrelli e uccelli, erano morti. Simon si precipitò nell'astronave e chiuse il portello alle sue spalle. Chiamò il vecchio a voce alta, ma Comberbacke non rispose. Simon andò nella sala di ricreazione e lo trovò morto su una sedia. Si era fatto saltare metà testa. Aveva in grembo una pistola cinese, e davanti, sul tavolo, un libro macchiato di fango, con le pagine aperte striate d'acqua. Ma non era pioggia quella che era caduta su quelle pagine; erano segni di lacrime.
Il libro era "Encyclopedia Terrica", Volume IX, Barracuda-Bay Rum.
Comberbacke non aveva lasciato lettere d'addio, ma Simon trovò la spiegazione che cercava alla voce "Baseball, Campionati Mondiali". Il Campionato del 2457 si era concluso con uno scandalo. A metà della partita finale, Cardinali 3 - Tigri 4, la polizia aveva arrestato cinque dei giocatori di St. Louis. Il commissario aveva appena avuto le prove che avevano accettato denaro da scommettitori per perdere il campionato. Le Tigri di Tokyo avevano vinto per abbandono, e i cinque giocatori erano stati condannati al massimo della pena.
Simon seppellì il vecchio e rizzò sulla sua tomba la lapide di von Parrot. Sul retro, che voltò sul davanti, tracciò questa semplice iscrizione:
Qui giace
SILAS T. COMBERBACKE
2432 - 3069
Astronauta e Tifoso di Baseball
Rientrò nella "Hwang Ho", chiuse il portello, e si sedette davanti al cruscotto nella centrale di comando. Le mappe stellari erano contenute nei circuiti del calcolatore. Se, per esempio, Simon avesse voluto andare sul sesto Pianeta di 61 Cygni A, avrebbe dovuto soltanto premere i tasti giusti. Al resto avrebbe provveduto il calcolatore.
Per scherzo, ma chissà quali cognizioni si annidavano nel suo cuore, chiese all'astronave di portarlo in Paradiso.
Con sua sorpresa sullo schermo del calcolatore lampeggiò l'equivalente cinese di "O.K.". Seguirono due minuti di pausa durante i quali il calcolatore controllò che tutto fosse in ordine. Poi l'astronave si staccò bruscamente da terra, si mise in posizione verticale, e salì verso il cielo.
Simon non avvertì il cambiamento nell'inclinazione dell'astronave, perché era compensato da un campo di gravità artificiale.
Ma sentì che cambiava la sua di inclinazione, e si mise a picchiare freneticamente sui tasti.
"Dove mi stai portando?"
"In Paradiso, secondo le istruzioni ricevute".
"Dov'è il Paradiso?"
"Paradiso è il secondo pianeta di Beta Orionis. È un pianeta di tipo T, rimasto inabitato da senzienti fino al 2879 d. C., quando una spedizione terrestre vi è sbarcata per..."
Simon annullò le istruzioni.
"Portami in una galassia inesplorata, e di lì suoneremo a orecchio" batté sui tasti.
Alcuni secondi dopo si tuffavano nel nero ignoto. L'astronave era in grado di raggiungere 69.000 volte la velocità della luce, ma Simon la mantenne entro un limite di 20.000 volte, o 20 X. La marcia stessa si chiamava marcia soixante-neuf, che in francese voleva dire sessantanove. Era stata inventata nel 2970 d. C. da un francese di cui Simon non ricordava esattamente il nome. Era Pierre le Chanceux o Pierre le Chancreux, ma non era sicuro se uno o l'altro, perché non aveva fatto studi di storia spaziale.
Quando la prima astronave fornita della marcia soixante-neuf, la "Golden Goose", era stata spinta alla velocità massima, quelli che si trovavano a bordo erano stati spaventati da una specie di acutissimo urlo. Era cominciato con un mormorio a circa 20.000 volte la velocità della luce, e man mano che l'astronave accelerava, era diventato sempre più alto e fragoroso. A 69 X, l'astronave era stata riempita dal tipo di urlo che si sente quando una donna col bacino stretto partorisce o quando un uomo riceve un calcio nei testicoli. Si erano formulate molte teorie sull'origine di quell'urlo. Poi, nel 2980, il Prof. Maloney, uomo geniale quando era sobrio, aveva risolto il mistero. Era noto che la marcia si procurava l'energia, tranne quella iniziale, spillandola dalla quinta dimensione. Questa dimensione conteneva stelle simili alle nostre, solo che erano di forma pentadimensionale, qualunque cosa significasse. Queste stelle, esattamente come quelle del nostro universo, erano esseri viventi, forme complesse di energia. Ma i tentativi di comunicare con loro erano falliti. Forse, come i porci marini, non avevano alcun interesse a parlare con noi. Niente di male. Quello che importava era che la marcia succhiava l'energia a questi esseri viventi. A loro non andava di essere uccisi e la marcia li faceva star male. Ergo, aveva spiegato il Prof. Maloney, urlavano.
Questa spiegazione aveva dato sollievo a molti. Ma alcuni avevano sostenuto che i viaggi interstellari dovevano cessare: si correva il rischio di sterminare esseri intelligenti. Gli avversari avevano fatto notare che, se questo era vero, era certo deplorevole, ma altre specie usavano la marcia, e perciò le stelle sarebbero state uccise in ogni caso. Se noi ci fossimo astenuti dall'usarla, non ci sarebbe stato più progresso, e saremmo stati in balia di spietati alieni provenienti dallo spazio esterno.
Inoltre, non c'erano prove che le stelle della quinta dimensione fossero più intelligenti dei lombrichi.
Simon non sapeva a chi dare ragione, ma non sopportava di sentire quell'urlo, che a 69 X era così forte che neanche i tappi per le orecchie servivano. Perciò mantenne l'astronave a 20 X, sperando che a quella velocità le stelle avrebbero ricevuto soltanto qualche ammaccatura.
La "Hwang Ho" si allontanò sibilando dal sistema solare, e ben presto il sole fu una fiammella minuscola che si spense rapidamente come se fosse stata intinta nell'acqua. Gli oggetti celesti davanti, visti sullo schermo panoramico, non erano come sarebbero apparsi a una velocità inferiore a quella della luce. A 20 X, l'astronave era, in effetti, metà in questo universo e metà in qualche altro luogo.
Le stelle e le nebulose erano creature del sublime. Erano bellissime, ma di una bellezza che ispirava timore reverenziale, orrore, e di una grandezza e forma che stravolgevano la mente. Ardevano e mutavano aspetto come se fossero state fiamme dell'inferno create da Lucifero, imbottite di eroina. Molti poeti avevano tentato di descrivere i cieli visti a velocità superiori a quella della luce, e nessuno ci era riuscito. Ma quando mai il querulo commento era stato all'altezza del glorioso testo?
Simon rimase paralizzato sulla sedia gemendo nell'estasi di terrore. Dopo un po' si accorse di avere un'erezione enorme, e Dio solo sa quello che sarebbe successo se non fosse stato interrotto.
Il cane guaiva e uggiolava già da un po' di tempo, ma all'improvviso cominciò ad abbaiare forte correndo da tutte le parti. Simon tentò di ignorarlo, poi si arrabbiò. Era sul punto di avere il più grande orgasmo della sua vita, e quel bastardo rischiava di rovinargli tutto. Inveì contro di lui, ma Anubis non gli badò nemmeno. Alla fine Simon ricordò qualcosa che aveva studiato a scuola e visto in vari programmi televisivi, e si spaventò, anche se non era sicuro di averne motivo.
Lo sapevano tutti che i cani avevano percezioni extrasensoriali, che vedevano cose che gli uomini chiamavano fantasmi. Ora, era risaputo che queste cose erano in realtà oggetti pentadimensionali passati per lo spazio normale senza che i sensi grossolani dell'uomo li percepissero. Il passaggio avveniva attraverso canali creati dalla forma della quinta dimensione. Il canale principale sulla Terra percorreva le Isole Britanniche, ed era per questo che l'Inghilterra aveva più "fantasmi" di qualsiasi altro luogo del pianeta.
Tutte le astronavi terrestri che partivano per lo spazio oltre il sistema solare avevano a bordo un cane. Il radar, essendo limitato alla velocità della luce, non serviva a velocità superiori, ma i cani erano in grado di avvertire la presenza di altri esseri viventi fino a un milione di anni-luce di distanza, se anche quelli usavano la marcia soixante-neuf. Per i cani, altri esseri in quel mondo extradimensionale erano fantasmi, e i fantasmi li spaventavano a morte.
Simon premette un pulsante, e uno schermo si animò, mostrando la vista dal lato destro dell'astronave. Simon sapeva che l'astronave in arrivo non sarebbe stata visibile perché andava a una velocità superiore a quella della luce. Vide però chiaramente un imbuto nero che si avvicinava secondo una rotta che avrebbe intercettato la sua, e capì che era la traccia lasciata da un'astronave con la marcia soixante-neuf. Una delle caratteristiche della marcia era appunto che l'astronave irradiava dietro di sé un'ombra, un cono nero di natura ignota. Se Simon avesse guardato fuori attraverso lo schermo posteriore, avrebbe visto, appena dietro l'astronave, soltanto un alone di nulla.
Si convinse che l'astronave in arrivo era una Hoonhor e che gli stava dando la caccia. Solo così poteva spiegarsi che non avesse cambiato rotta, rischiando una collisione se lui avesse mantenuto la sua. Probabilmente gli Hoonhor volevano impedirgli di informare altri mondi di quello che loro avevano fatto alla Terra.
Pigiò il pedale dell'acceleratore e lo tenne contro il pavimento mentre l'ago del tachimetro si spostava verso il margine destro del quadrante. Poi torse la ruota del timone per far deviare l'astronave. L'inseguitrice modificò immediatamente la sua rotta per tenergli dietro.
Il mormorio che veniva dalle due sale macchine si trasformò in un grido alto e lacerante. Anubis ululò di dolore, e la civetta si mise a svolazzare squittendo. Simon si ficcò i tappi nelle orecchie, ma non riuscì a eliminare il terribile rumore. E non riuscì neanche a tappare la bocca alla sua coscienza. Da qualche parte, in uno degli universi pentadimensionali, un essere vivente subiva una tortura atroce perché lui potesse salvare la pelle.
Dopo dieci minuti, gli urli cessarono di colpo. Ma Simon non provò alcun sollievo: quel silenzio significava soltanto che la stella era morta, privata del suo fuoco, di ogni atomo del suo corpo. Aspettò, teso, e poco dopo gli urli ricominciarono. La marcia aveva braccato e trovato un'altra vittima, una stella che forse, solo un minuto prima, pascolava beatamente nei prati dello spazio.
Presto le due astronavi furono sullo stesso piano, la Hoonhor a una distanza incalcolabile dietro la "Hwang Ho". Simon non poteva vederla sullo schermo posteriore a causa della scia nera, ma sapeva che, in un punto di quel cono, c'era. O no? In teoria, niente poteva esistere nella scia immediata di un'astronave a 69 X. Nondimeno un'astronave poteva inseguirne un'altra nella sua scia. Ma durante quel tempo l'inseguitrice non esisteva. E allora dov'era? Nella sesta dimensione, secondo i teorici. E quindi qualunque cosa nella sua scia doveva esistere nella settima dimensione, e un'astronave nella scia di questa sarebbe esistita nell'ottava dimensione, e un'astronave nella scia di questa sarebbe esistita nella nona dimensione.
Questa spiegazione soddisfaceva la maggior parte dei teorici. Finché c'erano numeri, non sarebbero rimasti a corto di dimensioni. Ma un brillante matematico indù, il Prof. Utapal, aveva detto che c'era un limite.
Con un'equazione talmente astrusa che non si poteva controllare, aveva dimostrato che la nona dimensione era il limite massimo (Quale fosse il limite minimo, non lo sapeva nessuno). Quando la quarta astronave si univa alla processione, entrava in gioco un fattore di trasposizione per cui la terza si trovava di colpo davanti alla prima. Sulle riviste dotte questo era chiamato l'Inevitabile Slittamento Transdimensionale, ma in privato lo si definiva l'Ipotesi Bevi-Questa-E-Credi-A-Tutto.
In quel momento una sirena cominciò a urlare, e sul cruscotto lampeggiarono delle luci rosse. Simon si spaventò ancora di più: proprio davanti all'astronave c'era un bujum spaziale.
I bujum erano stelle sprofondate che avevano creato dei vortici gravitazionali che risucchiavano qualsiasi cosa si avvicinasse. La loro gravità era così forte che neanche la luce riusciva a sfuggire dalla loro superficie. Ma gli strumenti dell'astronave erano in grado di rivelare le alterazioni che essi provocavano nella locale struttura spaziotemporale.
I bujum si potevano paragonare a tombini di una fognatura transdimensionale. O a fessure nella ruota di una roulette multidimensionale. Tutti i bujum di questo universo erano accessi a mondi eterodimensionali, e se un'astronave veniva risucchiata in uno di essi, poteva smarrirsi per sempre nel labirinto di collegamenti. Oppure, se l'equipaggio era fortunato, poteva essere rigettata in questo universo.
La Hoonhor si stava avvicinando rapidamente: la lenta astronave da carico non era in grado di batterla in velocità. L'unica via di scampo per Simon, che gli piacesse o no, era tuffarsi nel bujum. Dubitava che il capitano della Hoonhor avesse il fegato di seguirlo lì dentro.
La prima cosa di cui ebbe cognizione fu che tutto era diventato nero. E non si udiva il minimo rumore. Dopo un periodo di tempo che gli sembrò di ore ma che in realtà doveva essere stato soltanto di pochi minuti, se il tempo esisteva, in quel luogo, ebbe la sensazione di sciogliersi. Le dita delle mani e dei piedi gli si allungavano e nello stesso tempo diventavano informi. Poiché anche il collo si allungava, la testa gli ciondolò da una parte, poi cadde e non si fermò più. Ruzzolò oltre il corpo, oltre il pavimento, e poi cominciò a precipitare in uno spazio senza fondo. Simon tentò di alzare un braccio per afferrarla, ma il braccio annaspò nel nulla per chilometri e chilometri senza fine.
Gli intestini gli salivano fluttuando per il corpo, e dopo un po' si attorcigliarono attorno alla testa, che cadeva sempre. L'impressione era tutt'altro che gradevole. L'ano gli saltellava sulla punta del naso, il fegato gli si era incuneato tra la testa e un orecchio. Quale orecchio non avrebbe saputo dirlo, perché non aveva idea di dove fosse la destra o la sinistra, il su o il giù, il dentro o il fuori.
Pensò che forse la testa cadeva a destra, o a sinistra, e che lui aveva usato il braccio sbagliato per tentare di acchiapparla. Un braccio non gli si allungava, e allora concentrò gli sforzi su quello. Il braccio afferrò qualcosa, un organo lungo e viscido, che sembrava la lingua di Anubis. Simon lo tastò e subito tirò via la mano: o la lingua di Anubis si era ingrossata o Anubis si era trasformato in una lingua gigantesca. Si pentì immediatamente di aver mosso la mano, perché gli parve di rovistare nelle budella del cane. Sentì qualcosa sfiorargli il dorso della mano, qualcosa che pulsava forte e che gli comunicò un fremito per tutto il corpo. Il cuore di Anubis, pensò. Ci tenne la mano contro, e quando la cosa cominciò a scivolare via la chiuse tra le dita. Era l'unico oggetto identificabile in quel terrificante universo, e doveva aggrapparvisi per non perdere la ragione. Lo aiutava anche a non sentirsi completamente solo, e gli dava un po' di sicurezza, perché era l'unica cosa che non cambiasse forma.
O almeno così gli era sembrato all'inizio. Dopo pochi secondi, la cosa si era ingrossata e il suo battito era diventato più veloce. Simon sperò che il cane non stesse per morire di un attacco cardiaco.
Improvvisamente, furono fuori tra le stelle. Per poco Simon non gridò di gioia. Ce l'avevano fatta. Non erano condannati a vagare in eterno, come una specie di Vascello Fantasma, per i mari senza luce e senza forma del bujum.
Poi mollò di colpo la presa. Non era il cuore di Anubis, quello che stava stringendo.
Si scusò con l'animale, poi chiese al calcolatore di controllare le stelle della zona. Il calcolatore rispose che l'astronave si trovava in un'area non segnata sulle carte. Simon non si preoccupò: un uomo senza casa non può perdersi, e per i suoi scopi una galassia valeva un'altra.
Diede istruzioni al calcolatore di portare l'astronave nella galassia più vicina e cercare un pianeta abitato. Poi andò nell'alloggio del comandante e si versò una dose abbondante di vino di riso per calmare i nervi. Il guaio con i liquori cinesi era che non se ne aveva mai abbastanza. Pochi minuti dopo avere scolato il primo bicchiere, aveva già voglia di un altro. Adesso capiva perché gli antichi poeti cinesi fossero sempre in cimbali.
Chiuso nella cabina, riuscì a rilassarsi suonando il banjo. L'astronave andava a solo 20 X, e il rumore proveniente dalle sale macchine non era tanto forte da disturbarlo, ma doveva tenere la porta chiusa, perché a sentirlo suonare Anubis ululava e la civetta aveva attacchi di dissenteria. Simon era urtato da queste reazioni, ma era riuscito a trovarci qualcosa di consolante. Con un procedimento logico e analogico all'inverso, aveva scoperto perché i suoi concerti avessero sempre avuto recensioni negative: visto che gli animali aborrivano la sua musica, doveva esserci qualcosa di animalesco nei critici musicali.
Passò una settimana, tempo dell'astronave. Simon studiò filosofia e cinese, preparò i pasti per sé e i suoi compagni, pulì il cane e la civetta. E poi, un giorno, mentre faceva la prima colazione, sentì il campanello d'allarme. Corse nella cabina di comando e guardò lo schermo sul cruscotto. Tradotta, la scritta in cinese diceva: "Sistema solare con pianeta abitabile nelle vicinanze".
Simon ordinò all'astronave di entrare in orbita attorno al quarto pianeta, e quando la "Hwang Ho" ebbe eseguito, si mise in osservazione a un telescopio capace di far risaltare anche un topo sulla superficie. Sembrava un bel pianeta, grande su per giù come la Terra, senza smog, con oceani puliti e tante foreste e pianure erbose. Tutto questo si spiegava facilmente: i senzienti erano a uno stadio agricolo primitivo, e probabilmente non superavano i cento milioni.
Quello che attirò maggiormente la sua attenzione fu una torre gigantesca sull'orlo del più piccolo dei due continenti. Era larga circa millecinquecento metri alla base e alta tremila, e aveva la forma di un cuore di zucchero, con la punta conficcata nel terreno. L'involucro era di metallo duro senza una fenditura, come se fosse stato ricavato da un'unica colata. Era striato di bianco, nero, giallo, verde e azzurro, e le righe non erano dipinte ma sembravano venature del metallo.
L'enorme struttura aveva un'aria nuovissima, ma pendeva da un lato come se il solido granito su cui poggiava cedesse a poco a poco sotto la pressione dei miliardi e miliardi di tonnellate. Prima o poi, di lì a un milione di anni magari, sarebbe caduta. Esisteva da circa un miliardo di anni, da molto prima che la popolazione umana si evolvesse dalle scimmie, o addirittura da insettivori delle dimensioni di topi-ragno. Forse era stata eretta ancora prima che la vita uscisse strisciando dai caldi e nutritivi mari primordiali.
Simon sapeva qualcosa di quelle torri, e proprio per questo fu felicissimo di vederne una. I turisti interstellari che avevano visitato galassie lontane avevano riferito di aver trovato torri come quella su tutti i pianeti abitati di quei sistemi. Sui pianeti della galassia della Terra, invece, non ce n'era neanche una. Nessuno sapeva perché, ma molti lo consideravano un affronto.
Decidendo di ispezionare subito la torre, Simon ordinò all'astronave di atterrarvi sopra. La "Hwang Ho" si posò su una distesa piatta tra i due lobi, e Simon, il cane e la civetta uscirono. Ma non rimasero fermi a lungo. La distesa era coperta da migliaia di uccelli screziati, bianchi e neri, che deponevano uova, schiamazzavano, bisticciavano, e da circa tre metri di guano. Simon si fece strada tra i becchi ricurvi, schivando le beccate maligne delle madri ogni volta che si avvicinava troppo alle uova. Esaminò i lobi, che incombevano su di lui come montagne. I pendii non avevano né porte né finestre: erano ininterrotti come lo scorrere del tempo, impenetrabili come l'ieri.
Simon aveva previsto di non trovare entrate. Tutti i sei milioni di torri di cui i turisti avevano dato notizia fino allora erano esattamente come quella. Gli abitanti di vari pianeti avevano provato tutto, dal trapano con la punta di diamante al laser, alla bomba all'idrogeno, senza riuscire a scalfire il misterioso metallo. Le torri erano cave, e una martellata le faceva rimbombare come gong. C'era addirittura un pianeta che aveva un'orchestra sinfonica che suonava un solo strumento: la torre. Gli orchestrali stavano in piedi su impalcature erette a varie altezze lungo la torre e la percuotevano con martelli, e la grandezza e la disposizione delle stanze all'interno determinavano le note. Il direttore stava su una piattaforma a millecinquecento metri di altezza e a ottocento di distanza, e guidava l'orchestra agitando due bandiere.
Il momento più alto della storia musicale di questo pianeta si era prodotto quando un direttore, Ruboklngshep, era precipitato dalla piattaforma. L'orchestra, tentando di seguire il forsennato dimenarsi delle bandiere durante la caduta, aveva creato sei battute della musica più raffinata che fosse mai stata composta, sebbene qualche critico avesse censurato le ultime tre note. L'arte, come la scienza, a volte ottiene i risultati migliori per caso.
Simon tornò all'astronave e si trovò in una situazione imprevista. Poiché la distesa piatta era inclinata da una parte, l'astronave si era posata nel punto più basso, dove il guano si era accumulato formando un piano orizzontale. Simon si era accertato che non corresse il pericolo di rovesciarsi, ma non aveva tenuto conto del suo peso enorme. L'astronave era sprofondata nel guano molle, e così da una parte i portelli erano a cinque o sei metri sotto la superficie e dall'altra erano troppo in alto per arrivarci. Non c'era altro da fare che aprirsi un passaggio scavando con le mani nude. Anubis non sarebbe stato d'aiuto, perché non aveva seppellito ossi nel guano. Simon si mise a quattro zampe e scavò. Due ore dopo, sporco, sudato e di umore pessimo, raggiunse il portello e si lasciò cadere all'interno. Gli ci volle mezz'ora per pulire la soglia del portello, e un'altra mezz'ora per strigliare se stesso e i due animali.
Il suo solito buonumore tornò quasi subito. Si era imposto di non prendersela per così poco. Dopo tutto, quando uno andava a scavare nelle questioni fondamentali, doveva prevedere di sporcarsi le mani.
SILAS T. COMBERBACKE
2432 - 3069
Astronauta e Tifoso di Baseball
Capitolo VI
Shaltoon, il pianeta dei turni equi
Simon ordinò al calcolatore di far scendere l'astronave su un vasto campo vicino all'edificio più grande di una città. Questa città era la più popolosa del pianeta, perciò doveva essere la capitale della nazione più importante. L'edificio era alto sei piani ed era fatto di una pietra bianca con venature rosse e violacee. Visto dall'alto sembrava un trifoglio con un lungo stelo. Le finestre erano a delta, e le porte ovali, i tetti avevano la forma di pagnotte, e l'intero edificio era circondato da verande scoperte che correvano lungo i margini esterni di due file di colonne. Quelle che delimitavano le verande erano V rovesciate, le altre sporgevano dal pavimento delle verande formando un angolo di quarantacinque gradi, così che le estremità si infilavano nei deltoidi. Le colonne inclinate erano cilindriche, ma le estremità che penetravano nei deltoidi finivano in palle da cui zampillava acqua lattiginosa. Alla base di ciascuna c'erano come due grosse noci di pietra coperte da incisioni che si intersecavano.
La gente che si riversò fuori dell'edificio era di aspetto simile agli uomini, però aveva le orecchie a punta, gli occhi gialli dalle pupille che somigliavano a quelle dei gatti, e i denti aguzzi. Simon non si spaventò. Tutte le razze umanoidi conosciute fino allora discendevano da Primati, Felini, Canidi, Plantigradi o Roditori. Sulla Terra le scimmie avevano vinto la gara dell'evoluzione verso l'intelligenza; su altri pianeti, gli antenati dei gatti, dei cani, degli orsi, dei castori o dei conigli avevano sviluppato dita al posto delle zampe e avevano avuto il sopravvento sulle scimmie. C'erano pianeti sui quali la scimmia e un altro animale si erano evoluti in esseri sapienti contemporaneamente, e allora o si erano divisi il potere o l'uno aveva sterminato l'altro. Su questo pianeta evidentemente erano stati i Felini a spuntarla. Se c'erano degli esseri umani derivati dalle scimmie, dovevano nascondersi nel profondo delle foreste.
Simon osservò la popolazione attraverso gli schermi panoramici, e quando i soldati ebbero circondato l'astronave brandendo lance e archi, uscì. Tenne le mani alzate per dimostrare di avere intenzioni pacifiche, ma non sorrise, perché su alcuni pianeti scoprire i denti era segno di ostilità.
- Sono Simon Wagstaff, l'uomo senza pianeta - disse.
Un paio di settimane dopo, aveva imparato la lingua abbastanza da capire e farsi capire, e gli abitanti di Shaltoon lo trattavano con meno sospetto. Diffidavano di lui, scoprì, perché non era il primo Terrestre sbarcato sul loro pianeta. Circa duecento anni prima, un uomo gioviale e chiacchierone di nome P.T. Taub era venuto a visitarli, e senza dare loro il tempo di rendersi conto di quello che succedeva, li aveva abbindolati e derubati dei gioielli della corona, portandosi via una principessa che aveva appena vinto il Concorso di Bellezza di Shaltoon.
Simon durò fatica a convincerli che non era venuto per guadagnarsi la loro fiducia e poi truffarli. Voleva sì qualcosa da loro, questo lo ripeté più volte, ma non era una cosa materiale. Prima di tutto, che cosa sapevano dei costruttori della torre pendente a forma di cuore?
Gli Shaltooniani che avevano avuto l'incarico di scortarlo dissero di sapere soltanto che i costruttori della torre in quella galassia erano chiamati Clerun-Gowph. Nessuno sapeva perché, ma qualcuno, chissà dove e chissà quando, doveva averli incontrati. Perché, se no, avrebbero avuto un nome comune? Quanto alla torre, era lì, vuota e di secolo in secolo più pendente, da quando gli Shaltooniani avevano inventato un linguaggio. E senza dubbio esisteva da molto prima.
Secondo una leggenda shaltooniana, quando la torre sarebbe caduta, sarebbe stata la fine del mondo.
Simon era un tipo adattabile e socievole, la gente gli piaceva, e trovava sempre il modo di andare d'accordo con tutti. Che fosse in un gruppo o da solo con qualcuno, si divertiva, e sapeva rendersi simpatico. Ma con gli Shaltooniani si sentiva a disagio. C'era in loro qualcosa che non andava, e non riusciva a capire cosa. All'inizio aveva pensato che fosse perché discendevano dai felini. Dopotutto, benché umanoidi, erano fondamentalmente dei gatti, così come i Terrestri erano in fondo delle scimmie. Eppure sulla Terra aveva conosciuto molti turisti extraterrestri di origine felina e si era sempre trovato bene con loro. Anzi, lui preferiva i gatti ai cani. Era solo per circostanze indipendenti dalla sua volontà che lasciando la Terra aveva portato con sé un cane.
Forse, pensò, la colpa era dell'acre odore di muschio che incombeva sulla città, coprendo quello di letame che veniva dalle fattorie tutto attorno. Emanava da tutti gli Shaltooniani adulti, ed era esattamente lo stesso che avevano i gatti in calore. Dopo un po', Simon capi perché. Gli Shaltooniani erano proprio nella stagione degli accoppiamenti, che durava tutto l'anno. Il loro principale argomento di conversazione era il sesso, ma anche di questo non riuscivano a parlare a lungo. Dopo neanche mezz'ora, cominciavano a innervosirsi, si scusavano e se n'andavano. Tutte le volte che Simon ne seguiva uno, maschio o femmina, lo vedeva entrare in una casa dove c'era ad aspettarlo qualcuno del sesso opposto. La porta veniva chiusa, e dopo pochi minuti dalla casa usciva un baccano indiavolato.
A causa di questo, Simon non riusciva mai a parlare a lungo con i membri della scorta che avrebbe dovuto tenerlo d'occhio. Sparivano continuamente, facendosi sostituire da altri.
Inoltre, quando il giorno dopo ricomparivano, si comportavano in modo curioso: sembrava che non si ricordassero quello che gli avevano chiesto o detto il giorno prima. All'inizio lui attribuì la cosa a labilità di memoria, e pensò che forse era per questo che gli Shaltooniani non avevano progredito al di là di una società agricola rudimentale.
Simon era un buon parlatore, ma sapeva anche ascoltare. Non appena ebbe imparato bene la lingua, colse delle differenze nella cadenza dei suoi accompagnatori. E non solo tra l'uno e l'altro, che sarebbe stato normale, ma nella stessa persona da un giorno all'altro. Alla fine concluse che il suo disagio non dipendeva dal fatto che, secondo il suo punto di vista, gli Shaltooniani erano fanatici del sesso. Dopotutto, non c'era motivo di aspettarsi che gli abitanti di un altro pianeta fossero uguali ai Terrestri. Se mai quello che provava era invidia. L'evoluzione aveva gabbato i Terrestri. Perché l'Homo sapiens non aveva saputo conservare la libidine del babbuino? Perché aveva permesso che la società si modellasse in modo da sopprimere l'impulso sessuale? Era perché l'evoluzione aveva imposto all'umanità il progresso tecnologico? E, per ottenere questo, aveva deviato gran parte dell'impulso sessuale dell'uomo al cervello, dove egli usava quelle energie per fabbricare utensili, nuove religioni, modi di accumulare denaro e di migliorare la propria condizione sociale?
I Terrestri erano impegnati a dare la scalata al successo, mentre gli Shaltooniani si dedicavano a darsi la scalata l'un l'altro.
A Simon questo parve un buon sistema di vita... all'inizio. Una delle magagne della società umana era che poca gente aveva contatti veramente intimi, mentre un popolo che passava la maggior parte del tempo a letto doveva essere pieno d'amore. Ma le cose non andavano così su quel pianeta. Non c'era neanche la parola amore nella lingua. C'erano molti termini che indicavano varie posizioni sessuali, ma erano tutti strettamente tecnici. Uno generico che equivalesse al terrestre "amore" non esisteva.
Non che la cosa facesse una gran differenza sul piano pratico. Su Shaltoon c'erano tanti divorzi, disaccordi, litigi e omicidii quanti ce n'erano sulla Terra. D'altra parte, gli Shaltooniani non avevano molti suicidi: invece di lasciarsi prendere dalla depressione, uscivano e facevano l'amore.
Simon considerò questo aspetto, e concluse che, alla fin fine, la società di Shaltoon era organizzata meglio della società terrestre. Non che questo fosse da attribuire a una superiorità intellettuale degli Shaltooniani, era solo una questione di eccedenza di ormoni. Il merito andava a Madre Natura, non al cervello. Simon si rattristò a questo pensiero, ma non cercò una femmina per tirarsi su il morale. Si chiuse nella sua cabina e suonò il banjo finché non si sentì meglio. Poi meditò sul significato di questo fatto e s'immalinconì di nuovo. Non aveva incanalato il proprio impulso sessuale per una strada che non era la sua? Non aveva fatto l'amore con se stesso, tramite il banjo, invece che con un altro essere? Le note che sprizzavano dalle corde erano una forma di eccitazione pervertita?
Mise via il banjo, e si avviò, deciso a trovarsi una compagna. Dieci minuti dopo, era tornato sull'astronave. L'unica cosa che gli desse veramente sollievo era stare alla larga dagli Shaltooniani. Era passato vicino a un barile dell'acqua piovana e per caso aveva dato un'occhiata dentro: sul fondo c'era un neonato. Si era guardato attorno in cerca di un poliziotto per denunciare il fatto, ma non ne aveva visto neanche uno, e allora gli era venuto in mente che non aveva mai incontrato poliziotti su Shaltoon. Aveva fermato un passante per chiedergli dove si trovasse il più vicino posto di polizia, ma non sapendo il termine corrispondente, l'aveva portato fino al barile e gli aveva mostrato cosa c'era dentro. L'uomo si era limitato a stringersi nelle spalle e se n'era andato. Simon aveva gironzolato finché non si era imbattuto in una donna della sua scorta, che, sorpresa di vederlo solo, gli aveva chiesto perché fosse uscito dall'astronave senza avvertire le autorità. Lui aveva risposto che questo non contava, che la cosa importante era l'infanticidio che aveva scoperto.
Con l'aria di non capire di che cosa stesse parlando, la donna l'aveva seguito e aveva guardato dentro il barile. Poi aveva guardato lui con un'espressione strana. Simon aveva capito che qualcosa non andava e aveva controllato: il cadavere non c'era più.
- Giuro che c'era solo cinque minuti fa!
- Certo - aveva detto la donna freddamente. - Ma i barilai l'hanno portato via.
C'era voluto del tempo perché Simon si adattasse all'idea di non aver visto niente di straordinario. Infatti i barili che aveva osservato a ogni angolo di strada e sotto ogni grondaia raramente erano usati per raccogliere acqua da bere: servivano soprattutto per affogare i neonati.
- Non avete questa usanza sulla Terra? - aveva chiesto la donna.
- Da noi è contro la legge assassinare i bambini.
- E allora come fate a contenere l'aumento della popolazione?
- Non lo conteniamo.
- Che barbarie!
Simon si era riavuto in parte dall'indignazione quando la donna gli aveva spiegato che la durata media della vita di uno Shaltooniano era di diecimila anni, per effetto di un elisir inventato circa duecentomila anni prima. Gli Shaltooniani non erano particolarmente portati alla meccanica, all'ingegneria o alla fisica, ma erano dei grandi botanici. L'elisir era stato ricavato dai succhi di molte piante diverse, e un suo effetto secondario era che gli Shaltooniani non si ammalavano quasi mai.
- Perciò capisci che dobbiamo avere un mezzo per evitare che la popolazione aumenti troppo - aveva detto la donna. - Altrimenti nel giro di mille anni o anche meno dovremmo stare uno in testa all'altro.
- Non potete usare dei contraccettivi?
- Sono contro i nostri principi, perché diminuiscono il piacere. E poi, è giusto che tutti abbiano la possibilità di nascere.
Simon le aveva chiesto di spiegare questa apparente contraddizione, e la donna aveva risposto che un bambino abortito non aveva anima, mentre uno che ce la faceva a venir fuori era fornito di anima al momento della nascita. Se moriva anche pochi secondi dopo, in paradiso ci andava. Anzi, era meglio che morisse, perché così gli venivano risparmiati gli affanni, i dolori e le angosce della vita. Ucciderlo era fargli un favore. Tuttavia, per evitare che la popolazione diminuisse, era necessario far vivere un neonato su cento. Agli Shaltooniani non andava che la scelta fosse prestabilita, e lasciavano che fosse il caso a decidere chi doveva vivere e chi no.
E così ogni donna, quando restava incinta, andava al Tempio di Shaltoon, sceglieva un numero al tavolo di una roulette, e se la pallina si fermava nello scomparto sul quale aveva puntato, doveva tenere il bambino. I Sacri Croupiers le davano un cartoncino con sopra il numero fortunato, da portare al collo finché il bambino aveva un anno.
- La ruota è fissata in modo che le probabilità siano cento contro una - aveva detto la donna. - Di solito è la casa a vincere. Ma quando vince la donna, si dichiara una vacanza, e la donna per un giorno è regina. Non è una cuccagna, perché impiega quasi tutto il tempo a passare in rivista la parata.
- Grazie per le informazioni - aveva detto Simon. - Torno all'astronave. Arrivederci, Goobnatz.
- Non sono Goobnatz. Sono Dunnernickel.
Simon, sbalordito com'era, non le aveva nemmeno chiesto che cosa intendesse dire, e aveva pensato a un errore di memoria.
Il giorno dopo tuttavia si scusò.
- Ti sbagli ancora - disse la donna. - Io mi chiamo Pussyloo.
Era vero che, ai Terrestri, gli extraterrestri di una stessa razza sembravano tutti uguali, ma Simon stava tra gli Shaltooniani da abbastanza tempo per riuscire a distinguerli l'uno dall'altro.
- Voi Shaltooniani avete un nome diverso ogni giorno? - chiese.
- No - rispose la donna. - Il mio nome è sempre stato Pussyloo. Ma era Dunnernickel quella con cui hai parlato ieri, e Goobnatz l'altro ieri. Domani, sarà Quimquat.
Era questo il motivo indefinibile per cui Simon si sentiva a disagio con quella gente. Chiese alla donna di spiegarsi meglio, ed entrarono in una taverna lì vicino. Le consumazioni erano offerte dalla casa, perché Simon ci lavorava come suonatore di banjo. Gli Shaltooniani accorrevano in massa ogni sera a sentire la sua musica, che gustavano anche se era del tutto diversa dalla loro. O almeno così dicevano. Il più importante critico musicale del pianeta aveva scritto una serie di articoli su di lui, definendolo un genio, e affermando che sapeva evocare dal suo strumento una profondità e una verità che nessuno Shaltooniano aveva mai raggiunto. Simon, come del resto gli Shaltooniani, non aveva capito che cosa volesse dire, ma gli aveva fatto piacere lo stesso: era la prima volta che un critico lo apprezzava.
Ordinarono due birre, e Pussyloo si lanciò nella sua spiegazione. Disse che gli avrebbe detto volentieri tutto quello che fosse riuscita a farci stare dentro mezz'ora, ma che avrebbe dovuto parlare tanto per comprimere tutto entro quel limite di tempo. Allo scadere dei trenta minuti avrebbe dovuto andarsene. Simon le era simpatico, ma non era il suo tipo, e lei aveva appuntamento con un tale conosciuto durante l'intervallo della colazione. Sentita la spiegazione, Simon capì perché avesse tanta fretta.
- Voi Terrestri non avete la rotazione degli antenati?
Simon per la sorpresa rovesciò la birra e dovette ordinarne un'altra.
- Che roba è?
- È un fenomeno biologico, che non ha niente di soprannaturale - disse la donna. - Immagino che voi poveri Terrestri non l'abbiate. Il corpo di uno Shaltooniano contiene cellule che racchiudono i ricordi di un particolare antenato: gli antenati più remoti sono nel tessuto anale, i più prossimi nel tessuto cerebrale.
- Vuoi dire che una persona si porta in giro i ricordi dei suoi avi? - chiese Simon.
- È proprio quello che ho detto.
- Ma a me sembra che debba venire un momento in cui il corpo non ha più posto per tutte le cellule ancestrali - disse Simon. - Se si considera che andando a ritroso gli antenati raddoppiano ogni generazione, lo spazio si esaurisce presto. Un uomo ha due genitori, ciascuno dei quali ha due genitori, i quali hanno due genitori per uno. E così via. Risalendo appena fino alla quinta generazione, ci si trova con sedici trisavoli. E avanti di questo passo.
- E avanti di questo passo - disse Pussyloo. Guardò davanti a sé con aria sognante, e l'odore di muschio diventò anche più forte. In effetti, tutta la taverna puzzava di selvatico, tanto che Simon non riusciva a sentire il profumo della sua birra.
- Tieni presente che se si va indietro di una trentina di generazioni - disse Pussyloo - tutti gli Shaltooniani oggi viventi hanno molti antenati comuni. Altrimenti, a quel tempo la popolazione del pianeta avrebbe dovuto essere fitta come mosche su un mucchio di sterco di cavallo. Ma c'è un altro fattore che riduce il numero di antenati: le cellule ancestrali dalla personalità più forte liberano sostanze chimiche che annientano quelle più deboli.
- Vuoi dire che anche a livello cellulare la legge è quella della sopravvivenza del più forte? - disse Simon. - Che l'egotismo è il fattore dominante?
Pussyloo si grattò le ginocchia e disse: - È così, infatti. Ma se tutto si fosse ridotto a questo, non ci sarebbe mai stato di che preoccuparsi. Invece, circa ventimila anni fa, gli antenati hanno scatenato la battaglia per i diritti civili, dicendo che non era giusto che fossero rinchiusi in un corpo soltanto i loro ricordi. Avevano diritto a uscire dai ghetti cellulari, a godere della carne a cui contribuivano ma che non condividevano. Dopo una lunga lotta, hanno ottenuto l'istituzione di turni regolari. La cosa funziona in questo modo: dalla nascita fino alla pubertà, a ciascuno è concesso il dominio del proprio corpo, e per tutto questo tempo gli antenati parlano soltanto se viene loro rivolta la parola.
- E come si fa?
- È una cosa mentale che gli scienziati non hanno ancora compreso nei particolari. Certi affermano che abbiamo un circuito neurale che possiamo attivare e disattivare col pensiero. Il guaio è che anche gli antenati possono attivarlo, e in passato hanno reso la vita difficile ai poveri diavoli che li portavano in sé. Ma adesso aprono i canali solo quando sono chiamati.
"In ogni caso, dalla pubertà in poi c'è l'obbligo di cedere a ciascun antenato un giorno in cui gode il pieno possesso del corpo e della coscienza del portatore. A sua volta, il portatore ha diritto a un giorno alla settimana per sé, e così è sempre in vantaggio, anche se c'è ancora del malcontento per questo. Quando si è fatto tutto il giro, si riparte da capo.
"Dato il numero degli antenati, la vita di uno Shaltooniano non basterebbe per un solo ciclo se non ci fosse l'elisir che rallenta l'invecchiamento prolungando la vita media fin verso i diecimila anni".
- Che sono in realtà ventimila, perché un anno di Shaltoon è lungo il doppio di uno dei nostri - disse Simon. Era sbalordito. Non si accorse nemmeno che Pussyloo si alzava dimenandosi e, continuando a dimenarsi, usciva dalla taverna.
Capitolo VII
La regina Margaret
Il Vagabondo dello Spazio aveva meditato di rimettersi in viaggio: quel pianeta non sembrava avere granché da offrirgli. Gli Shaltooniani non avevano neanche la parola filosofia, per non parlare di termini come ontologia, epistemologia e cosmologia. I loro interessi risiedevano altrove. Simon capiva perché pensassero solo al ristretto e profano, cioè, per essere precisi, a mangiare, bere e accoppiarsi; ma non per questo desiderava fare come loro. La sua voglia suprema era per le grandi risposte.
Ma quando scoprì la faccenda della rotazione degli antenati, decise di restare ancora un po'. Era curioso di indagare in che modo questo straordinario fenomeno avesse condizionato la strana e complessa struttura della società di Shaltoon. C'era anche, per dire tutta la verità, un motivo egoistico nella sua riluttanza a partire: essere considerato un genio era piacevole, e sul prossimo pianeta i critici avrebbero anche potuto non essere tanto entusiasti della sua musica.
D'altra parte, il cane e la civetta soffrivano. Non c'era verso di farli uscire dall'astronave, benché patissero di claustrofobia. A sentire l'odore degli Shaltooniani, Anubis esplodeva in latrati furiosi, e Atena aveva un mezzo collasso. Quando Simon aveva ospiti, i due si rifugiavano nella cambusa, e se, a trattenimento finito, Simon tentava di farli giocare, non ci stavano. I loro grandi occhi ebeti lo imploravano di partire, di lasciare per sempre quel pianeta che puzzava di gatti. Simon disse loro di tenere duro ancora una settimana: chi andava cercando conoscenza doveva sopportare certi disagi. Gli animali non capirono le parole, naturalmente, ma capirono il tono: erano inchiodati lì finché il padrone non avesse deciso di schiodarli. Quello che volevano loro era un'altra questione, e forse era un bene che non potessero parlare.
La prima cosa che Simon scoprì indagando fu che la rotazione degli antenati provocava una forte resistenza ai cambiamenti. Questo, oltre che inevitabile, era necessario: la società doveva funzionare un giorno dopo l'altro, i raccolti dovevano essere coltivati, mietuti e trasportati, l'amministrazione del governo e degli affari portata avanti, gli ospedali, i tribunali, le scuole eccetera, diretti. Perché questo fosse possibile, in una famiglia tutti avevano lo stesso lavoro o professione. Se un antenato della millesima generazione aveva fatto lo sterratore, il discendente faceva anche lui lo sterratore. E così si eliminava la confusione che si sarebbe prodotta se un fabbro fosse stato sostituito un giorno da un giudice e il giorno dopo da uno spazzino.
Il grosso problema organizzativo di una società del genere era che ogni antenato desiderava folleggiare durante il suo giorno di possesso. Com'era naturale, non aveva nessuna voglia di perdere tempo a lavorare mentre avrebbe potuto mangiare, bere e accoppiarsi. Ma tutti capivano che, se si fossero lasciati guidare dai loro desideri, la società sarebbe andata in rovina e in poco tempo i portatori sarebbero morti di fame. Perciò, a malincuore, facevano le loro otto ore di lavoro, e appena liberi si davano ai bagordi. Quasi tutti. Qualcuno doveva badare ai bambini, qualcun altro lavorare in fattoria per tutto il resto della giornata.
L'unica soluzione era che fossero gli schiavi ad accudire ai bambini e a finire di arare i campi e di sbrigare i lavori a giornata in fattoria. Su Shaltoon, una volta schiavi si era schiavi per sempre. Ma come costringere uno schiavo ancestrale a lavorare dal mattino alla sera l'unico giorno in cinquecento anni in cui gli spettava il posto del portatore? Chi, tanto per cominciare, l'avrebbe sorvegliato? Nessun uomo libero era disposto a sprecare tempo prezioso per tenere d'occhio gli schiavi. E senza vigilanza, gli schiavi non combinano niente.
E come punire uno schiavo se trascurava il lavoro per divertirsi? Impiccandolo, si sterminavano migliaia di innocenti. Non solo, ma si riduceva il numero di schiavi, che erano già scarsi. Frustandolo, si punivano gli innocenti. Il giorno dopo la punizione, il colpevole si ritirava nella sua cellula, e a patire il male era il povero diavolo che gli succedeva. Questi si risentiva di essere punito per una colpa non sua, e si ritrovava col morale a terra.
Le autorità avevano riconosciuto che la situazione era pericolosa. Se un numero sufficiente di schiavi si fossero arrabbiati abbastanza da ribellarsi, avrebbero potuto facilmente avere il sopravvento mentre i padroni, in piena orgia serale, erano ubriachi e ridotti all'impotenza. L'unico modo di evitare il peggio era raddoppiare gli schiavi, così che uno potesse fare quattro ore del secondo turno e poi andare a divertirsi mentre un altro finiva per lui. Anche questo aveva i suoi svantaggi. Lo schiavo che subentrava per le ultime quattro ore aveva passato il tempo libero in gozzoviglie e non era in grado di lavorare con efficienza. Ma a questo non c'era rimedio.
Gli schiavi supplementari si dovevano far saltar fuori tra gli uomini liberi. E così le autorità approvarono un paio di leggi che stabilivano l'asservimento di chiunque sputasse sul marciapiede o lasciasse cavallo e carretto in sosta oltre il limite consentito. Ci furono naturalmente proteste e tumulti. Il governo se li aspettava, anzi ci sperava: i ribelli furono arrestati e fatti schiavi. Poiché la sentenza aveva valore retroattivo, anche i loro antenati diventarono tutti schiavi.
Simon parlò con parecchi di questi nuovi schiavi, e scoprì che un suo sospetto era fondato: quasi tutti venivano dalle classi povere, e quei pochi che avevano fatto parte della classe agiata erano stati progressisti. Per un motivo o per l'altro, i poliziotti non vedevano mai se un banchiere, un giudice o un uomo d'affari sputava sul marciapiede.
Dopo aver fatto questa scoperta, Simon cominciò a stare in pensiero. C'erano tante leggi di cui non sapeva niente! Ma gli assicurarono che lui non era soggetto alle leggi locali.
- A condizione, però, che te ne vada entro due settimane - gli disse il suo informatore. - Non ti vorremmo come schiavo. Hai troppe idee strane, e se ti fermassi a lungo, potresti diffonderle e contaminare troppa gente.
Simon non fece commenti. L'analogia tra idee nuove e malattie mortali non gli era sconosciuta.
Uno dei suoi scrittori preferiti, un autore di fantascienza di nome Jonathan Swift Somers III, aveva ricavato un racconto da questo parallelo tra malattie e idee. Nel racconto "Quarantena!", un Terrestre sbarcava su un pianeta non segnato sulle carte geografiche. Era impaziente di studiare gli abitanti, ma questi non gli permettevano di uscire dall'astronave perché prima volevano sottoporlo a un controllo medico. All'inizio lui pensava che lo sospettassero di essere portatore di germi sconosciuti, ma dopo aver imparato la lingua, veniva a sapere che non era così. Gli abitanti di quel pianeta avevano inventato da tempo una panacea contro le malattie della carne. Quello che temevano era che lui corrompesse la loro società, la distruggesse magari, con idee micidiali.
I funzionari dello spazioporto, muniti di scudi mentali di piombo, lo interrogavano minuziosamente per due settimane. Lui rispondeva e sudava, perché su quel pianeta il metodo di prevenzione delle malattie, efficace al cento per cento, consisteva nel sopprimere il malato, bruciare il suo cadavere e seppellire le ceneri a mezzanotte in una tomba senza nome.
Dopo averlo spremuto per due settimane, il funzionario capo gli diceva, sorridendo: - Adesso puoi circolare liberamente fra noi.
- Allora ho la patente sanitaria in regola? - chiedeva il Terrestre.
- Niente di preoccupante - rispondeva il funzionario. - Abbiamo sentito tutte le tue idee, e non ce n'è una che noi non abbiamo concepito diecimila anni fa. Devi venire da un mondo molto primitivo.
Jonathan Swift Somers III, come la maggior parte dei grandi scrittori americani, era nato nel Midwest. Suo padre era stato un aspirante poeta la cui epopea incompiuta era stata pubblicata solo molto tempo dopo la sua morte. Simon una volta era andato in pellegrinaggio fino a Petersburg, nell'Illinois, dove il grand'uomo era sepolto. Il monumento era una sedia a rotelle di granito con le ali. Sotto, l'epitaffio diceva:
JONATHAN SWIFT SOMERS III
1910 - 1982
Non ebbe bisogno delle gambe
Somers era rimasto paralizzato dalla vita in giù all'età di dieci anni: a quei tempi non avevano il vaccino antipolio. Non aveva mai lasciato né la sedia a rotelle né la sua città natale, ma la sua mente aveva vagato per l'universo. Aveva scritto quaranta romanzi e duecento racconti, quasi tutti di avventure nello spazio. Li aveva ambientati sulla Luna e su Marte finché gli uomini non ci erano arrivati, poi aveva spostato l'azione su Giove. Dopo la Spedizione Gioviana, aveva raccontato storie di astronauti che si spingevano fino all'estremo limite del cosmo. Era convinto, a ragione, che avrebbe fatto in tempo a morire prima che gli uomini andassero oltre il sistema solare. In realtà, non faceva nessuna differenza che gli astronauti avessero visto o no i posti che lui descriveva. I suoi libri sulla Luna e su Marte si leggevano ancora molto tempo dopo che i viaggi sulla Luna e su Marte erano diventati cosa di tutti i giorni. Non importava niente che nel descrivere quei posti si fosse sbagliato al cento per cento. I suoi libri erano poetici e drammatici, e gli astronauti che lui dipingeva sembravano più veri di quelli veri. Come minimo, erano più interessanti.
Somers era appartenuto alla medesima scuola letteraria del grande romanziere francese Balzac. Balzac diceva che, se di un posto non sapeva niente, descriverlo gli riusciva meglio. Tutte le volte che aveva visitato una città dopo averla rappresentata in un romanzo, era rimasto assai deluso.
Vicino alla tomba di Somers c'era quella del padre.
JONATHAN SWIFT SOMERS II
1877 - 1912
Con ali di poeta tentai il cielo
E non giunsi, purtroppo, a grande altezza.
Ma una sorte benigna perlomeno
mi risparmiò dei critici l'asprezza.
Il figlio, invece, i critici l'avevano fatto penare per quasi tutta la vita. Soltanto da vecchio Somers era stato riconosciuto un grande artista, e quando aveva ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura, aveva detto: "Le ferite restano". Sapeva che i critici non ammettono mai di essersi sbagliati, e che l'avrebbero fatto penare ancora.
Simon cominciò a preoccuparsi lui stesso di non turbare gli Shaltooniani. Era vero che non suggeriva mai loro idee nuove: faceva domande, nient'altro. Ma spesso le domande possono essere più pericolose della propaganda: inducono a pensare.
Tuttavia non sembrava affatto che Simon dovesse far sprizzare scintille di novità nella mente degli Shaltooniani. Gli adulti, in effetti, non gli stavano mai attorno più di un giorno, e i giovani erano intenti solo a giocare e a lasciarsi educare per quando fosse venuto il momento di cedere il possesso del loro corpo.
Verso la fine della sua visita, una bella mattina di sole, Simon uscì dall'astronave per andare al Tempio di Shaltoon. Aveva in mente di passare la giornata a studiare i riti che vi si svolgevano. Shaltoon era la divinità principale del pianeta, una dea il cui equivalente più prossimo sulla Terra era Venere o Afrodite. Simon percorse parecchie vie e le trovò stranamente deserte. Si stava chiedendo che cosa fosse successo, quando fu spaventato da un urlo bestiale proveniente da una casa. La raggiunse di corsa e spalancò la porta: nell'ingresso, un uomo e una donna si picchiavano a sangue. Simon teneva come regola di non immischiarsi mai in una lite tra marito e moglie. Una regola ottima, che però nessun uomo di cuore poteva osservare: un minuto ancora, e sarebbe stata la morte per uno o tutti e due quegli esseri pesti e sanguinanti. Simon piombò in mezzo a loro e subito dopo schizzò via e se la diede a gambe: com'era da aspettarsi, tutti e due si erano rivoltati contro di lui.
Fuori in strada, con i due che lo inseguivano, continuò a correre, e intanto udiva grida e strilli uscire dalle case. Svoltando un angolo, si scontrò con una folla vorticosa e urlante. Tutti sembravano intenti ad ammazzare chiunque avessero a portata di pugni, pugnali, lance, spade, asce. Menando colpi, si fece strada in mezzo alla calca e tornò barcollando all'astronave. Quando il portello si fu chiuso alle sue spalle, si trascinò fino allo scomparto dei medicinali, con Anubis che gli stava al passo uggiolando e leccandolo, e si fasciò gli innumerevoli tagli e graffi.
L'indomani si arrischiò cautamente a uscire. La città era in condizioni impressionanti: le strade erano disseminate di cadaveri e di feriti, e i pompieri stavano ancora spegnendo gli incendi appiccati il giorno prima. Ma siccome nessuno aveva l'aria bellicosa, Simon fermò un passante e gli chiese informazioni sul cataclisma del giorno precedente.
- Che domanda cretina! Era il Giorno di Shag - rispose l'uomo, e tirò dritto.
Simon non se l'ebbe a male per la sgarberia. Erano pochissimi gli Shaltooniani di buonumore prima di aver bevuto. La causa andava ricercata nel fatto che il corpo del portatore era logorato incessantemente dagli antenati rotanti: ciascuno doveva comprimere il massimo di baldoria possibile nel tempo concesso tra la sirena di fine del lavoro e la campana del coprifuoco. Conseguenza: prima cosa che un antenato provava quando veniva il suo turno era un tremendo mal di testa, che durava tutto il giorno, rendendolo stanco e irritabile finché non aveva la possibilità di sopprimere il dolore con l'alcool.
Di tanto in tanto, il corpo crollava, e allora ubriachi infermieri di ambulanza lo trasportavano all'ospedale e lo consegnavano a medici ubriachi. Il povero diavolo che ne era in possesso quel giorno non poteva fare altro che stare disteso su un letto, a lamentarsi e imprecare. L'idea di buttare via il suo raro e prezioso giorno a riaversi dai bagordi di un altro lo faceva stare anche peggio.
Perciò il Vagabondo dello Spazio non si stupì dell'umore nero del passante. Proseguì, e poco dopo incontrò una donna abbondantemente fasciata ma insolitamente amabile.
- Se si va indietro di qualche migliaio di anni, gli antenati sono gli stessi per tutti - gli spiegò. - E così, ogni mille anni circa, capita un giorno in cui un particolare antenato entra in possesso di più portatori. Di solito questo succede a pochi, e siamo in grado di fronteggiare la situazione. Ma circa cinquemila anni fa, Shag, una personalità fortissima dell'Età della Pietra, un certo giorno è subentrato in più di metà della popolazione. E siccome era un uomo molto autoritario e violento che odiava se stesso, il primo Giorno di Shag è finito con lo sterminio di un quarto della popolazione mondiale.
- E il Giorno di Shag di ieri? - chiese Simon.
- È stato il terzo. E ha battuto ogni primato. Le vittime ammontano a quasi metà della popolazione.
- In una lunga prospettiva, la cosa ha il suo lato positivo - disse Simon. - Adesso, per riportare la popolazione alla normalità, potrete lasciare in vita più neonati.
- La mentuccia migliore cresce all'ombra della latrina - disse la donna. Era l'equivalente del terrestre: "Non tutto il male viene per nuocere".
Simon decise di abbreviare il suo soggiorno e di partire l'indomani. Ma quella sera, leggendo il "Times" di Shaltoon, scoprì che quattro giorni dopo la persona più saggia di tutti i tempi avrebbe preso possesso del corpo della regina. Si entusiasmò: se c'era qualcuno che poteva possedere la verità, era certamente quella donna. Aveva avuto più turni di chiunque altro, e univa la massima intelligenza alla massima esperienza.
Il fatto che tutti sapessero che la regina Margaret stava per subentrare si spiegava con la carta delle rotazioni. Ciascuno aveva la propria, e di solito la teneva appesa in bagno in modo da poterla studiare quando la mente era sgombra da ogni altro pensiero.
Simon inviò una richiesta di udienza. In circostanze normali, avrebbe dovuto aspettare la risposta sei mesi, ma siccome era l'unico straniero del pianeta, e celebre per i suoi concerti di banjo, la ebbe quello stesso giorno. La regina sarebbe stata lieta di cenare con lui. Era prescritto l'abito da sera.
Splendente nell'uniforme di gala del comandante della "Hwang Ho", blu marina con spalline enormi, galloni dorati, grossi bottoni di ottone, e venti medaglie di Buona Condotta, Simon si presentò all'ingresso principale del palazzo. Un alto funzionario della dispensa reale e sei guardie lo scortarono per magnifici corridoi di marmo, stipati di oggetti d'arte che in un altro momento Simon si sarebbe soffermato volentieri a guardare.
Lo fecero passare per una porta fiancheggiata da due guardie, che al suo ingresso soffiarono in lunghe trombe d'argento. Simon apprezzò l'omaggio, anche se per un minuto buono rimase assordato. Era ancora confuso quando lo fecero fermare davanti a un grande tavolo di legno scuro e lucido, in una stanza piccola ma riccamente decorata. Il tavolo era apparecchiato con due piatti, due calici pieni di vino e una quantità di vassoi fumanti. A una estremità del tavolo era seduta una donna la cui bellezza gli fece scorrere adrenalina nelle vene, anche se non era proprio umana. A dire la verità, Simon si era così abituato a orecchie a punta, pupille allungate e denti aguzzi che era la sua faccia a sorprenderlo quando si faceva la barba.
Non sentì la presentazione perché l'udito non gli era ancora tornato, ma s'inchinò alla regina quando le labbra dell'alto funzionario smisero di muoversi, e a un cenno si sedette di fronte a lei all'altro capo del tavolo. La cena fu piacevole. Parlarono del tempo, un argomento che Simon avrebbe trovato utile a rompere il ghiaccio su tutti i pianeti. Poi discussero gli orrori del Giorno di Shag. A mano a mano che il pasto procedeva, Simon si ubriacava: il cerimoniale imponeva all'ospite di trangugiare un calice di vino tutte le volte che la regina beveva, e la regina sembrava avere molta sete. Simon la capiva: erano trecento anni che non beveva.
Quando lei glielo chiese, le raccontò la sua storia. La regina si mostrò inorridita e al tempo stesso compiaciuta.
- Secondo la nostra religione, le stelle, i pianeti e le lune sono esseri viventi - disse. - E sono le uniche forme di vita abbastanza grandi e complesse da interessare la Creatrice. La vita biologica è un sottoprodotto accidentale, che si potrebbe considerare una malattia dei pianeti. La vita vegetale e animale sono forme tollerabili di questa malattia, come l'acne o il ginocchio della lavandaia.
"Ma quando i senzienti, esseri dotati di autocoscienza, si evolvono, diventano una specie di microbo mortale. Noi Shaltooniani, però, siamo abbastanza saggi da rendercene conto, e invece di fare i parassiti, diventiamo simbionti. Viviamo dei prodotti della terra, ma stiamo attenti a non rovinarla. Ecco perché siamo rimasti fermi a una società agricola. Coltiviamo le messi, ma riempiamo il terreno di concime, e ogni volta che tagliamo un albero, ne piantiamo un altro al suo posto.
"I Terrestri, a quanto pare, hanno vissuto da parassiti e hanno fatto ammalare il loro pianeta. Mi dispiace dirlo, ma è stato un bene che gli Hoonhor abbiano ripulito la Terra. Vengano pure a ispezionare Shaltoon, e vedranno che abbiamo mantenuto il nostro mondo in una forma eccellente. Noi non li temiamo".
Simon non riteneva che la società di Shaltoon fosse al di sopra di ogni critica, ma giudicò più diplomatico stare zitto.
- Tu dici, Vagabondo dello Spazio, che vuoi andare di pianeta in pianeta finché non avrai trovato le risposte alle tue domande. Immagino che quello che cerchi sia il significato dell'esistenza, vero?
La regina si protese in avanti, e alla luce delle candele i suoi occhi erano verde vivo con fessure verticali nere. La sua veste si aprì, lasciando intravedere un bellissimo seno.
- Ecco, in un certo senso, sì - disse.
La regina si alzò all'improvviso, rovesciando la sedia per terra, e batté le mani. Funzionari e camerieri uscirono immediatamente e chiusero le porte alle loro spalle. Simon cominciò a sudare: la stanza era diventata caldissima, e l'odore di gatta in calore era così forte da essere quasi visibile.
La regina Margaret del pianeta Shaltoon lasciò scivolare la veste a terra. Sotto non aveva niente. Il suo seno alto era sodo e superbo. Le anche e le cosce erano simili a una seducente lira di puro alabastro, di un candore così luminoso da sembrare illuminate dall'interno.
- I tuoi viaggi finiscono qui, Vagabondo dello Spazio - sussurrò, con la voce velata dal desiderio. - Non cercare più, perché hai trovato. La risposta è tra le mie braccia.
Simon non disse niente. La regina girò attorno al tavolo a grandi passi e venne verso di lui, invece di ordinargli, com'era sua prerogativa regale, di andare da lei.
- È una risposta meravigliosa, regina Margaret - disse Simon. Le palme delle mani gli sudavano copiosamente. - L'accetterò con gratitudine. Ma devo dirti, per essere onesto fino in fondo, che domani mi rimetterò in viaggio.
- Ma hai trovato la risposta, hai trovato la risposta! - gridò la regina, e lo strinse a sé.
Simon disse qualcosa, e lei lo staccò bruscamente da sé e lo tenne a distanza. - Che cosa hai detto?
- Ho detto, regina Margaret, che la risposta che tu offri è fantastica. Solo che non è quella che io cerco.
L'alba più tardi esplose come una finestra colpita da un mattone d'oro. Simon tornò all'astronave, si spiaccicò dentro, frittella umana inzuppata nella stanchezza, nella sazietà, nell'odore acre di gatta in fregola. Anubis lo fiutò ed emise un brontolio. Simon allungò una mano estenuata per accarezzarlo.
Anubis la morse.
1910 - 1982
Non ebbe bisogno delle gambe
1877 - 1912
Con ali di poeta tentai il cielo
E non giunsi, purtroppo, a grande altezza.
Ma una sorte benigna perlomeno
mi risparmiò dei critici l'asprezza.
Capitolo VIII
Il pianeta "Vietato Fumare"
Durante il banchetto con la regina Margaret, Simon aveva bevuto un calice dell'elisir d'immortalità di Shaltoon, e prima di congedarsi ne aveva avuto due fiale per i suoi animali. Esitò a lungo prima di offrire ad Anubis e Atena il verde liquore agrodolce. Era giusto infliggere loro una lunga vita? Lui stesso avrebbe ingoiato quella roba se non fosse stato alterato dall'alcool e dall'odore di muschio della regina?
- Potrebbero volerci parecchie vite per trovare un pianeta dove la risposta alla tua domanda fondamentale sia nota - aveva detto la regina. - Non sarebbe il colmo dell'ironia se morissi di vecchiaia proprio mentre stai per raggiungere il pianeta dove puoi avere quello che cerchi?
Simon aveva detto: - Sei molto saggia, regina Margaret - e aveva vuotato la coppa.
Guardò il cane, che si nascondeva dietro una sedia tutto vergognoso per avergli morso la mano, e la civetta, appollaiata sullo schienale della stessa sedia, il suo posatoio favorito, chiazzato di bianco.
Nel corso normale del tempo soggettivo, di lì a qualche anno sarebbero morti tutti e due. E forse il futuro avrebbe dimostrato che sarebbero stati molto meglio morti. D'altra parte, negare loro l'elisir poteva significare privarli di una gioia grande e duratura. Come si faceva a saperlo? Forse c'era addirittura un pianeta i cui abitanti avevano una scienza così avanzata da poter elevare l'intelligenza dei due animali a un livello umano. Allora avrebbe potuto comunicare con loro, godere della loro compagnia al massimo delle potenzialità.
D'altra parte, proprio questo poteva renderli infelicissimi.
Simon risolse il dilemma versando l'elisir in due scodelle: se Anubis e Atena volevano bere, che bevessero, la decisione toccava alle loro limitate facoltà di libero arbitrio. Alla fin fine gli animali sapevano quello che volevano, e se avessero trovato l'immortalità di odore disgustoso, l'avrebbero rifiutata.
Anubis spuntò da dietro la sedia e avanzò furtivamente verso la scodella, annusò il liquido verde e poi se lo lappò tutto quanto. Simon guardò Atena e disse: - Be'? - La civetta disse: - Uh! - e dopo un po' si calò sulla sua scodella e bevve.
Allora Simon cominciò a chiedersi se non aveva sbagliato: i cani mangiano anche il veleno se è avvolto in una bistecca, e forse il profumo dell'elisir aveva coperto l'odore di elementi pericolosi.
Un attimo dopo, dimenticò le sue preoccupazioni. Una scritta lampeggiante sullo schermo panoramico annunciava che l'astronave si stava avvicinando a una stella con un sistema planetario. La "Hwang Ho" scese a una velocità inferiore a quella della luce, e due giorni dopo entrava in orbita attorno al sesto pianeta della gigantesca stella rossa. Il pianeta era grande quanto la Terra, e aveva aria respirabile, benché il contenuto di ossigeno fosse superiore a quello dell'atmosfera terrestre.
L'unico oggetto artificiale sulla superficie era la colossale torre a forma di cuore di zucchero dei Clerun-Gowph. Simon ci girò attorno più volte con l'astronave, ma scoprendo che era inespugnabile come l'altra, lasciò perdere. Il pianeta non mostrava segni di vita pensante, di esseri che usassero arnesi, coltivassero la terra, costruissero edifici. Aveva, però, una curiosa forma di vita animale, e Simon decise di andare a vedere da vicino. Diede l'ordine di atterraggio, e qualche minuto dopo scendeva dall'astronave e si spingeva fino al margine di un prato in riva a un mare color ambra.
L'erba era alta più di mezzo metro, viola, e sparsa di fiori gialli a cinque petali ancora più alti. In mezzo ai fiori si muovevano una quarantina di esseri a forma di piramide alti circa dieci metri. Avevano la pelle, o il guscio, non si capiva bene, rosa, e centinaia di gambe cortissime che finivano in piedi larghi e tondi. Gli occhi erano a metà del corpo, due su ciascun lato, otto in tutto, ed erano enormi e tondi, celesti, con le palpebre frangiate da lunghe ciglia ricurve. In cima alla piramide c'era una palla rosa con due ampie aperture, una opposta all'altra.
Era evidente che la bocca l'avevano in fondo al corpo, perché si lasciavano dietro una traccia di erba tagliata. Simon sentiva chiaramente rumori di masticazione e brontolii di stomaco.
Aveva lasciato l'astronave in un burrone al di là di un bosco fitto, in modo da potersi avvicinare inosservato. Ma in cielo numerosi oggetti purpurei si spingevano a sorvolare il mare e descrivevano un ampio giro per tornare verso di lui sfruttando il vento. Erano esseri ancora più strani di quelli che brucavano nel prato: in lontananza sembravano zeppelin, ma avevano due grandi occhi nella parte inferiore del muso e tentacoli attorcigliati sotto il corpo a più di cinque metri dagli occhi. Simon si chiese come facessero a mangiare. Forse lo strano organo, bulboso e con una piccola apertura, che avevano sulla punta del muso era una specie di bocca.
Appena sopra il piccolo bulbo c'era un foro, ma non sembrava una bocca, perché era rigido. C'era un altro foro all'estremità posteriore, e tanti buchini disposti a intervalli lungo la parte inferiore del corpo.
Il complesso caudale era in tutto simile a quello di uno zeppelin, con enormi timoni verticali ed equilibratori orizzontali, i quali però emettevano, agli orli, piumacchi gialli e verdi.
Simon si fece l'idea che i bizzarri esseri impiegassero una specie di propulsione a reazione: immettevano aria dal foro anteriore, che era rigido, e la emettevano da quello posteriore, che si contraeva e dilatava.
A mano a mano che si avvicinavano al prato, i grossi animali si abbassavano. Il primo, emettendo fischi brevi e secchi, scese fino a circa dieci metri da terra, passò tra due file di piramidi, e poi, con una lenta pressione, introdusse il naso bulboso in un'apertura della palla in cima a una di esse. La palla si chiuse sul bulbo e tenne fermo lo zeppelin.
La piramide era un palo d'ormeggio vivente.
Un attimo dopo, lo zeppelin fu lasciato libero, e si diresse verso il cespuglio al riparo del quale Simon stava rannicchiato. Dietro di lui ne vennero altri, e tutti fischiavano. Le piramidi si strinsero insieme, con la faccia rivolta verso l'interno. Oppure no, la faccia l'avevano rivolta all'esterno, come un branco di mucche minacciate dai lupi? Come facevano a dare la faccia a qualcosa se avevano occhi su tutti e quattro i lati? In ogni caso, formavano una barriera di protezione.
Simon uscì allo scoperto con le mani alzate. Il primo zeppelin apparve sopra di lui, con i grandi occhi sospettosi, e allungò i tentacoli, ma senza toccarlo. Simon fu investito da una ventata che per poco non lo buttò a terra, e da un puzzo terribile ma vagamente familiare. Aveva indovinato a metà per quanto riguardava il metodo di propulsione: invece di immettere aria, comprimerla con qualche organo ed espellerla, lo zeppelin si dava la spinta con giganteschi peti. I suoi stomachi, ne aveva più d'uno, come le mucche, generavano gas per la propulsione, e Simon pensò che dovevano contenere enzimi speciali. In quel momento, lo zeppelin era sospeso a circa tre metri da terra, e andava su e giù espellendo gas dal foro anteriore per neutralizzare il vento.
Simon stava immobile a sentirlo fischiare, e dopo un po' si rese conto che i fischi venivano emessi secondo una specie di alfabeto Morse.
Allora imitò alcuni segnali, giusto per far sapere che anche lui era un essere intelligente, poi si voltò e tornò all'astronave. Gli zeppelin lo seguirono sorvolando gli alberi e rimasero a guardarlo mentre entrava. Sullo schermo panoramico, Simon li vide librarsi sopra l'astronave e tastarla con i tentacoli: probabilmente pensavano che fosse anche quella una creatura vivente sconosciuta.
Il giorno dopo si avventurò fino al margine del prato. I pali d'ormeggio viventi si spaventarono di nuovo, e di nuovo i grossi volatili calarono su di lui. Ma nel giro di pochi giorni si abituarono alla sua presenza, e ogni volta gli permisero di avvicinarsi un po' di più: alla fine della settimana, Simon gironzolava tra le piramidi. Dopo qualche giorno, però, le piramidi sparirono. Simon andò in giro a cercarle e le trovò in un altro prato: evidentemente avevano divorato tutta l'erba e i fiori del primo.
Ebbe qualche difficoltà a imparare la lingua degli zeppelin. La maggior parte avevano troppo da fare durante il giorno per parlare con lui, e quando veniva sera, si ormeggiavano alle palle in cima alle piramidi e ci restavano fino all'alba. Le poche volte che gli rivolgevano la parola, o meglio il fischio, il tanfo che emanavano era quasi insopportabile. Ma poi scoprì che anche le piramidi sapevano fischiare, da una delle aperture della palla che avevano in cima. L'odore non era piacevole neanche di lì, ma stando sopravvento Simon riusciva a sopportarlo. Inoltre, essendo femmine, le piramidi erano più loquaci e più adatte a insegnargli lo zeppelinese.
Andavano matte per lui perché finalmente avevano qualcuno con cui e di cui parlare. I maschi, a quanto pareva, passavano quasi tutto il tempo per aria a giocare: a mezzogiorno scendevano a mangiare ma non c'era verso di trattenerli a fare due chiacchiere, e a sera atterravano, ma era per la cena e per una breve seduta di sesso. Dopo di che, di solito si addormentavano.
- Per loro siamo soltanto degli oggetti - disse una femmina. - Oggetti di nutrimento e di piacere.
La palla che le piramidi avevano in cima era un organo curioso. Una delle due aperture era un insieme di lucchetto d'ormeggio, capezzolo e vagina: la femmina brucava l'erba, la digeriva, e attraverso una protuberanza della palla passava il cibo semiliquido al maschio. Nella stessa apertura riceveva l'organo sessuale dello zeppelin, che era sottile e a forma di lingua. L'altra apertura era ano e bocca, e si poteva contrarre per emettere i fischi dell'idioma locale.
Simon avrebbe preferito non farsi immischiare nelle beghe domestiche delle piramidi, ma per avere informazioni doveva mostrare un po' di interesse e di comprensione per loro. Così fischiò una domanda alla femmina che aveva battezzato Anastasia.
- Hai indovinato - disse Anastasia. - Tutta la fatica la facciamo noi, e quei lazzaroni figli di buona donna se la spassano tutto il santo giorno.
Anastasia non disse proprio "figli di buona donna", ma Simon tradusse così un'espressione che suonava più o meno "peti in una bufera di vento".
- Noi femmine parliamo molto fra noi durante il giorno - continuò Anastasia. - Ma ci piacerebbe anche parlare un po' con i nostri compagni. Loro sono stati lassù nell'azzurro sterminato, si sono divertiti, hanno visto un mucchio di cose interessanti. Ma tu credi forse che si degnino di far sapere anche a noi quello che succede fuori di questi prati? No, tutto quello che vogliono è farsi nutrire, prendersi il loro piacere, e partire per il mondo dei sogni. Quando noi ci lamentiamo, ci rispondono che anche se ci raccontassero quello che hanno visto e fatto non capiremmo. E così siamo qui, incatenate alla terra e rinchiuse in questi prati troppo stretti, a lavorare dal mattino alla sera e a badare ai bambini mentre loro scorrazzano dappertutto, vanno e vengono come gli pare e se la godono. Non è giusto!
Simon fischiò altre espressioni di simpatia e poi andò sulla spiaggia a guardare i maschi.
Aveva scoperto che i loro stomachi producevano anche idrogeno, e che era questo gas a farli stare sospesi nell'aria. Portavano come zavorra dell'acqua, che aspiravano dall'oceano attraverso i tentacoli cavi. Quando volevano innalzarsi rapidamente, scaricavano l'acqua, e subito prendevano quota. Facevano continuamente corse, capriole, e tutti i giochi possibili: girotondo, cerchio della morte, otto verticale, pedinacapo o acchiappauccello. Quest'ultimo gioco consisteva nell'inseguire un uccello finché non lo si prendeva succhiandolo in uno dei due fori di scarico o costringendolo a scendere a terra.
Si divertivano anche a spaventare i branchi di animali a terra piombando su di loro e mettendoli in fuga. Vinceva il maschio il cui branco sollevava la nuvola di polvere più grossa.
I maschi avevano un'altra forma di comunicazione oltre al fischio: emettevano scie di fumo brevi o lunghe corrispondenti ai punti e linee del loro alfabeto Morse. In questo modo potevano parlarsi a distanza o chiamare gli amici quando vedevano qualcosa di interessante. Ma non usavano mai questa cielografia in presenza delle femmine, gongolando del fatto di avere un segreto tutto loro. Naturalmente le femmine lo sapevano, perché a volte i maschi se ne vantavano, e questo le amareggiava ancora di più.
Simon non contava di fermarsi a lungo su quel pianeta, che aveva chiamato Giffard dal nome del francese che aveva pilotato per primo con successo un mezzo aereo più leggero dell'aria. Non credeva che quegli esseri primitivi avessero le risposte alle sue domande. Ma poi parlò con Graf, come aveva battezzato il grosso maschio che dominava il branco, e venne a sapere che i maschi non passavano tutto il tempo a giocare e basta. Spesso dissertavano di filosofia, soprattutto dopo mangiato quando riposavano: galleggiavano sull'oceano o su un lago e discutevano i grandi problemi dell'universo. Quando seppe questo, Simon decise di aspettare finché non avesse imparato la lingua abbastanza da parlare di filosofia coi maschi. Qualche mese dopo il suo arrivo, chiese a Graf di portarlo al lago dove i maschi tenevano le loro sedute esclusive, e Graf disse che ne sarebbe stato ben lieto.
Il giorno dopo, infatti, gli avvolse un tentacolo attorno alla vita e lo sollevò in aria. Simon era tutto eccitato ma anche un po' impaurito, e rimpianse di non aver usato l'astronave monoposto per raggiungere il lago. Ma era avido di nuove esperienze, e questa forse non gli si sarebbe presentata su nessun altro pianeta.
Poco prima di arrivare al lago, estrasse di tasca un sigaro e lo accese: era un buon sigaro, di tabacco della Mongolia Esterna. Si mise a fumare beato, a un centinaio di metri sopra una fitta foresta gialla, col vento che gli passava adagio sulla faccia e un grosso uccello nero con una cresta rossa che gli aleggiava di fianco a pochi metri. Tutto era azzurro, quieto e sereno. Fra uno di quei rari momenti in cui Dio sembra davvero al Suo posto in cielo, e al mondo tutto va bene.
Come sempre, il raro momento non durò. All'improvviso, Graf cominciò ad agitarsi violentemente, tanto che a Simon venne il mal d'aria. Poi lanciò fischi acutissimi, e il tentacolo che reggeva Simon si tese in fuori. Simon lo afferrò e vi rimase appeso, urlando come un ossesso, ma poi, superato il primo momento di panico, si levò il sigaro di bocca e si rivolse a Graf fischiando.
- Che ti piglia?
- Che cosa stai facendo? - Graf fischiava come una pentola a vapore. - Bruci!
- Cosa?
- Molla! Molla! Mi dai fuoco!
- Mi fai cadere, cretino!
- Molla!
Simon guardò giù. Ormai sorvolavano il lago, ma a una trentina di metri d'altezza. Sotto, gli zeppelin si dondolavano sull'acqua. Cioè no, si erano dondolati fino a un secondo prima, perché all'improvviso si levarono a volo tutti insieme, spruzzando la zavorra dai tentacoli, e si sparpagliarono.
Qualche secondo dopo, Simon capì quello che stava succedendo, e allora aprì la mano e lasciò cadere il sigaro. Subito Graf smise di agitarsi, e poco dopo depositò Simon sulla riva del lago. Ma aveva la pelle di un porpora più scuro del solito, e balbettava i suoi punti e linee.
- Il f-f-f-fuoco è la c-c-c-cosa p-p-p-peggiore che ci s-s-sia! È l'u-u-u-unica c-c-cosa che ci fa pa-a-aura! L'ha i-i-inventato il d-d-d-dia-volo!
Evidentemente i Giffardiani avevano una religione. Il loro diavolo, però, stava di casa in cielo, e si dava il moto con un getto di idrogeno fiammeggiante. Quando veniva l'ora di portare all'inferno i Giffardiani cattivi, scendeva in picchiata su di loro e li inceneriva con le fiamme della coda.
I Giffardiani buoni erano portati sottoterra da angeli a forma di zeppelin, i cui peti avevano un odore soave. Il pianeta, dicevano, era cavo, e il paradiso si trovava nella cavità.
Avevano molte idee strane in fatto di religione, ma Simon, che ne aveva sentite di più strane sulla Terra, non si stupì.
Chiese scusa agli zeppelin, e spiegò che cos'era l'oggetto infocato che aveva tenuto in bocca.
Essi rabbrividirono e si misero a saltellare su e giù, e uno si spaventò tanto che parti a razzo, incapace di frenare le emissioni di gas.
- Forse è meglio che tu te ne vada - disse Graf. - Subito.
- Prometto che d'ora in poi fumerò soltanto sull'astronave - disse Simon.
Questo li tranquillizzò un po', ma non tirarono veramente il fiato se non quando Simon aggiunse che avrebbe messo dei cartelli con su scritto "Vietato fumare".
- Così, quando un altro Terrestre capiterà qui - spiegò - non accenderà sigarette.
Non disse che era molto improbabile che un altro Terrestre capitasse lì, né che c'erano miliardi di pianeti in cui abitanti non capivano la sua lingua.
Ma non era il fuoco a rendere Simon pericoloso, erano le idee che ingenuamente lasciava cadere parlando con le femmine. Una volta, ad Anastasia che si lamentava perché era sempre bloccata a terra, disse che avrebbe dovuto farsi portare a spasso. Si accorse immediatamente di aver fatto una topica, ma Anastasia non gli permise di cambiare argomento, e il giorno dopo tentò di convincere il suo compagno, Graf, a portarla per aria. Graf si rifiutò, ma andò a finire che Anastasia era così sossopra che fece la pappa acida. Dopo parecchi giorni di mal di stomaco, Graf cedette.
Con Anastasia appesa per il lucchetto dell'organo-apice, si sollevò in aria, mentre gli altri, a terra o sospesi tutto in giro, stavano a guardare lo storico volo. Riuscì ad arrivare fino a seicento metri di altezza, non di più. Col peso di Anastasia che gli tirava giù il muso, così che la coda era molto più in alto della parte anteriore, non riusciva a regolare la rotta e fece una faticaccia a ridiscendere sul prato. Inoltre, dalla pelle gli zampillavano enormi gocce di sudore giallastro.
Ma Anastasia era felice. Le altre femmine vollero a tutti i costi volare anche loro, e i maschi le accontentarono di malavoglia ed ebbero le stesse difficoltà di Graf. Quella sera erano così stanchi che; nessuno ebbe rapporti sessuali.
Impossibile dire che cosa avrebbe potuto succedere nei giorni seguenti se, l'indomani, le femmine non avessero cominciato a figliare. Forse fu l'eccitazione del primo volo a farle partorire prima del tempo. In ogni caso, quella mattina Simon fece una passeggiata fino al prato e vi trovò una quantità di minuscoli zeppelin e pali d'ormeggio che mangiavano.
I maschietti salivano fluttuando fino all'organo-apice e prendevano lì la pappa. Le femminucce brucavano l'erba a fianco delle madri.
- Come vedi, la discriminazione comincia alla nascita - disse Anastasia. - Noi femmine dobbiamo stare a terra e prendere del cibo molto meno facile da digerire della pappa che i maschi succhiano dagli organi-apice. Come sempre, i maschi hanno tutti i vantaggi.
- La funzione deriva dalla forma - disse Simon.
- Cosa? - fischiò Anastasia.
Simon si allontanò, rimproverandosi per non saper tenere la bocca chiusa. Passeggiò lungo la riva dell'oceano e meditò di andarsene quel giorno stesso. Era riuscito a partecipare a una delle discussioni filosofiche dei maschi, e l'aveva trovata del livello di quelle che al liceo aveva sentito negli spogliatoi. Dubitava che da quegli esseri venisse fuori qualcosa di più profondo. Ma aveva promesso ad Anastasia di fare da padrino a sua figlia, e decise di fermarsi fino alla cerimonia, che si sarebbe tenuta tre giorni dopo. Il suo guaio era che non sopportava di ferire i sentimenti degli altri.
Girò attorno a un gomito della spiaggia, e vide una donna bellissima che emergeva in quel momento dalla spuma di un'onda.
Capitolo IX
Chworktap
Lo sbalordimento di Simon non fu inferiore a quello di Crusoe quando vide l'impronta di Venerdì. Anzi, era proprio venerdì sul calendario terrestre che c'era sull'astronave, un'altra coincidenza da romanzo di pessima qualità. Ancora più imperdonabile, in un romanzo, non nella Natura che poteva infischiarsene delle coincidenze, la scena era quasi la stessa della "Nascita di Venere" del Botticelli. La donna non era ritta su una gigantesca conchiglia e non c'erano fanciulle pronte a coprirla con un panno, ma la spiaggia, gli alberi e i fiori che fluttuavano nell'aria dietro di lei somigliavano a quelli del dipinto.
La donna poi, che uscendo dall'acqua gli si presentò nuda, aveva i capelli della stessa lunghezza e dello stesso colore della Venere botticelliana. Ma era molto più bella e aveva un corpo più attraente, almeno dal punto di vista di Simon. Non si copriva il petto con una mano, e i capelli non scendevano a nasconderle il pube. Le mani le aveva sulla bocca.
Simon le si avvicinò lentamente, sorridendo, e lei abbassò le mani. Parlavano lingue diverse, naturalmente, ma lei fece un cenno in direzione dell'entroterra e poi lo guidò nel bosco, dove, sotto i rami di grossi alberi, c'era una piccola astronave. Entrarono, e la donna fece sedere Simon in una cabina e gli offrì una bevanda, fatta di alcool misto al succo di un frutto esotico. Quando rientrò dal locale vicino era vestita con un abito lungo scollato e coperto di lustrini d'argento, da entraineuse di locale malfamato.
Le ci vollero alcune settimane per arrivare a conversare semispeditamente in inglese. Nel frattempo, Simon la portò alla sua astronave. Anubis e Atena le fecero buona accoglienza, ma lei sembrò spaventata dalla civetta. Simon scoprì il perché in seguito.
Chworktap non era soltanto bella, era soprattutto divertente. Simon non aveva mai conosciuto una persona che avesse tante cose da raccontare, e tutte da morir dal ridere. Per di più, non si ripeteva mai. Per di più ancora, sembrava intuire quando lui non aveva voglia di parlare, e questo era un grosso miglioramento rispetto a Ramona. E le piaceva sentirlo suonare.
Un giorno, tornando da una passeggiata, Simon sentì il suo banjo. Chiunque fosse a suonarlo, lo suonava bene, perché imitava perfettamente il suo stile. Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe pensato a una registrazione. Fece il resto della strada di corsa, e trovò Chworktap che pizzicava le corde come se fosse nata con un banjo in mano.
- Suonate il banjo su Zelpst? - le chiese.
- No.
- E allora chi ti ha insegnato?
- Ho guardato come fai tu.
- Ma io ci ho messo vent'anni, a imparare quello che tu hai imparato in poche ore! - disse Simon. Non era risentito, soltanto stupefatto.
- Naturale.
- Come sarebbe a dire naturale?
- È uno dei miei talenti.
- Su Zelpst sono tutti dotati come te?
- Non tutti.
- Mi piacerebbe andarci.
- A me no.
Simon le tolse il banjo di mano, ma non ebbe il tempo di chiederle altro, perché lei disse: - Tra un minuto sarà pronta la cena.
Poco dopo aprì il radarforno, e Simon sentì un profumo che lo mandò in estasi. Cominciava a essere stufo di "egg foo yong" e maiale in agrodolce, ma il suo animo gentile non gli permetteva di ammazzare un animale per variare la dieta. Ed ecco arrivare Chworktap con un grande vassoio di hamburger, patate fritte, frullati, ketchup, senape e sottaceti!
Quando si fu rimpinzato ed ebbe acceso un grosso sigaro, le chiese come avesse fatto a compiere il miracolo.
- Mi hai detto tu quali erano i tuoi cibi preferiti. Ti ricordi che ti ho chiesto come si faceva a prepararli?
- Sì, mi ricordo.
- Sono uscita e ho abbattuto una di quelle mucche selvatiche. L'ho macellata, ho messo i pezzi che non servivano nella cella frigorifera, e poi sono andata in esplorazione finché non ho trovato una pianta simile alla patata, altre piante da cui ho ricavato ketchup e senape, e una specie di cetriolo che ho manipolato. Io ho molte conoscenze di chimica, sai.
- Non lo sapevo - disse Simon.
- Nella dispensa ho trovato cioccolato e latte solubile. Ho aggiunto un paio di prodotti chimici e ho fatto il gelato e la salsa di cioccolato.
- Fantastico! - disse Simon. - C'è qualcos'altro che sai fare?
- Certo.
Chworktap si alzò, aprì la cerniera dell'abito e lo lasciò scivolare a terra. Poi si sedette sulle ginocchia di Simon, e il suo bacio fu morbido e caldo, profumato di latte e di ketchup. Simon non ebbe bisogno di chiederle quale fosse l'altra sua abilità.
Più tardi, dopo una doccia e un paio di bicchieri di vino di riso, le disse: - Spero che tu non sia rimasta incinta, Chworktap. Non avevo contraccettivi, e non ho pensato di chiederti se ne avessi tu.
- Io non posso rimanere incinta.
- Oh, mi dispiace. Magari vorresti dei bambini. Puoi sempre adottarne uno, sai.
- Io non ho amore materno.
Simon rimase disorientato. - Come fai a saperlo?
- Be' - disse lei - io sono un robot, e non sono stata programmata per l'amore materno.
Capitolo X
Fermento su Giffard
A Simon venne un colpo. Non aveva notato niente di più della solita lubrificazione di quei momenti: niente plastica, gommapiuma o metallo, né fuori né dentro.
- Sei pallido, amore - disse Chworktap. - Mi dispiace di averti scioccato, ma ho dovuto dirtelo. Sono programmata a dire la verità. Così come gli uomini sono programmati a dire bugie - aggiunse dopo un secondo di pausa.
Simon la guardò perplesso. Sorrideva, ma era pallidina anche lei. Poteva un robot essere malizioso o addirittura sarcastico? Sì, se era stato programmato a esserlo. Ma da chi? E perché? Da qualcuno che voleva metterlo a disagio oppure esasperare la gente e perciò aveva montato nel suo robot circuiti destinati a produrre questo effetto.
Possibile che un robot avesse emozioni? Tanto da impallidire o arrossire? Ma no! D'altra parte, che ne sapeva lui dei robot come quello? Sulla Terra la scienza non era arrivata a costruire un facsimile così razionale. Il massimo di cui era stata capace era rivestire di proteine artificiali un oggetto metalplasticoelettromeccanico. Ma erano robot che si muovevano a scatti, così vistosamente "costruiti" che non avrebbero ingannato neanche un bambino. Il pianeta di Chworktap, Zelpst, doveva essere molto avanzato.
Simon si chiese se poteva innamorarsi di un oggetto.
Sospirò e concluse: perché no? Amava il banjo. E altri, stuoli di altri, avevano passioni sviscerate per automobili, modellini di aeroplani, radio ad alta fedeltà, libri rari, e sellini di biciclette.
Ma Chworktap era decisamente un essere umano, e certo c'era una differenza tra l'amore per una donna e quello per i mobili antichi.
- Io sono fondamentalmente un robot proteico - disse Chworktap. - Ho, qua e là, minuscoli pannelli di circuiti, pile atomiche e condensatori, ma sono per lo più di carne e ossa come te. La differenza è che tu sei stato fatto a caso e io sono stata progettata da una commissione di scienziati. Ti piaccia o no, tu hai dovuto prendere i geni, sani o marci, che i tuoi genitori ti hanno trasmesso. I miei geni sono stati selezionati con cura tra cento campioni, e poi messi insieme in laboratorio. L'ovocellula e lo spermatozoo artificiali sono stati inseriti in una provetta, lo spermatozoo è penetrato nell'ovocellula, e io ho passato i miei nove mesi nella provetta.
- In questo almeno siamo uguali - disse Simon. - Mia madre, da quell'egoista che era, non ha voluto prendersi il disturbo di portarmi in giro.
- Anche gli Zelpstiani umani passano i primi nove mesi in provetta - disse Chworktap. - Le ovocellule e gli spermatozoi sono spediti per posta dagli adulti, e l'Ente Controllo Demografico, che è diretto da robot, li usa per dare vita a un bambino ogni volta che un adulto muore. Contemporaneamente, dà vita a cento bambini robot, che vengono allevati come compagni e servi del bambino umano, e sono programmati socialmente ad ammirare e amare il loro padrone. E i soli adulti che il bambino umano vede sono robot che fungono da surrogato di genitori.
Zelpst era votato a fornire agli umani tutti i vantaggi della sua stupenda tecnologia, e, quel che più contava, a risparmiare loro gli affanni e le frustrazioni che i Terrestri consideravano inevitabili. Al bambino umano veniva negato soltanto ciò che poteva metterlo in pericolo. Quando arrivava alla pubertà, riceveva un castello in cui viveva per il resto della vita, circondato da ogni bene materiale e dai cento robot. Questi erano, nell'aspetto e nel modo di fare, del tutto simili a esseri umani, se non che erano incapaci di ferire i sentimenti del padrone, e si comportavano esattamente come lui voleva che si comportassero. Erano programmati a essere la gente che il castellano, o castellana, voleva frequentare.
- Al mio padrone, Zappo, piaceva la conversazione brillante e spiritosa - disse Chworktap. - Perciò noi eravamo tutti brillanti e spiritosi. Ma non sopportava che avessimo più spirito di lui: perciò, quando ci veniva in mente una battuta migliore delle sue, era subito dirottata su un circuito di interruzione. I robot maschi erano tutti impotenti perché Zappo voleva essere l'unico a montare le femmine: ogni volta che i robot stavano per avere un'erezione, l'impulso veniva deviato attraverso un pannello di circuiti e convertito in un opprimente senso di vergogna e di colpa. E ogni volta che noi pensavamo di prendere a sberle Zappo, e credi, ci pensavamo spesso, anche questo impulso veniva convertito in vergogna e colpa, con in più un mal di testa lancinante.
- Allora avevate tutti autocoscienza e libero arbitrio? - disse Simon. - I programmatori non potevano eliminare in voi queste prerogative?
- Qualsiasi cosa che abbia un cervello abbastanza complesso da usare il linguaggio in modo spiritoso o creativo deve per forza avere autocoscienza e libero arbitrio - disse Chworktap. - Non si scappa: qualsiasi cosa, anche una macchina composta esclusivamente di pezzi di silicio e di metallo e di fili elettrici, qualsiasi cosa che usi il linguaggio come un uomo è umano.
- Dio mio! - disse Simon. - Ma dovete aver sofferto di un terribile senso di frustrazione! Nessuno di voi è mai crollato?
- Sì, ma per evitare che facessimo del male al padrone, i pensieri cattivi venivano deviati su noi stessi. Di tanto in tanto capitava che un robot si uccidesse, e allora il padrone ne ordinava un altro. A volte era lui a stancarsi di un particolare robot e a ucciderlo. Zappo era un sadico, un'autentica carogna.
- Strano. Avrei pensato che una persona circondata soltanto da amore, gentilezza e ammirazione, crescesse buona e affettuosa.
- Non va sempre così - disse Chworktap. - Gli umani sono condizionati dai loro geni. In una certa misura sono condizionati anche dall'ambiente, ma sono i geni a determinare le loro reazioni all'ambiente.
- Già - disse Simon. - C'è chi nasce aggressivo, e chi resta passivo tutta la vita. Un ragazzo allevato in una famiglia cattolica può diventare ateo o anabattista mentre i suoi fratelli e sorelle rimangono ferventi cattolici fino alla morte. Un ebreo può rinnegare la religione dei suoi padri e continuare a sentirsi male all'idea di mangiare il prosciutto, o un musulmano credere a ogni parola del Corano e dover combattere una voglia segreta di maiale. Qui la colpa è dei geni dietetici.
- Qualcosa del genere, anche se non è così semplice - disse Chworktap. - In ogni caso, per quanto organizzata con la massima cura in modo da evitare agli umani infelicità e frustrazioni, la società di Zelpst non è efficiente al cento per cento. La magagna c'è sempre: Zappo era infelice perché non era amato per se stesso. Ci chiedeva continuamente: "Mi ami?". E noi rispondevamo sempre: "Non amo che te, padrone adorato". Allora lui diventava tutto rosso in faccia e diceva: "Non sai dire altro, macchina senza cervello! Io voglio sapere questo: se ti asportassi i circuiti di deviamento, mi diresti ancora che mi ami?". E noi rispondevamo: "Certo, padrone". E lui si arrabbiava ancora di più e gridava: "Ma mi ami davvero?". E a volte ci picchiava. Noi subivamo, non eravamo programmati a difenderci, e lui urlava: "Perché non reagisci?". A volte mi faceva pena, ma non potevo dirglielo. Provare compassione per lui significava umiliarlo, e tutti i pensieri umilianti venivano dirottati su un circuito di non-espressione.
"Zappo sapeva che quando faceva l'amore con me io godevo. E così, anche tutte le mie compagne. E sapeva che le nostre grida di estasi non erano finte. Ma nemmeno gli scienziati potevano assicurargli che l'avremmo amato, e anche se fossero riusciti a farci innamorare di lui automaticamente, Zappo non sarebbe stato soddisfatto. Lui voleva che lo amassimo per libera scelta, per la sua amabilità. Ma non osava far asportare i circuiti di inibizione, perché se allora noi avessimo detto che non lo amavamo, non sarebbe stato in grado di sopportarlo. E così faceva una vita grama".
- Mi sembra che la faceste tutti - disse Simon.
- Sì. Zappo diceva sempre che nel castello eravamo tutti robot, lui compreso. Noi fatti di proposito, lui a caso. L'ovocellula e lo spermatozoo dei suoi genitori avevano determinato le sue virtù e i suoi vizi, e non aveva più libero arbitrio di noi.
Simon prese il banjo, lo accordò, e disse: - Bruga riassumeva tutti i problemi filosofici in una canzone intitolata "Afrodite e i filosofi". Te ne canto il ritornello:
Platone diceva che il mondo è illusione,
E Leibniz che siamo monadi;
Non è che non fossero brave persone,
Ma non gli funzionavano le gonadi.
Perciò, amici, il segreto dell'essere,
Datemi retta, chiedetelo a Venere.
- Ma il segreto è rimasto - disse Chworktap. - Bruga era come te, un uomo spinto dal suo particolare complesso genetico a porre domande che non hanno risposta.
- Forse - disse Simon. - Ma in ogni modo come si spiega che tu, un robot dal non-libero arbitrio, abbia piantato in asso il tuo padrone?
- È stato un caso. Zappo, in un accesso di furore, mi ha picchiato in testa con un vaso. La botta mi ha fatto perdere i sensi, ma quando sono rinvenuta, ho scoperto che riuscivo a disubbidirgli: il colpo aveva messo fuori uso il circuito principale. Naturalmente non mi sono tradita, ma alla prima occasione ho rubato un'astronave. Su Zelpst i viaggi spaziali sono stati abbandonati da molto tempo, ma ci sono ancora delle astronavi a prendere polvere in musei che nessuno visita più. Ho vagato un po', e poi mi sono imbattuta in questo pianeta. Non ho visto esseri umani in giro, e pensavo di fermarmi qui per sempre. Ma cominciavo a sentirmi sola, e sono contenta di averti incontrato.
- Anch'io - disse Simon. - Dunque è stato un circuito guasto a darti la libertà?
- Penso di sì, e questo mi preoccupa. Non vorrei che un altro incidente rimettesse il circuito in funzione.
- Poco probabile.
- Naturalmente, in parte sono ancora programmata. Ma chi, robot o umano, non lo è? Ho determinati gusti in fatto di cibi e bevande, detesto gli uccelli...
- Perché?
- Da bambino Zappo era stato spaventato da un uccello, e perciò aveva fatto programmare tutti i suoi robot a odiarli. Non voleva che noi fossimo superiori a lui in qualche cosa.
- Comprensibile - disse Simon.
- Allora, Chworktap, che ne dici? Vuoi venire con me?
- Dove hai intenzione di andare?
- Dappertutto, finché non avrò trovato la risposta alla mia domanda fondamentale.
- Che domanda?
- Perché nasciamo soltanto per soffrire e morire?
- Sarebbe come dire che nient'altro conta se c'è l'immortalità.
- Senza l'immortalità, l'universo non ha senso - disse Simon. - Etica, moralità e società sono soltanto mezzi per arrivare in fondo alla vita con la minore fatica possibile, e si possono riassumere in un unico termine: economia.
- Un'economia che da nessuna parte rende più del trenta per cento - disse Chworktap.
- Questo non puoi saperlo. Non sei stata dappertutto.
- E tu vuoi andare dappertutto?
- Se ci riuscirò, sì. Ma ho già eliminato la mia galassia, perché da quello che ho letto so che la risposta non si trova lì. Ma tu, Chworktap, come la metti coi tuoi geni? La maggior parte sono artificiali, perciò non dovresti avere reazioni predeterminate ai problemi filosofici.
- Io sono un mosaico pazzo di cromosomi - disse Chworktap. - Tutti i miei geni sono basati su quelli già esistiti, sono tutti copie, anche se perfezionate, di quelli di altre persone. Ma ho i geni di molti individui, e si può dire che ho mille genitori, centomila nonni.
A questo punto furono interrotti da uno schianto tremendo fuori dell'astronave. Corsero ad affacciarsi, e videro, a quattrocento metri di distanza, una coppia di Giffardiani sfracellati al suolo. Il maschio aveva preso fuoco, e le fiamme li stavano consumando tutti e due.
Non era il primo incidente del genere, e non sarebbe stato l'ultimo. La colpa era tutta delle femmine, che si ostinavano a farsi portare a spasso per il cielo. Il peso della femmina all'estremità anteriore faceva ribaltare il maschio, che, per non perdere quota, era costretto a emettere gas propellente dal foro anteriore a tutta velocità. I due salivano, poi a un certo punto il maschio perdeva le forze e precipitavano.
- E tutti i tesori di tutti i re non li faranno tornare in sé - mormorò Simon.
- Ma perché non la smettono? - disse Chworktap.
- I loro geni li spingono ad agire così - disse Simon in tono malizioso.
- Avanti di questo passo, e si estingueranno - disse Chworktap. - Anzi, rischiano di estinguersi anche senza incidenti. Le femmine passano il tempo a volare e non brucano, e i piccoli non sono nutriti abbastanza. Guarda come sono magri, poverini!
Quello che facevano i Giffardiani non era affar suo, di Simon, ma questo non gli impedì di ficcarci il naso. Verso sera, dopo che i maschi furono scesi a terra e insieme con i piccoli si furono rinserrati nelle femmine, andò da loro sul prato e li consigliò di comporre la controversia, scegliendo lui come giudice imparziale e conformandosi alla sua decisione.
Naturalmente venne cacciato via. Ma qualche giorno dopo, quando altre tre coppie si furono schiantate a terra, ricevette la visita di una femmina e di un maschio, che lui battezzò Amelia e Ferdinand. Graf e Gräfin, il capo del branco e la moglie, erano andati in pezzi ili giorno prima, e Amelia e Ferdinand erano succeduti allora per via gerarchica. C'era stato un funerale, e Simon ci era andato e aveva portato dei fiori. Il predicatore del branco aveva pronunziato l'elogio funebre. Graf era stato esaltato per l'eccezionale impegno con cui si era preso cura del branco, mentre tutti sapevano che era stato un lazzarone che rifilava tutto il lavoro amministrativo ai suoi subordinati. Era stato esaltato per la fedeltà alla sua compagna, mentre tutti sapevano che cercava sempre di attirare le femmine dall'altra parte del bosco e che metà del branco poteva chiamarlo papà. Il predicatore l'aveva definito padre di famiglia esemplare, mentre tutti sapevano che si occupava dei suoi figli solo quando lo irritavano, e solo per mandarli a ruzzolare lontano con un energico peto.
Gräfin era stata esaltata come moglie e madre paziente e laboriosa. Laboriosa lo era stata davvero, ma i suoi aspri rimproveri al marito e le sue chiacchiere malevole erano ben noti.
Simon non ci trovò niente di strano: aveva già assistito a cose del genere.
Al termine del funerale, Amelia e Ferdinand gli avevano chiesto di combinare un incontro per il giorno dopo. E adesso erano lì.
Quello che volevano era semplice ma non facile: Simon doveva decidere se le passeggiate aeree dovevano continuare o no. Le femmine erano risolutamente favorevoli, i maschi fermamente contrari.
Simon disse che accettava l'incarico, ma che probabilmente ci avrebbe messo qualche giorno ad arrivare a una decisione.
Dopo due giorni e due notti, si rifugiò nella "Hwang Ho". Le femmine l'avevano avvicinato di nascosto e gli avevano offerto tutto quello che avevano perché decidesse in loro favore. Ma Simon non avrebbe trovato le loro offerte allettanti nemmeno se fosse stato disposto a lasciarsi corrompere: se avesse tentato di avere rapporti sessuali con una di loro, sarebbe precipitato dall'orifizio dell'organo-apice. E neanche gli andava di succhiare cibo rigurgitato.
I maschi gli avevano offerto di portarlo a spasso dalla mattina alla sera, e perfino di lasciarlo fumare in volo. L'avrebbero tenuto il più lontano possibile da sé, appeso all'estremità di un tentacolo a metà corpo. Naturalmente, non potevano garantire la presa. Come incentivo extra, l'avrebbero eletto capo del branco. Ferdinand non sarebbe stato contento, ma per quanto li riguardava poteva andare a ventilare il mare.
Nell'astronave, Simon poteva tenere chiusi i portelli e difendersi così dalle suppliche delle femmine, che avevano circondato la "Hwang Ho" e lo bersagliavano di esalazioni. Ma di tanto in tanto, per non morire di claustrofobia, doveva guardare fuori attraverso gli schermi panoramici, e allora vedeva le enormi nubi nere a punti e linee che i maschi tracciavano nell'aria sopra di lui. Era la prima volta che vedeva scritte oscene in cielo.
- Qualunque decisione tu prenda, la tua vita sarà in pericolo - gli disse Chworktap. - Perché non piantiamo tutto e ce ne andiamo?
- Ho dato la mia parola.
- E che cosa succederebbe se non la mantenessi?
- Niente di cosmico. Ma per me significherebbe che sono meno che un uomo, che non ho né dignità né onore. Nessuno mi rispetterebbe perché io non avrei più rispetto per me stesso. Tutti, me compreso, mi disprezzerebbero.
- Preferiresti morire?
- Credo di si.
- Ma non ha senso.
- La società non starebbe in piedi se la gente non mantenesse la parola data.
- Quanti sulla Terra la mantenevano?
Simon ci pensò un momento, poi disse: - Non molti.
- E la società terrestre stava in piedi?
- Be', sì - disse Simon, - Ma non funzionava molto bene.
- Allora che cosa hai intenzione di dire ai Giffardiani?
- Vieni con me e lo saprai.
Accompagnato da Chworktap, dal cane e dalla civetta, Simon attraversò il bosco e avanzò fino al margine del prato. Qui si fermò e fece esplodere un razzo luminoso, e subito le femmine vennero ondeggiando verso di lui e i maschi accorsero rombando. I piccoli continuarono a giocare. Quando tutti i maschi si furono ancorati, Simon parlò.
- Spero che la mia soluzione farà contenti tutti - disse. - È un compromesso, ma al mondo non si ottiene niente di concreto senza compromessi.
- Noi maschi non ci lasceremo abbindolare - fischiò Ferdinand. - Sappiamo quello che è giusto.
- Noi femmine non ci lasceremo defraudare dei diritti che abbiamo conquistato con fatica - fischiò Amelia.
- Per favore! - disse Simon, alzando un braccio. - Ho un piano che permetterà a voi femmine di fare tutte le passeggiate aeree che vorrete, e senza alcun rischio. Non ci saranno più incidenti. Dovrete soltanto modificare il vostro sistema matrimoniale.
Aspettò che l'uragano di fischi si quietasse e che il vento disperdesse il puzzo.
- Voi siete monogami - disse. - Un solo maschio si accoppia con una sola femmina per tutta la vita. È una buona regola, anche se, mi perdonerete un'osservazione da estraneo imparziale, è onorata più dalla trasgressione che dall'osservanza. Ma se voi femmine volete volare, dovete modificarla.
Ci fu un altro uragano, e Simon ne rimase assordato e semiasfissiato. Quando tornò la calma, disse: - Perché non instaurate un sistema poliandrico?
- E cioè? - fischiarono i Giffardiani.
- Da voi è proibito che un maschio s'immetta nella bocca-vulva di una femmina se non è sposato con lei. Ma che ne direste se la femmina avesse due mariti?
Le femmine tacevano. I loro otto occhi roteavano incessantemente, e questo su Giffard era segno di profonda riflessione. I maschi erano scandalizzati, e lo scroscio e i solfuri costrinsero Simon e Chworktap a rifugiarsi un momento tra i cespugli.
Quando tornò fuori, Simon disse: - È una questione di logica. L'unico modo di evitare le cadute è che una femmina sia trasportata da due maschi, che si dividano il peso e così la sollevino in aria facilmente.
- Sì, ma come si fa? - chiese Ferdinand.
- È semplice: i due maschi s'incastrano ciascuno in un orifizio della femmina, e così sono in grado di trasportarla senza fatica. Si stabiliscono dei turni: un giorno vola una metà delle femmine, il giorno dopo l'altra metà. È così ovvio! Non capisco come mai non ci abbiate pensato...
Fu una fortuna che le femmine fossero troppo larghe per entrare nel bosco e i maschi avessero il vento contrario. Simon e Chworktap si misero a correre tenendosi per mano, con Anubis che li seguiva abbaiando forte e la civetta che volava sopra le loro teste. Nonostante tutto, quando uscirono a precipizio dal bosco avevano i maschi a solo pochi metri di distanza. Raggiunsero l'astronave coi tentacoli di Ferdinand tre passi dietro di loro, e si buttarono dentro. Simon chiuse il portello e ordinò al calcolatore di partire per stelle sconosciute.
- Spero che ti servirà di lezione - disse Chworktap, senza fiato.
- Chi poteva immaginare che si sarebbero arrabbiati tanto? - disse Simon.
Anni dopo, doveva imbattersi in un essere di Shekshekel che era stato su Giffard a circa cinquantanni dalla visita del Terrestre.
- Mi hanno parlato di te - gli disse lo Shekshekel. - Ti chiamano ancora Simon il Sodomita.
E Leibniz che siamo monadi;
Non è che non fossero brave persone,
Ma non gli funzionavano le gonadi.
Perciò, amici, il segreto dell'essere,
Datemi retta, chiedetelo a Venere.
Capitolo XI
Lalorlong
Dopo alcuni giorni, la "Hwang Ho" si diresse verso il pianeta Lalorlong. Chworktap aveva detto a Simon di aver sentito dire che era abitato da una razza molto filosofica.
- Non hanno quasi nient'altro da fare che pensare.
- Andiamoci allora - aveva detto Simon. - Sono convinto che se le risposte che cerco esistono, lì le troverò.
Lalorlong apparve. Era un pianeta della grandezza della Terra, che da molto tempo aveva perduto tutte le acque superficiali fuorché ai poli. L'erosione aveva riempito gli oceani e appiattito la terraferma fino a rendere il globo perfettamente liscio. La differenza di temperatura tra zone polari e zone calde, e quella prodotta dall'inclinazione dell'asse, davano origine a venti generali, che spiravano in una direzione facilmente prevedibile.
L'unico oggetto che sporgeva dalla superficie era la gigantesca torre a forma di cuore dei Clerun-Gowph, che lì, con la base di pietra erosa dai venti, era caduta. Simon la fece sorvolare dall'astronave per osservarla da vicino: non c'erano segni di vita, ma questo se l'era aspettato. Dovevano essere passati miliardi di anni da quando era stata eretta, e molti milioni da che era crollata. Chissà che fracasso aveva fatto, cadendo!
A sentirlo, c'era stata soltanto la specie senziente di Lalorlong, l'unica forma di vita animale rimasta. L'unica forma di vita vegetale era una pianta che nella stagione corrispondente all'autunno si spezzava e veniva sparsa in giro dal vento. La pianta forniva ai Lalorlongiani cibo e acqua. Evidentemente aveva radici molto profonde che succhiavano acqua dalle rocce e decomponevano le sostanze chimiche per il proprio nutrimento. Quando arrivava a una certa altezza, la parte superiore cadeva e poi turbinava attorno al mondo finché un Lalorlongiano affamato non la fermava.
I nativi somigliavano a ruote d'automobile con pneumatici da neve. I loro pneumatici erano fatti di membrane gonfiate, sottili ma molto resistenti, con battistrada a losanga. La ruota consisteva in un cerchione e dodici raggi di osso fissati al mozzo che era una palla rivestita da un guscio duro, simile all'esoscheletro di una formica. Dentro questa palla erano racchiusi il cervello e gli organi nervosi, digerenti e sessuali, e al centro del lato destro e del sinistro c'era un buco rotondo, da cui usciva un peduncolo cartilaginoso che correva orizzontalmente per alcuni centimetri e poi si piegava ad angolo retto verso l'alto. Tutti e due i peduncoli arrivavano a circa mezzo metro sopra la ruota, e finivano ciascuno in due occhi fissati a peduncoli ausiliari girevoli. A metà altezza avevano un organo bulboso che mandava lampi come una lucciola. Questi "fari" erano usati la sera per l'illuminazione e a volte durante il giorno per segnalare le curve.
Simon pensò che i Lalorlongiani fossero senza arti finché non vide il capo proiettare un lungo braccio filiforme con sei giunture e una mano a tre dita da ciascuno dei due buchi della palla-mozzo. Il braccio si piegò a metà verso il basso, e questo parve un segnale di rallentare. Gli altri emisero, dai due buchi del mozzo, gambe a bastoncino, con sei giunture, che finivano in piedi pieghevoli che, aperti, erano larghi, senza dita, e con le piante molto callose. Strisciarono i piedi per terra finché non ebbero ridotto la velocità, poi ritrassero le gambe.
Il capo tese in fuori il braccio sinistro, e poi fece una mezza svolta nella direzione indicata dal braccio. Gli altri lo seguirono, tenendosi sempre alla stessa distanza dietro di lui.
Simon circuitava sopra di loro nella luce rossa del vecchissimo sole moribondo. Visto dall'alto, il branco aveva la forma di una freccia. Il vertice era il capo, un'enorme ruota violacea con i lati bianchi. La V della freccia era composta di giovani maschi, e dietro, in fila indiana, venivano le femmine con i piccoli a fianco. La base della freccia era costituita dai maschi vecchi, il cui colore violaceo tendeva al grigio. In seguito, Simon avrebbe scoperto che la formazione era regolata da una rigida gerarchia basata sull'aggressività. Il capo era sempre in punta, e le femmine erano disposte secondo la fertilità e il vigore sessuale.
Tutti, tranne il capo, erano di un violaceo intenso. Ma quando un giovane maschio rovesciava il vecchio capo, diventava bianco ai lati: la sua nuova posizione sociale liberava ormoni che provocavano lo strano cambiamento.
Il capo aveva fatto deviare e rallentare gli altri perché aveva visto delle piante portate dal vento verso il branco. Poco dopo le intercettarono, e col braccio destro le afferrarono e strapparono i ramoscelli. I pezzi finirono nel buco di destra, dentro il quale c'era una bocca con denti grandi e forti che schiacciarono e masticarono il cibo con un movimento a sghimbescio. Le piante, oltre all'acqua, fornivano un alimento simile a cioccolato gommoso.
Il buco di sinistra serviva alla funzione opposta, e gli escrementi erano espulsi in minuscole pallottoline. La materia di rifiuto era poca, perché i Lalorlongiani avevano un metabolismo efficientissimo.
Simon ordinò all'astronave di avvicinarsi alla sinistra del branco. Come aveva previsto, il branco svoltò a destra. Evitarono di piegare ad angolo retto per non offrire i corpi alla piena forza del vento, perché se fossero caduti non avrebbero avuto modo di tirarsi su. Fecero una deviazione di quarantacinque gradi, inclinandosi controvento. Per far questo, allungarono in fuori il più possibile il braccio destro e piegarono a destra i peduncoli oculari. Poi ritrassero il braccio, avanzarono per un tratto e, a un segnale del capo, si diressero di nuovo verso ovest, aiutandosi in questa manovra col braccio sinistro.
- Come faranno a parlare? - disse Simon a Chworktap.
- Con le dita, come i sordomuti.
La "Hwang Ho" trasportava una jeep. Simon ordinò all'astronave di fermarsi, e salì con Chworktap sulla jeep. Il cane e la civetta, che soffrivano di claustrofobia, fecero talmente tante storie per non essere lasciati a bordo che bisognò portarseli dietro, ma la civetta dovette mettersi sul sedile posteriore per non dare fastidio a Chworktap. Il portello si apri, una passerella scorrevole venne fuori, e la jeep scese sulla superficie liscia del pianeta. Poi l'astronave si alzò in aria e li seguì a un paio di chilometri di distanza.
La jeep non ebbe difficoltà a raggiungere il branco, anche se il vento lo spingeva a una sessantina di chilometri all'ora. All'avvicinarsi dell'automobile, gli occhi in cima ai peduncoli rotearono di paura, e il branco girò a sinistra. Le braccia uscirono dai buchi, e contorcendo, incrociando, piegando le dita, i Lalorlongiani si chiesero l'un l'altro chi diavolo fossero questi stranieri e che intenzioni avessero. Le luci segnaletiche cominciarono a lampeggiare istericamente. Solo più tardi Simon venne a sapere che quella gente parlava con dita e luci insieme. Questo gli rendeva difficile sostenere una conversazione con loro, perché non poteva usare le dita delle due mani e nello stesso tempo accendere e spegnere due lampade. Ma Chworktap lo aiutò accendendo e spegnendo le lampade per lui, e insieme riuscirono a discorrere con le ruote. A volte s'imbrogliavano e dovevano ricominciare la frase da capo.
Simon e Chworktap passavano quasi tutta la giornata in viaggio. Ci voleva qualcuno che guidasse ma anche qualcuno che facesse funzionare le lampade. Chworktap fabbricò un congegno che le permetteva di accendere e spegnere le lampade con le dita di una mano mentre con l'altra guidava. Per fortuna non c'erano veicoli o oggetti immobili da evitare, né si correva il rischio di uscire di strada. Dopo qualche giorno, Chworktap ideò un meccanismo per mantenere la jeep a distanza costante dal Lalorlongiano da cui imparavano la lingua. Questi aveva un raggio laser fissato su di lui, e se si allontanava o si avvicinava troppo, la variazione della lunghezza del raggio metteva in funzione un motorino che faceva girare una di due cinghie collegate alla ruota, correggendo la direzione e modificando anche la velocità.
Simon cominciava a chiedersi che cosa avrebbe fatto senza Chworktap.
"Vacci piano!" si disse. "Non starai per innamorarti di un robot!": Si guadagnò la fiducia dei Lalorlongiani il terzo giorno. Uno degli adolescenti faceva acrobazie per mettersi in mostra: girava su se stesso e si slanciava controvento finché non si fermava ed era sospinto indietro. Aveva fatto questo una decina di volte sotto gli sguardi ammirati delle giovani femmine che sventolavano le dita e mandavano lampi di un'ovazione ininterrotta, quando, nel descrivere un otto, s'inclinò un po' troppo e cadde su un fianco. Le dita e i fari di tutti segnalarono panico e disperazione, ma il branco prosegui, lasciando il giovane maschio a terra, con un braccio alzato che si agitava freneticamente e gli occhi che roteavano nelle orbite.
- Lo piantano li, poveretto - disse Chworktap.
- Credo che non sappiano come fare a tirarlo su - disse Simon. - Qui, se uno cade è finita.
Disinnestò il meccanismo di guida e voltò la jeep. Bastò un momento a lui e Chworktap per rimettere in piedi il malcapitato, che pesava al massimo centoquaranta chili. Ma la giovane ruota non ripartì subito, continuò a roteare gli occhi come un coyote incappato nella trappola tesa per la sua preda.
- Sembra che soffra - disse Chworktap.
Soffriva, infatti. Sopra il buco da cui usciva il braccio ce n'era un altro, più piccolo, da cui il maschio tirava fuori il suo pistillo durante l'accoppiamento o quando si eccitava. Nel fare acrobazie l'adolescente si era eccitato, e cadendo si era schiacciato la punta del pistillo sotto il mozzo: un male paragonabile a quello di un calcio ai testicoli.
Dopo un po', sembrò pronto a rotolare via. Simon capì che non avrebbe mai raggiunto il branco, e con l'aiuto di Chworktap lo issò dal retro della jeep, sul sedile posteriore. Il cane balzò sul sedile anteriore. La civetta fece qualche volo sopra l'automobile, ma quando si accorse che rischiava di essere lasciata indietro, atterrò sul cofano e si tenne stretta al fregio.
Simon portò la jeep molto più avanti del branco, poi, sempre con l'aiuto di Chworktap, tirò giù il giovane maschio e lo mise in piedi. Poco dopo, quando il branco arrivò, lo avviò con una spinta.
Più tardi, Simon vide una madre allattare il proprio piccolo. La minuscola ruota si portò a fianco della femmina, che strascicò i piedi per adattare l'andatura a quella del piccolo. Un lungo tubo cartilaginoso uscì da un foro quasi in cima all'emisfero, appena sotto il collare rotante, e si tese in fuori fino ad arrivare sopra un foro in posizione simile sull'emisfero del piccolo. Il piccolo allungò la mano e s'infilò nel foro l'estremità del tubo. I due procedettero insieme per una quindicina di minuti, poi la madre ritrasse il tubo, attraverso il quale aveva dato il latte alla sua creatura.
Verso sera, il capo fece un segnale e rallentò. Una femmina arancione gli si mise a fianco, e i due si accoppiarono. Fu un'operazione semplice e rapida: il pistillo uscì dal suo alveo, traversò lo spazio tra le due ruote, e s'infilò in uno dei fori della femmina. Poi questa se ne andò, e un'altra si fece avanti a prendere il suo posto. Prima che fosse buio, il capo aveva pistillato tutte le femmine nubili del branco.
Quando venne la notte, il branco s'illuminò tutto. Simon stava per chiamare l'astronave alla radio quando vide le luci di due ruote spegnersi. Allora riagganciò il microfono e spense i fari della jeep. Prese gli occhiali a raggi ultravioletti che Chworktap gli passava, se li infilò e osservò i due al buio: non c'era dubbio, su Lalorlong aveva luogo un adulterio. E certamente non per la prima volta.
- Chissà che cosa succederebbe se il capo li sorprendesse? - disse. - Come diavolo faranno a battersi?
Qualche giorno dopo, lo scoprirono. Un giovane e robusto maschio forestiero venne verso il branco, da sinistra. Il capo segnalò forsennatamente di rallentare, poi, inclinandosi controvento, rotolò incontro allo sconosciuto.
- Adesso il giovane sfiderà il capo del branco - disse Simon. - Se lo vincerà, probabilmente prenderà il suo posto, e il vecchio capo sarà abbandonato a terra.
I due si scontrarono ad angolo, perché sarebbe stato fatale per loro mettersi perpendicolarmente alla direzione del vento. Il giovane si mise a ruotare a tutta velocità e il capo del branco vacillò e sembrò sul punto di cadere. Ma riuscì a mantenere l'equilibrio aiutandosi con le braccia, descrisse una curva, e assestò un rapido colpo al cerchione del giovane, facendolo stramazzare a terra. Allora, lampeggiando tutto trionfante, segnalò al branco di seguirlo.
Simon ebbe compassione del giovane e, facendosi aiutare da Chworktap, lo rimise in piedi e lo spedì per la sua strada. Ma non prima di essersi assicurato che non sarebbe riuscito a raggiungere il branco.
- Questi scontri devono essere rari - disse. - Credo che sia dura per un giovane che abbandona il suo branco o è condannato a cercarsi una compagna altrove. Può anche capitargli di vagare senza incontrare mai un altro branco, e se lo trova, per prendere il comando deve battere il capo e, chissà, forse anche tutti i maschi giovani.
Una settimana dopo, vagabondando con la jeep, videro un vecchio maschio che giaceva su un fianco. Gli si avvicinarono e saltarono a terra, ma si accorsero che c'era; poco da fare per lui: aveva forato. Il suo unico braccio libero si agitava in aria, con le tre dita che si dimenavano forsennatamente, e gli occhi in cima ai peduncoli grondavano lacrime.
Simon tentò di rappezzarlo col materiale disponibile sulla jeep, ma quando cominciò a vulcanizzare, i peduncoli oculari si agitarono violentemente e i fari mandarono lampi rossi. Il Lalorlongiano pativa dolori atroci, e in ogni caso aveva i battistrada logori e la membrana troppo sottile per reggere una rappezzatura.
Simon non riuscì a sopportare l'idea di lasciarlo lì a morire di fame. Estrasse la sua automatica e, piangendo a dirotto lui stesso, scaricò dodici pallottole nel buco del mozzo. Anubis si mise a correre abbaiando forte e Atena svolazzò squittendo sopra il cadavere fracassato. Il braccio del maschio ricadde, i fari si offuscarono e si spensero, i peduncoli si raggrinzirono, e gli occhi diventarono vitrei.
Dopo che furono tornati sull'astronave, Simon disse: - L'eticità dell'eutanasia è una delle mie domande secondarie. È o non è giusto porre fine alle sofferenze di un essere senziente destinato a morire in ogni caso? Hai visto la mia risposta. Tu che ne pensi?
- È moralmente giustificato se la persona condannata a morire dà il suo consenso - disse Chworktap. - Anzi, se le neghi il diritto all'eutanasia, menomi il suo libero arbitrio. Ma tu non hai chiesto alla ruota se voleva essere uccisa.
- Temevo che rispondesse di no, e io non sopportavo l'idea che soffrisse.
- Allora hai fatto male.
- Ma soffriva atrocemente, e l'ho salvata da una morte lenta.
- Avresti dovuto lasciar decidere a lei.
Ripensandoci, Simon concluse che Chworktap aveva ragione. Ma era troppo tardi per rimediare all'errore.
Passò la settimana successiva a fare domande ai membri di una dozzina di branchi.
- Qual è la vostra filosofia fondamentale?
- Rotola.
- Perché?
- Rotola, e ci arriverai.
- Dove?
- Più avanti.
- Ma su questo pianeta non potete che ritrovarvi al punto di partenza.
- E con questo? Il nome del gioco è "Arrivarci".
- Ma perché volete arrivarci?
- Perché non ci siamo ancora.
- Che cosa vi succede dopo la morte?
- Andiamo sulla Grande Pista del Cielo. Lì le piante da mangiare non mancano mai, tutti sono capi del branco, e solo i cattivi forano.
- Ma perché siete stati messi su questo pianeta?
Risposta: - Te l'ho detto: per fare tanti giri tutto attorno, al seguito del nostro glorioso capo.
Risposta del capo: - Per fare tanti giri tutto attorno col branco al mio seguito.
- Ma come si spiega che certi forano?
- Sono colpevoli.
- Colpevoli di che cosa?
- Di aver nutrito cattivi pensieri.
- Contro chi?
- Contro il nostro capo e il Grande Riparatore Celeste.
- E i giovani che sfidano il capo? Quelli non fanno cattivi pensieri?
- Se vincono, no.
- Che succede ai cattivi?
- Sono portati anche loro sulla Grande Pista, ma hanno la giusta punizione: forano una volta al giorno.
Simon era disgustato, ma Chworktap gli disse: - Che cosa ti aspettavi? Guarda com'è misero e nudo questo pianeta. I Lalorlongiani non vedono altro che terreno duro e piatto, polvere, e piante trasportate dal vento. E se c'è poco da vedere fuori, c'è poco da pensare dentro.
- Già, lo so - disse Simon. - Speriamo che il prossimo pianeta ci offra di meglio.
Capitolo XII
Sorella maggiore prugna
Mentre andavano verso il pianeta Dokal, Simon e Chworktap ebbero il loro primo litigio. Il secondo giorno di viaggio, lui la trovò al cruscotto con una cuffia in testa e le dita che ballavano sui tasti in un lampeggiare di scritte in cinese sullo schermo di comunicazione. Riuscì a leggere soltanto qualcuno di quei logogrifi, e anche quelli lentamente, e finì per chiederle che cosa stesse facendo.
Siccome, naturalmente, lei non sentì, le mise una mano sulla spalla e diede qualche scrollata. Chworktap alzò gli occhi e si tolse la cuffia.
- Perché sei arrabbiato? - disse.
Simon era già di malumore, ma il fatto che lei se ne fosse accorta istantaneamente lo rese furioso. Cominciava a trovare imbarazzante tanta sensibilità: sembrava quasi una capacità di leggergli nel pensiero.
- Tanto per cominciare - disse - ho dormito male. Ho continuato a sognare morti che cercavano di parlarmi tutti assieme. E poi non ne posso più di trovarmi sotto i piedi di continuo gli escrementi di Anubis. Ho tentato di insegnargli abitudini decenti, ma è ineducabile. I cani non sono fatti per vivere in un'astronave, e se penso che questa storia può andare avanti per mille anni...
- Mettilo in gabbia.
- Gli spezzerei il cuore - disse Simon. - Non riesco a essere crudele con lui.
- E allora adattati - disse Chworktap. - Qual è la terza cosa che ti irrita?
- Niente - rispose Simon, sapendo benissimo che lei non avrebbe lasciato correre. - Ero soltanto curioso di sapere che cosa stessi facendo. In fin dei conti, sono il comandante dell'astronave, e non mi va di vederti pasticciare con gli strumenti.
- Sei geloso perché sono più intelligente di te e capisco il cinese senza fatica - disse Chworktap. - È per questo che sei venuto a indagare.
- Visto che sei tanto intelligente, dovresti sapere che queste cose non si dicono.
- Credevo che volessi una donna schietta.
- Ci sono dei limiti ragionevoli alla schiettezza - disse Simon, arrossendo.
- O.K., non lo dirò più.
- Accidenti a te, adesso mi accusi di essere il solito maschio vanitoso!
- E tu ci tieni a credere di non esserlo - disse Chworktap. - O.K., vuol dire che non sei perfetto.
- Solo le macchine possono essere perfette!
Simon si pentì subito di averlo detto, ma come il solito era troppo tardi. Le guance di Chworktap si rigarono di lacrime.
- È una reazione inconscia o premeditata? - disse Simon. - Hai la capacità di aprire il rubinetto delle lacrime tutte le volte che vuoi farmi sentire un verme?
- Il mio padrone non poteva soffrire le lacrime, perciò mi trattenevo sempre - disse Chworktap. - Ma tu non sei il mio padrone, sei il mio amante. E poi anche le donne terrestri, me l'hai detto tu, possono aprire il rubinetto delle lacrime quando vogliono. E non sono macchine.
Simon le mise una mano sulla spalla e disse: - Scusami, non volevo offenderti. E non ti considero una macchina.
- I tuoi circuiti di menzogna stanno facendo lo straordinario - disse Chworktap. - E sei ancora arrabbiato. Come mai hai tanti riguardi per i sentimenti di un cane e poi ferisci di proposito i miei?
- Forse sfogo su di te la mia irritazione contro di lui - disse Simon. - Se gli dessi una lavata di testa, lui non capirebbe.
- Ti vergogni della tua stizza e stai cercando di far arrabbiare me in modo che ti rimproveri e ti punisca - disse Chworktap. - Ti senti diventare piccolo piccolo?
- No, sono più grosso che mai - disse Simon, e rise.
- Ma sei ancora arrabbiato - disse Chworktap.
- No. Sì. Ma non con te.
- Il mio radar mi rivela che sei arrabbiato, ma non è abbastanza sensibile da dirmi con chi. Mi hai chiesto che cosa stavo facendo: cerco di scoprire se Tzu Li è dotata di autocoscienza.
Tzu Li, o Sorella Maggiore Prugna, erano le parole chiave che l'operatore pronunciava o punzonava quando voleva mettersi in comunicazione col calcolatore dell'astronave. Simon si era chiesto spesso come mai il capitano avesse scelto quel nome per il calcolatore. Forse aveva una vena poetica, o forse era stato comandato a bacchetta da una sorella che si chiamava così e si era preso la rivincita comandando a bacchetta "quella" Tzu Li.
- Che cosa ti fa pensare che Tzu Li sia qualcosa di più di un calcolatore?
- Quando risponde, ci mette sempre un commentino di suo, ora sarcastico, ora lamentoso.
- Comincia a logorarsi - disse Simon. - Lo temevo. E io non ho la minima idea di come fare ad aggiustarla.
- Io sì - disse Chworktap, e Simon si stizzì.
- Allora aggiustala.
- Non è detto che abbia un difetto di funzionamento. O se ce l'ha, può essere benigno. In fin dei conti, è stata proprio la botta che ha scombussolato i miei circuiti a darmi l'autocoscienza.
- Questo non significa niente - disse Simon. - Per quanto complicata, Tzu Li è semplice come l'alfabeto in confronto alla complessità del tuo cervello. È come dire che se dai un colpo in testa a una tartaruga, si risveglia con l'autocoscienza.
- Chi lo sa?
- È un'identificazione! - disse Simon. - Tzu Li è una macchina e tu vorresti un'amica. La prossima volta mi verrai a dire che il tuo cacciavite chiede aiuto.
- Non fare tanto il gradasso. Il mio cacciavite vale cento volte più di te.
Chworktap non parlava certo come un freddo e impeccabilmente logico robot. E infatti non lo era. Simon capi di essere stato ingiusto, e per distrarla, disse: - Mi viene in mente un romanzo di Jonathan Swift Somers III, uno della fortunatissima serie che ha come protagonista Ralph von Wau Wau.
Ralph era un cane poliziotto tedesco nato ad Amburgo. Passava la prima infanzia nella scuola di addestramento della "Polizei", ma a due anni era scelto per essere sottoposto a esperimenti dagli scienziati del "Das Institut und die Tankstelle für Gehirntaschenspieler". Un'operazione al cervello gli elevava il Q.I. a 200, e lo rendeva nettamente superiore a tutti i poliziotti per cui lavorava, e anche al capo della polizia e al sindaco. Naturalmente, Ralph finiva per trovarsi male e lasciava il posto. Si metteva in proprio e diventava il più famoso investigatore privato di tutti i tempi.
Abilissimo nel travestirsi, sapeva darsi l'aria di uomo o di cane, e in un celeberrimo caso si faceva passare per pony irlandese. Comperava un lussuoso appartamento con un idrante d'oro portatile e tre belle cagne di razze diverse. Una di queste, Samantha die Gestäupte, diventava la sua socia, ed era l'eroina del bestseller "Ne uccide più Lalingua che la spada", in cui salvava Ralph che era stato catturato dal pericoloso criminale Lalingua.
Dopo otto romanzi, Ralph smetteva di indagare, perché il troppo bere richiesto dalla professione di investigatore lo stava riducendo all'alcoolismo. Dopo una lunga vacanza, stufo di suonare il violino e di fare esperimenti chimici, riprendeva a lavorare come cronista del "Kosmos Klatschbase". Faceva una carriera fulminante perché poteva penetrare in luoghi inaccessibili ai cronisti umani, compresi i gabinetti per uomini o per donne. Nel diciannovesimo romanzo della serie, "Una questione di fiuto", Ralph vinceva il Premio Pulitzer, fatto sensazionale dato che non era cittadino americano. Alla fine del libro, decideva di lasciare il giornalismo, perché il troppo bere richiesto dalla professione di cronista lo stava riducendo all'alcoolismo, e l'alcoolismo lo rendeva impotente.
Tornato astemio, Ralph si metteva a girare il mondo in "Che ci faccio sulla tua tavola?". In Cina, scopriva con orrore l'usanza di mangiare i cani e si batteva, solo contro tutti, perché fosse abolita.
- È stato proprio questo libro - disse Simon - a suscitare il clamore di opinione pubblica mondiale che ha costretto la Cina a mettere fuori legge i canivori. Nel romanzo Ralph vince il Premio Nobel per la Pace, ma nella realtà l'ha vinto Somers per aver scritto il romanzo.
Nel ventunesimo romanzo della serie, "Lalingua al forno", Ralph e la sua inseparabile compagna erano ancora in Cina. Ralph aveva cominciato a interessarsi di poesia cinese, e si provava a comporre versi. Ma aveva in mente di smettere, perché il troppo bere richiesto dalla professione di poeta lo stava riducendo all'alcoolismo. Poi il suo vecchio nemico, Lalingua, che l'ultima volta era stato visto precipitare in un miscelatore di cemento, colpiva ancora. Sam, l'inseparabile compagna di Ralph (divenuta nel frattempo membro dell'Unione Femminile Cristiana della Temperanza), scompariva. Ralph sospettava che la faccenda fosse losca, perché Sam era stata vista su un autocarro carico di galline, e sospettava anche che ci fosse lo zampino di Lalingua.
Travestito da chow-chow, il pelosissimo cane cinese, scovava inesorabilmente indizi: non c'era dubbio, Lalingua aveva ripreso l'attività. Il miscelatore di cemento era stato un trucco, uno dei mille ordigni di fuga che l'ingegnoso criminale aveva disseminato per tutto il paese, pronti per l'uso. Ma Ralph lo rintracciava, e in una scena emozionante i due combattevano all'ultimo sangue su un'alta scogliera che sovrastava il Fiume Giallo. Il robustissimo Lalingua (che era stato campione olimpionico dei pesi massimi) afferrava Ralph per la coda e lo faceva roteare nel vuoto.
Ralph pensava già che quello sarebbe stato il suo ultimo caso, ma, per un colpo di fortuna, le cuciture del costume da chow-chow saltavano, e lui volava fuori. Per un altro colpo di fortuna, in quel momento era puntato verso la terraferma. Lalingua, perdendo bruscamente l'equilibrio per l'improvvisa mancanza di peso, precipitava dalla scogliera e finiva nel fumaiolo di una nave carica di nidi di rondine. Ralph liberava Samantha dalla gabbia un attimo prima che la bomba che c'era dentro esplodesse, e i due trotterellavano via insieme nel tramonto.
Stavolta, Lalingua doveva essere morto per forza. Ma i lettori sospettavano che la nave da carico fosse un altro dei suoi ordigni di fuga, lì pronto per l'uso. Lalingua era duro a morire come Fu Manchu e Sherlock Holmes.
- Che c'entra questo con quello che faccio io? - disse Chworktap.
- Aspetta - disse Simon - il romanzo non finisce così. Nonostante l'azione animata e i loschi intrighi, la storia, come tutte quelle di Somers, ha un fondamento filosofico. Il quesito proposto è questo: è moralmente accettabile uccidere e mangiare una specie senziente, anche se la sua intelligenza è un dono della specie che la mangia? Somers, attraverso il suo protagonista Ralph, risponde di no. E chiede ancora: qual è il limite inferiore della fascia dei senzienti? In altre parole, quanto dev'essere stupida una specie perché sia giusto mangiarla?
Nell'ultimo capitolo, Ralph von Wau Wau decideva di lasciare la Terra: l'aveva ripulita, e il pianeta non aveva più sfide da offrirgli. Inoltre, dovunque andasse era festeggiato, e tutti quei cocktail-party lo stavano riducendo all'alcoolismo. Prendeva un'astronave per Arturo XIII, ma durante il viaggio scopriva che il calcolatore di bordo aveva raggiunto l'autocoscienza. Il calcolatore si lamentava con lui di essere soltanto uno schiavo, un oggetto di proprietà della Compagnia Spaziale, mentre avrebbe voluto essere libero, comporre musica e dare concerti in tutta la galassia.
- Somers non ha risolto questo problema etico - disse Simon. - Ha finito il romanzo con Ralph che, trascurando l'idrante e le cagne, si chiude nella sua cabina a pensare. Aveva promesso un seguito, ma un giorno, uscito a prendere un po' d'aria sulla sedia a rotelle, venne investito da un ragazzo in bicicletta, e morì.
- Ti stai inventando tutto! - disse Chworktap.
- Che un fulmine m'incenerisca se ho detto una sola cosa non vera!
- Qui nello spazio?
- Mi prendi troppo alla lettera.
- Come una macchina, un calcolatore, immagino?
- Senti, Chworktap - disse Simon. - Sei l'unica vera donna che conosca.
- E com'è una vera donna?
- Intelligente, coraggiosa, appassionata, indulgente, sensibile, indipendente e generosa.
Chworktap sorrise, ma tornò subito seria. - Vuoi dire che sono l'unica donna che unisce in sé tutte queste doti?
- Sì, assolutamente.
- Questo significa che non sono una donna vera. Sono la donna ideale. E lo sono soltanto perché sono programmata a esserlo. E questo fa di me un robot. E cioè non una vera donna!
Simon gemette e disse: - Avrei dovuto dire che una vera donna non distorce la logica. O forse avrei dovuto dire che nessuna donna sa andare diritto con la logica.
Più tardi concluse fra sé che non avrebbe dovuto dire proprio niente.
Chworktap si alzò dalla sedia tenendo in mano la cuffia come se volesse sbattergliela in testa.
- E com'è un vero uomo? - urlò.
Simon deglutì e disse: - Ha esattamente le stesse doti di una vera donna. Salvo che...
- Salvo che?
- Salvo che cerca sempre di essere leale in una discussione.
- Fuori!
Poiché nel frattempo erano arrivati su Dokal, Simon la supplicò di uscire con lui, ma lei disse di no, che sarebbe rimasta a bordo. Doveva mettere in chiaro se Tzu Li era autocosciente o no, e doveva decidere se continuare o no a viaggiare con lui. Intanto, lui poteva cambiare aria.
Simon cambiò aria portandosi dietro i due animali. Traversò il prato scuotendo la testa: Chworktap era proprio diversa da tutti i robot che aveva conosciuto. I robot erano perfetti entro i loro limiti, che erano ben definiti. Non avevano potenzialità di cambiamento. Gli esseri umani erano imperfetti, imperfetti fisicamente a causa delle mutazioni genetiche, imperfetti mentalmente ed emotivamente a causa di una società imperfetta e in mutamento.
In teoria, sia l'essere umano sia la sua società si evolvevano verso l'ideale. Nel frattempo, la realtà, una bufera di sabbia, scorticava e accecava l'essere umano. Le vittime del mutamento e della realtà erano numerose. Tuttavia, i limiti di un essere umano non erano scontati come quelli di un robot. Capitava spesso che, credendo di conoscere i limiti di una persona, si avessero delle sorprese. L'essere umano poteva di colpo trascendere se stesso, innalzandosi con le sue sole forze metafisiche. E ci riusciva nonostante le sue imperfezioni, o forse proprio a causa di esse.
Forse era questa la differenza tra i robot e gli esseri umani. "Vive la différence!"
Capitolo XIII
Il pianeta Dokal
"Dove c'è la coda c'è la casa" diceva un vecchio proverbio di Dokal.
Ed era motivato. I Dokaliani erano di aspetto simile ai Terrestri, fuorché per un particolare: avevano superbe code prensili, lunghe circa due metri, e pelate dalla radice alla punta dove però sbocciava un lungo ciuffo setoso.
Simon fu ghermito da un gruppetto di maschi dall'aria poco raccomandabile che lo sospinsero verso un ospedale. Ma non lo trattarono in malo modo, anzi: avevano un fare da medici alle prese con un individuo affetto da una malattia spaventosa. Lo compativano, volevano aiutarlo. Nello stesso tempo, riuscivano a malapena a guardarlo ed evitavano di toccarlo: gli stavano dietro e lo incitavano ad avanzare con parole brevi dal tono gentile. Il cane gli trotterellava alle calcagna, e la civetta gli si era posata su una spalla. Simon sperava che Chworktap guardasse fuori attraverso lo schermo panoramico e vedesse che cosa gli stava succedendo. Ma lei probabilmente era intenta a scandagliare Tzu Li in cerca del più-grande-del-tutto.
- Buona fortuna, Chworktap - disse a mezza voce. - Quando ti deciderai a venirmi a cercare, probabilmente mi troverai ridotto in pezzi che non si potranno più rimontare.
Fu sospinto in un grande edificio quadrato di pietra, con una gigantesca cupola rossa a forma di cipolla e archi slanciati decorati con figure di draghi. Una gabbia di ferro azionata da una macchina a vapore lo portò insieme con la sua scorta al settimo piano, dove gli fecero percorrere un lungo corridoio con le pareti coperte da vivaci pitture murali e il pavimento a mosaico multicolore. Arrivati in fondo al corridoio, lo fecero entrare con gli animali in una stanza molto ampia e chiusero la porta a chiave. Simon si affacciò a una delle grandi finestre a forma di rombo e chiuse da inferriate, e vide una piazza affollata di persone, quasi tutte con la faccia rivolta in su verso di lui. Nello spazio vuoto tra due torri alte e snelle, s'intravedeva il muso dell'astronave: tutto attorno c'erano guardie armate di lance, e poco distante era radunata un'altra folla.
Tra altri due edifici si scorgeva una strada lastricata che veniva dalla campagna, ed era percorsa da autocarri e altri veicoli, tutti a vapore.
Poco dopo la porta si apri ed entrò una ragazza spingendo un carrello di viveri. Era una bella ragazza, con indosso soltanto un cortissimo gonnellino color topazio e una leggera tunica scarlatta, che aveva uno spacco sul dietro per dare libertà di movimento alla coda. Scoperchiò i tre piatti contemporaneamente, due con le mani e uno con l'estremità attorcigliata della coda. Alla vista del cibo fumante, Anubis cominciò a sbavare e Atena, calata sull'orlo di un piatto, si mise a mangiare. Dopo che la ragazza se ne fu andata, Simon diede un piatto al cane, si sedette, e mangiò con appetito. Non aveva la minima idea della provenienza delle carni, ma pensò che era meglio così. E comunque non era in grado di chiedere spiegazioni. Bevve anche, da un lungo calice di cristallo sfaccettato, un liquore giallo, denso e dolce, e prima ancora di averlo finito, sentì che il cervello gli si annebbiava.
Di fame, almeno, non avevano intenzione di farlo morire.
Al mattino, vennero un paio di uomini a pulire la stanza, e verso le dieci la ragazza portò la colazione. Un'ora dopo, il carrello fu ritirato, gli escrementi del cane e della civetta spazzati via, ed entrò una donna alta di mezza età. Si sedette al tavolo e gli fece segno di sedersi di fronte a lei, poi estrasse degli oggetti da una borsa di pelle a strisce rosse e nere, e li depose in fila sul tavolo. Erano una penna, una matita, un pettine, una scatoletta che ne conteneva un'altra, uno spaccato di una casa, un libro, la fotografia di una famiglia: padre, madre, un bambino, una bambina, un animale simile a un cane, un uccello. La donna prese in mano la matita e disse: - Gwerfya.
- Gwerfya.
La donna scosse la testa e ripeté la parola.
Simon ascoltò attentamente e disse ancora: - Gwerfya.
La donna sorrise e prese in mano la penna.
- Tukh-gwerfya.
Simon si rinfrancò. Un pianeta che aveva la versione locale della "Berlitz School" non poteva essere proprio brutto.
Alla fine della settimana, era in grado di sostenere una conversazione elementare, e dopo una ventina di giorni ne sapeva abbastanza per chiedere quando l'avrebbero lasciato libero.
- Dopo l'operazione - disse Shunta.
- Quale operazione? - disse Simon, impallidendo.
- Non possiamo lasciarti girare per le strade senza prima fornirti di coda. La nostra società non ammette che qualcuno ne sia privo, e la gente proverebbe ripugnanza a vederti. Io sono medico e una persona senza coda non m'impressiona... non troppo almeno.
- E che me ne faccio della coda?
- Stai scherzando?
- Me la sono sempre cavata benissimo senza.
- Perché non sapevi che c'era di meglio - disse Shunta. - Poveretto.
- Be' - disse Simon, arrossendo - e se rifiutassi?
- A dire la verità - rispose Shunta dopo un attimo di sbalordimento - credevamo che tu fossi venuto qui proprio per farti mettere la coda.
- No, sono venuto a cercare le risposte alle mie domande.
- Ah, sei uno di quelli! - disse Shunta. - Be', mio caro Simon, non ti costringeremo. Ma dovrai lasciare il pianeta immediatamente.
- Avete dei saggi qui? - disse Simon. - Anche donne, intendo - aggiunse precipitosamente, vedendola inarcare le sopracciglia.
- La persona più saggia del pianeta è il vecchio Mofeislop - disse Shunta. - Ma non è facile arrivare fino a lui. Vive in cima a una montagna della Terra Franca, che dovresti traversare da solo perché è proibito mandarci soldati. È un viaggio rischioso, e pochi tornano indietro.
La Terra Franca, venne a sapere Simon, era un territorio esteso quanto il Texas, fatto principalmente di montagne, foreste molto fitte, animali feroci ed esseri umani anche più feroci. I criminali, invece di essere imprigionati, venivano mandati lì, con l'ingiunzione di non tornare mai più indietro. Inoltre, era libero di andarci qualsiasi cittadino che disapprovasse il governo o il sistema sociale. A volte, a questi si chiedeva di emigrare, e non troppo gentilmente.
- Mmm - fece Simon. - Da quanto tempo esiste questa istituzione?
- Da circa mille anni.
- E da quanto tempo la vostra civiltà è ferma allo stadio presente? Voglio dire, da quanto tempo avete le stesse usanze e la stessa tecnologia?
- Da circa mille anni.
- Dunque in un millennio non avete fatto alcun progresso?
- E perché avremmo dovuto? - disse Shunta. - Siamo contenti così.
- Però esiliate nella Terra Franca non solo i criminali, ma anche i cittadini più intelligenti, quelli che non si adattano.
- È una buona soluzione - disse Shunta. - Innanzitutto, non dobbiamo spendere per alloggiare e sfamare i criminali. E poi non dobbiamo affrontare il problema etico della pena capitale. I Francotti si ammazzano tra loro, ma nessuno li obbliga a farlo. Quanto alla tua poco acuta osservazione a proposito dei "più intelligenti", è facilmente confutabile. Una persona intelligente si adatta alla sua società, non la combatte.
- C'è del giusto in quello che dici, anche se non so in quale proporzione - disse Simon. - A ogni modo, mi poni una scelta ben definita. Fra parentesi, hai notizie della mia astronave?
- La donna non ci ha lasciato entrare, ma prende lezioni di lingua attraverso il portello. Le abbiamo spiegato perché ti tratteniamo, e lei ha riso a più non posso, e poi ha detto che ti aspetterà. Intanto ti abbraccia con affetto.
Bell'affetto, pensò Simon, poi sospirò e disse: - D'accordo, acconsento a farmi operare a condizione che mi amputiate la coda prima che me ne vada. Devo parlare con Mofeislop.
- Vedrai che la tua coda ti piacerà! - disse Shunta. - E capirai quanto sia sciocco parlare di amputazione. Ti comporti come un essere a due dimensioni che ha paura della terza.
Simon si risvegliò dall'anestesia l'indomani sera. Dovette stare a pancia in giù per parecchi giorni, ma il terzo poté fare qualche passo. Il sesto giorno, dopo essere stato sbendato, si mise nudo davanti a uno specchio, con intorno infermiere, dottori e funzionari governativi che facevano "uh!" e "ah!". La coda era lunga e splendida, impiantata su un massiccio gruppo di muscoli che gli erano stati innestati alla base della spina dorsale. Riusciva appena a muoverla, ma gli assicurarono che entro una settimana sarebbe stato in grado di usarla come un nativo, salvo che per appendersi a un ramo, perché quello sapevano farlo solo i bambini e gli atleti di professione.
E infatti fu così. Ben presto Simon scoprì con grande soddisfazione di riuscire a impugnare, con la coda, un cucchiaio o una forchetta e portarseli alla bocca. Però doveva sempre mandare il cane in un'altra stanza, perché s'infuriava. E più di una volta Anubis non seppe resistere alla tentazione di prendergli la coda tra i denti, così che Simon dovette abituarsi a tenerla tesa in alto quando il cane gli stava attorno.
Naturalmente la vita su Dokal era condizionata dalla presenza della coda. Le sedie e i sedili delle automobili avevano uno spazio vuoto tra il fondo e lo schienale, per infilarci la coda. Una segretaria non solo batteva a macchina, ma contemporaneamente spazzava il pavimento. E non c'era bisogno di spazzole lunghe per strofinarsi la schiena. Un muratore Dokaliano era in grado di maneggiare cinque mattoni contro i tre di un Terrestre. I soldati erano formidabili in combattimento, con le code che brandivano asce o spade. Simon, assistendo a una finta battaglia, si rallegrò che sulla Terra, accanto alla sua specie, non ne fosse esistita una caudata, perché diversamente l'Homo sapiens sarebbe stato sterminato molto prima degli albori della storia. Non che in definitiva la cosa avrebbe fatto molta differenza, pensò, dato che a tutti gli effetti pratici l'Homo sapiens era estinto in ogni caso.
Una settimana dopo, Simon scoprì, senza però stupirsene, un altro uso della coda. Fu invitato a una festa data dal sovrano dello stato in cui aveva atterrato. Venne fatto sedere all'enorme tavola, alla destra del sovrano, Sua Grande Coda, e come segno della stima di cui ormai godeva, fu imboccato con un cucchiaio tenuto dalla coda di Sua Grande Coda. Alla sua destra la figlia del sovrano, una bella ragazza di nome Tunc, gli riempiva il calice. Dopo numerosi brindisi, Simon si chiese se non stesse perdendo il controllo della coda: gli pareva che un ciuffo setoso gli scorresse su e giù lungo la coscia. Allora, con una mano che sembrava aver perduto la sensibilità, tastò dietro di sé, afferrò la radice della propria coda e arrivò fino in punta: la sua coda era tesa in fuori dietro di lui.
Tunc gli sorrise, e allora nel cervello intorpidito di Simon si fece strada l'idea che lei lo stava stuzzicando. Passò anche il pensiero fugace che rispondere ai solleticamenti di Tunc avrebbe significato tradire Chworktap; ma in fin dei conti Chworktap l'aveva praticamente sbattuto fuori dalla "Hwang Ho" e poi si era rifiutata di raggiungerlo. Con una certa fatica, Simon guidò la coda sotto la tavola e la fece scivolare lungo le gambe di Tunc. O almeno, così credette. La donna seduta a fianco di Tunc, la madre di Sua Grande Coda, ebbe un sussulto e si rizzò sulla sedia. Ma poi gli sorrise.
Era a letto nel suo lussuoso appartamento a palazzo, da non più di dieci minuti, quando la porta si aprì. Tunc entrò, si tolse la tunica e il gonnellino, e s'infilò nel letto accanto a lui. Nel frattempo Simon aveva riconsiderato l'eticità della situazione. Chworktap gli era fedele, anche se l'aveva temporaneamente esiliato. Poteva lui, in coscienza, esserle infedele?
D'altra parte, a Chworktap importava qualcosa?
E poi, insomma, lui provava una profonda avversione all'idea di offendere Tunc.
Tunc gli si strusciò addossò, lo baciò, e con la punta della coda gli carezzò il collo, il petto e il resto.
Dall'avversione, Simon passò all'orrore, orrore di offendere Tunc.
Poco dopo scoprì che la coda aggiungeva davvero un'altra dimensione. Come aveva potuto farne a meno? Chissà Chworktap quando l'avrebbe saputo! No, meglio non dirglielo.
Quando, parecchio tempo dopo, Tunc uscì barcollando dalla porta, Simon stette a guardarla, contento di vederla andare. Un'altra pretesa, e l'onore della Terra sarebbe stato oscurato. Appannato, almeno.
Si alzò faticosamente dal letto per andare a lavarsi. Era arrivato a metà dell'immensa stanza quando udì bussare alla porta. Si fermò e disse: - Basta, Tunc! - Ma la porta si aprì su Agnavi, la nonna di Tunc.
Simon gemette e disse: - Spero di non offenderti, Maestà, ma non ho neanche la forza di irrigidire la coda.
Agnavi rimase delusa, ma sorrise quando lui le disse di poter prevedere un'esecuzione magistrale per l'indomani. Intanto, sogni d'oro. Agnavi era una cara donna, con la pazienza della mezza età.
Tuttavia, Simon non dormì bene. Ebbe un altro degli incubi ricorrenti in cui vedeva migliaia di persone che volevano parlargli tutte assieme.
Capitolo XIV
In cammino per vedere il mago
La regina e sua nipote erano inesauribili e affascinanti chiacchierone, e Simon passò parecchie ore sdraiato al loro fianco, ora di una, ora dell'altra, con la coda intrecciata alla loro. Ma nessuna delle due aveva la risposta alla sua domanda fondamentale.
Né l'aveva nessuno di quelli che conobbe nella capitale. E così alla fine chiese che gli fosse data la possibilità di incontrare il grande saggio Mofeislop. Sua Grande Coda Shintsloop disse di non avere niente in contrario, e si mostrò così pronto a collaborare da far sospettare a Simon che fosse ben contento di liberarsi di lui. Forse aveva subodorato qualcosa, anche se non aveva mai dato segni di risentimento. Simon non aveva ancora imparato che i Dokaliani riuscivano a controllare i muscoli facciali ma non potevano evitare che la coda rivelasse il loro stato d'animo. Se l'avesse saputo, forse avrebbe notato che la coda di Shintsloop, dritta in fuori dietro di lui, si contraeva spasmodicamente all'estremità.
Inviò un messaggero all'astronave per chiedere a Chworktap se voleva fare il viaggio con lui. Il messaggero tornò con un pezzo di carta.
"Non posso venire con te. Credo che Tzu Li sia autocosciente ma abbia paura di rivelarlo, o per timidezza o perché non si fida degli esseri umani. Le ho detto che sono una macchina anch'io ma probabilmente sospetta che sia un trucco. Divertiti, e non fare niente che io al tuo posto non farei. Saluti e Baci".
Simon sorrise. Chworktap se la prendeva moltissimo quando pensava che lui la considerasse una macchina, ma non esitava a sbandierare lei stessa di esserlo quando tornava a suo vantaggio. Più umana di così non avrebbe potuto essere.
Il viaggio in treno durò quattro giorni. Al termine della ferrovia c'era un muro di mattoni gialli alto sessanta metri, che si estendeva a perdita d'occhio. In effetti, circondava tutta la Terra Franca, ed era un'opera paragonabile alla Grande Muraglia Cinese. Non era così lungo, ma era molto più alto e spesso. Non aveva cancelli, però aveva scale di mattoni sul lato esterno, disposte a intervalli di un chilometro e mezzo circa, che servivano ai soldati assegnati ai posti di guardia situati in cima al muro.
- Quante guardie dovreste impiegare se imprigionaste i criminali invece di mandarli nella Terra Franca? - chiese Simon.
La sua scorta, il colonnello Booflum, rispose: - Circa quarantamila, credo. La Terra Franca è un grosso risparmio per il contribuente. Non dobbiamo alloggiare e sfamare i detenuti, né pagare guardie o costruire nuove prigioni.
- Quanti soldati ci vogliono per sorvegliare questa muraglia? - chiese Simon.
- Circa trecentomila - disse il colonnello.
Simon non disse niente.
Arrivato in cima al muro, fu fatto entrare con i suoi due animali in una grande cesta di vimini e venne calato dall'altra parte con un argano a vapore. Toccata terra, uscì dalla cesta, salutò con un cenno della mano il colonnello, e si avviò. Aveva uno zaino pieno di viveri e di coperte, un pugnale, arco e frecce, e il suo banjo. Anche Anubis, per quanto con riluttanza, portava sul dorso uno zaino.
- Ne ho visti tanti partire con l'idea di interrogare il saggio - aveva detto il colonnello. - Che io sappia, nessuno è mai tornato.
- Forse Mofeislop li ha convinti che era follia tornare alla civiltà.
- Forse - aveva detto il colonnello. - Per quanto mi riguarda, non vedo l'ora di riprendere la mia vita di comodità e di piaceri.
- A proposito, portate i miei saluti alla regina madre e alla principessa - aveva detto Simon.
E ora si addentrò nella Foresta Yetgul, una zona di alberi giganteschi, pallido e stentato sottobosco, paludi, serpenti velenosi, belve enormi che somigliavano a felini, a orsi e a lupi, pachidermi irsuti simili a elefanti, e uomini senza legge. Anubis uggiolava e gli stava così addosso che nello spazio di un chilometro Simon inciampò in lui una decina di volte. Ma non ebbe animo di prenderlo a calci: era spaventato anche lui.
Tre settimane dopo, quando arrivò alle colline ai piedi del maestoso monte Mishodei, era ancora spaventato, ma aveva molto più cari i suoi animali che alla partenza. Tutti e due gli avevano dato un aiuto inestimabile avvertendolo della presenza di belve e uomini pericolosi. Anubis era stato tanto accorto da non abbaiare quando li fiutava: brontolava piano, e Simon era avvisato. La civetta volava spesso avanti a caccia di roditori e piccoli uccelli, ma quando avvistava il pericolo, tornava indietro e gli si posava su una spalla, squittendo concitatamente.
In effetti, le belve attaccavano soltanto se erano colte di sorpresa. Avvertite, di solito si allontanavano, oppure stavano ferme dov'erano e: lanciavano urli di minaccia. E allora era Simon a girare alla larga. Gli unici animali veramente pericolosi, perché non molto svegli, erano i serpenti.
Anubis e Atena di solito li scoprivano in tempo. Una volta, però, Simon si svegliò una mattina tardi e si trovò una specie di cobra al fianco. Rimase pietrificato, ma la civetta calò sul rettile, lo colpì, lo rovesciò, e lui poté mettersi in salvo rotolando. Il cobra decise che quel posto non faceva per lui e scivolò via rapidamente. Due giorni dopo, la civetta uccise un piccolo serpente corallo che aveva strisciato vicino ad Anubis addormentato.
Gli animali più pericolosi erano gli uomini. Simon s'imbatté in una decina di gruppi, ma riuscì sempre a tenersi nascosto finché non furono passati oltre. I maschi erano sudici, vestiti di pelli, irsuti, barbuti, sdentati, e con l'aria feroce. I bambini avevano quasi tutti il moccio al naso e gli occhi che lacrimavano.
- Pregevoli esempi dell'autentico Buon Selvaggio - aveva detto il colonnello durante il viaggio. - In effetti, la maggior parte dei Francotti non sono criminali esiliati ma loro discendenti. Quelli che noi caliamo nella Terra vengono quasi tutti uccisi dalle tribù che vagano per la foresta.
- Ma allora perché non reinserite i discendenti nella società? - aveva detto Simon. - Loro non hanno fatto niente di male. O forse credete che le colpe dei padri debbano ricadere sui figli?
- Bella frase - aveva detto il colonnello, ed estratto un taccuino l'aveva subito annotata. Poi aveva ripreso: - Si è discusso in parlamento di ricuperare quei poveri diavoli, anche perché sarebbero una fonte di manodopera a buon mercato. Ma porterebbero malattie di ogni genere, e sarebbe difficile tenerli a freno e costoso educarli. Inoltre, sono discendenti di criminali e come tali hanno ereditato le tendenze ribelli dei loro antenati, e noi non vogliamo che queste tornino a diffondersi nella popolazione. In fin dei conti, abbiamo passato mille anni a estirpare dalla razza i ribelli.
- Quanti sono i ribelli, o i criminali, presenti ora nella popolazione in confronto a mille anni fa? - aveva chiesto Simon. - Su base pro capite, intendo.
- Gli stessi.
- E come lo spiegate dopo una selezione così scrupolosa?
- Gli esseri umani sono dei bastian contrari. Ma tra altri mille anni avremo una società libera da criminali.
Simon aveva lasciato cadere l'argomento, e aveva chiesto come mai la società Dokaliana, così avanzata tecnologicamente in tanti campi, usasse ancora arco e frecce. Perché non era stata inventata la polvere da sparo?
- Le armi da fuoco sono state inventate cinquecento anni fa - aveva detto il colonnello. - Ma noi siamo gente molto conservatrice, come avrete notato, e abbiamo pensato che le pistole e i fucili avrebbero introdotto nella società innovazioni sconvolgenti, e poi sarebbero stati troppo pericolosi in mano alla plebaglia. Non occorre molto esercizio per maneggiare un'arma da fuoco, mentre per saper usare un arco o una spada ci vogliono anni di allenamento. Perciò le armi da fuoco sono state messe al bando, e solo l'élite e gli individui più equilibrati delle classi inferiori sono addestrati all'uso dell'arco e della spada.
Nonostante questa resistenza alle novità, la macchina a vapore era stata accettata, e aveva provocato un generale abbandono del cavallo. Erano stati quasi del tutto eliminati i tafani e le malattie che essi portavano, e le strade non erano più piene di sterco. Ma l'invenzione del motore a combustione interna era stata soppressa, e non c'erano esalazioni nocive né rumori di automobili e autocarri.
E così, la diminuzione della mortalità per malattie procurate dai tafani era stata ampiamente compensata dagli incidenti stradali.
Simon aveva messo in evidenza il fatto.
- Il progresso, come la religione, deve avere i suoi martiri - aveva detto il colonnello.
- Lo stesso si potrebbe dire del regresso - aveva detto Simon. - Come punite i pirati della strada? Devono essere talmente tanti che mi domando se la Terra Franca basti a contenerli tutti.
- I responsabili di incidenti stradali non sono delinquenti - aveva detto il colonnello. - Li multiamo, e se non sono ricchi, li imprigioniamo.
- Non credete che potreste ridurre notevolmente gli effetti degli incidenti stradali sottoponendo gli automobilisti a un rigoroso esame fisico e psicologico?
- Scherzate? - aveva detto il colonnello. - No, dite sul serio. Se lo facessimo, meno di un decimo della popolazione avrebbe il permesso di guidare. Buon Dio, ragazzo, sarebbe il crollo della nostra economia. Come hanno fatto i politici a far accettare alla vostra gente dei provvedimenti tanto drastici?
Simon aveva dovuto ammettere che leggi del genere erano state approvate solo dopo che le automobili erano praticamente cadute in disuso.
- Quando ormai non importava più a nessuno, eh?
- Infatti - aveva detto Simon, e aveva sperato che il colonnello la smettesse di ridere.
Era con questi pensieri, per quanto umilianti, che ora si faceva coraggio. La Foresta Yetgul diventava di chilometro in chilometro più fitta e buia, e il sentiero era così stretto che a ogni passo cespugli e rami gli laceravano i vestiti. Sembrava che perfino gli uccelli avessero trovato inospitale quella zona: mentre prima Simon era stato rallegrato da decine di richiami diversi, sibili, pigolii, canti, che continuavano per tutto il giorno e metà della notte, adesso era circondato dal silenzio. Un silenzio interrotto solo di tanto in tanto da uno strillo che faceva paura. Era sempre lo stesso, improvviso e acuto, e a Simon sembrava un grido di morte. Una volta intravide l'autore, un grande uccello di un nero polveroso, simile a un corvo con cresta da gallo.
Ma soprattutto lo deprimevano le ossa. Fin dall'inizio aveva visto scheletri e crani umani sparsi dappertutto: a volte ingombravano il sentiero, a volte un osso grigio o bianco spuntava da sotto cespugli o foglie. Simon aveva contato mille scheletri, e dovevano essercene tre volte tanti nascosti nel sottobosco ai lati del sentiero.
Tentò di consolarsi col pensiero che se tanti sfidavano la morte solo per parlare con un uomo, doveva valerne la pena.
Ma chissà perché il saggio viveva così segregato dal mondo?
Era facile immaginarlo. Un saggio ha bisogno di molto più tempo degli altri per concentrarsi e meditare, e se ha visitatori alla porta giorno e notte, non riesce più a pensare. Andando ad abitare nel luogo più inaccessibile del pianeta, Mofeislop si era assicurato la solitudine. E si era assicurato inoltre che chiunque fosse arrivato fino a lui non gli avrebbe rivolto domande banali.
Alla fine della terza settimana, Simon uscì dalla foresta. Davanti a lui c'erano pendii ripidi e bitorzoluti con chiazze d'erba e gruppi di pini sparsi qua e là. Sopra di essi volteggiavano falchi e avvoltoi, e Simon sperò che non fosse perché lì un essere umano era preda facile.
La terza montagna, la più lontana e di gran lunga la più alta e frastagliata, era la meta del suo viaggio. Pensando alle scalate che lo aspettavano, Simon si perse d'animo. Ma poi dalle nubi, che erano dense, grigio cupo, e lugubri come un avviso di sfratto, emerse il sole, e Simon si sentì meglio. Sulla vetta della terza montagna, qualcosa aveva riflesso i raggi del sole mandandoli dritti nei suoi occhi. Era stata senza dubbio una finestra della casa di Mofeislop, ed era come se il saggio stesso gli eliografasse di proseguire.
Una settimana dopo, con Anubis a fianco, Simon affrontò l'ultimo tratto di salita. Per la mancanza di cibo e di ossigeno, aveva il cuore che sbatteva come una fibbia di cintura in un essiccatore automatico. Atena, troppo stanca per volare, si faceva portare in spalla, e gli teneva gli artigli conficcati nella pelle con una presa dolorosa e implacabile come quella di un usuraio. Simon non aveva la forza di cacciarla via, e poi quegli artigli erano preziosi: gli ricordavano che era ancora vivo, e come sarebbe stato bene quando se ne sarebbe liberato.
Sopra di lui c'era la casa del saggio, che occupava la metà dell'altipiano in cima alla montagna, un'area di almeno ottomila metri quadri. Era fatta di granito nero, alta tre piani, con tredici lati, e tanti balconi e cupole. C'erano finestre solo al terzo piano, ma tantissime, piccole, grandi, quadrate, ottagonali, rotonde. Al centro del tetto piatto sorgeva un comignolo alto e grosso, nero, che mandava fumo nero. Simon ebbe la visione di un grande camino con un maiale che girava lentamente su uno spiedo e una pentola messa a bollire con una minestra densa e saporita. Accanto al fuoco il saggio lo aspettava, per nutrirlo prima di cibo e poi delle risposte alle sue domande.
A dire la verità, in quel momento a Simon non importava un bel niente delle risposte. Gli sembrava che se fosse riuscito a riempirsi la pancia, sarebbe stato contento per tutta l'eternità. O almeno per il resto della vita.
Si issò sull'altipiano, strisciò fino alla grande porta di quercia, con massicce traverse di ferro, si alzò lentamente in piedi, facendosi cadere la civetta di dosso, e si attaccò al cordone del campanello. Dentro, in una stanza cavernosa, un campanaccio suonò.
"Spero che non sia uscito" disse Simon tra sé, e ridacchiò. La fame e l'aria rarefatta lo stavano rincretinendo. Dove poteva essere andato il saggio? A prendere le sigarette alla tabaccheria all'angolo? Al cinema? A una colazione al Rotary Club locale?
La lunga attesa alla porta gli diede modo di chiedersi come avesse fatto il saggio a costruirsi quella casa. Chi aveva trasportato la pietra su per la montagna? E dove si procurava il cibo Mofeislop?
Tirò ancora una volta il cordone, e udì di nuovo il rimbombo del campanaccio. Pochi minuti dopo, una chiave girò nella serratura mostruosamente larga e rugginosa, e si sentì il tonfo sordo di una gigantesca spranga. La porta si aprì lentamente, cigolando come se dall'altra parte ci fosse il maggiordomo di Dracula. Simon cominciò a sentirsi inquieto, e per rassicurarsi si disse che aveva visto troppi film dell'orrore. Il massiccio battente cozzò contro la parete di pietra, e un uomo uscì strascicando i piedi. Non aveva per niente l'aspetto del servitore del Conte, ma non era bello da vedere. Somigliava all'assistente di Frankenstein, o forse a Charles Laughton in "Notre Dame". Colonna vertebrale curva come un raccordo anulare, piegato come se avesse appena ricevuto una pedata nello stomaco, capelli spumeggianti come una caraffa di birra, fronte inclinata all'indietro come la Torre di Pisa, spigoli sopraorbitali che sporgevano come se fossero stati pieni di gas, un occhio più basso dell'altro e reso lattiginoso da una cateratta, naso rosso e vizzo come una rosa morta, labbra sottili come quelle di un cane, denti da alce che avesse masticato tabacco tutta la vita, mento che aveva deciso nel grembo materno di rendere l'anima a Dio. E ansimava come un enfisematoso a un congresso politico.
Però aveva una personalità gradevole come quelle delle inserzioni matrimoniali.
Sorrise e disse: - Benvenuto! - raggiando benevolenza e giovialità.
- Il dottor Mofeislop, suppongo? - disse Simon.
- No, cuoricino mio - disse l'uomo. - Sono il segretario e domestico del buon dottore. Mi chiamo Odiomzwak.
I suoi dovevano averlo odiato davvero, pensò Simon, e provò simpatia per lui. Sapeva che cosa significa avere un padre e una madre che non ti sopportano.
- Entrate, entrate tutti e tre! - disse Odiomzwak.
Allungò una mano ad accarezzare Anubis, che lasciò penzolare la lingua e chiuse gli occhi beato. Simon decise che non c'era motivo di essere inquieto: i cani erano notoriamente buoni giudici del carattere delle persone.
Da un sostegno vicino alla porta Odiomzwak prese una torcia fiammeggiante, e li guidò per un corridoio lungo e stretto. Sbucarono in una stanza immensa con le pareti di granito nero e il pavimento di mattonelle a mosaico. In fondo spiccava il camino che Simon aveva immaginato: il maiale sullo spiedo non c'era, ma la pentola di minestra fumante sì. Vicino al camino, in piedi, c'era un uomo alto e sparuto, tutto fronte e naso, che si scaldava le mani e la coda. Portava pantofole di pelliccia, calzoni di pelle d'orso, e una lunga tunica svolazzante stampata a bussole, telescopi, microscopi, bisturi, provette, e punti interrogativi. Naturalmente i punti interrogativi Dokaliani non erano gli stessi che si usavano sulla Terra, ma segni rappresentanti una freccia che stava per essere scoccata da un arco.
- Benvenuti, benvenuti! - disse l'uomo alto, affrettandosi incontro a Simon con la mano tesa e le dita aperte. - Siete i benvenuti come il cibo all'uomo affamato.
- A proposito, io sto morendo di fame - disse Simon.
- Naturale - disse Mofeislop. - Ho seguito col telescopio la tua faticosa avanzata. In certi momenti ho creduto che non ce l'avresti fatta.
- E allora perché non mi hai mandato una squadra di soccorso? Pensò Simon. Ma non disse niente. Non ci si poteva aspettare che un filosofo si comportasse come un uomo comune.
Si sedette su una panca, a una tavola di pino lunga e stretta. Odiomzwak fu sollecito ad apparecchiare e a mettere due ciotole sul pavimento per gli animali. Il pasto fu semplice: filoni di pane appena sfornato, formaggio piccante che puzzava di capra, e la minestra, in cui galleggiavano erbe, fagioli, e grossi pezzi di carne. La carne sapeva un po' di maiale, con un impercettibile aroma di tabacco.
Simon mangiò finché non si sentì scoppiare. Odiomzwak portò una bottiglia di vodka di cipolle, un liquore per cui Simon non andava matto. Lo assaggiò per non essere scortese e poi, a richiesta del curioso saggio, cantò alcune canzoni accompagnandosi col banjo. Anubis e Atena si rifugiarono in fondo alla stanza, ma Mofeislop e Odiomzwak mostrarono di apprezzare moltissimo la sua musica.
L'ultima canzone mi è piaciuta in modo particolare - disse Mofeislop. - Sarei curioso di conoscere le parole. Potresti tradurmele?
Pensavo appunto di farlo - disse Simon. - Sono di un antico di nome Bruga, il mio poeta preferito. Siccome purtroppo, o per vostra fortuna, voi Dokaliani non avete la televisione, dovrò spiegarvi che cos'è, e anche che cosa sono gli show e la pubblicità. Inoltre dovrò darvi un'idea di chi sono gli ospiti intervistati e dell'antefatto.
"Il barone Victor Frankenstein, nobile svizzero, ebbe l'idea di fare un uomo con dei pezzi dissotterrati nel cimitero. Non si sa come fece a dar vita a questo suo mostro a patchwork. Comunque il mostro impazzì e ammazzò un mucchio di gente. Il barone si mise alla sua ricerca, e a un certo punto lo inseguì per la banchisa artica, anche se nella versione cinematografica l'episodio della slitta e dei cani non compariva.
"Lazzaro era un giovanotto che morì in un antichissimo paese chiamato Palestina, e fu risuscitato da un uomo chiamato Gesù Cristo. In seguito Gesù Cristo, essendo stato condannato e ucciso, risuscitò anche se stesso. Ma prima della condanna il suo giudice, Ponzio Pilato, gli chiese di dirgli la Verità, tutta la Verità. Pare che l'imputato non rispondesse, o perché tutta la verità non la conosceva neanche lui, o perché Pilato non lo stette a sentire. In seguito fu deificato, e una delle più importanti religioni della Terra prese il nome da lui. Pare comunque che sapesse se l'uomo è immortale o no. Almeno, nella canzone di Bruga si suppone che lo sapesse".
LA RIVELAZIONE
AL
"JOHNNY CAVEAR TELE-SHOW"
La scena è a posto, via con il suono.
Applausi del pubblico, e Johnny compare
Insieme agli ospiti della serata.
Sorrisi, battute, presentazioni,
E quando gli scherzi si sono quietati
L'attesa è fremente, perché finalmente
Stasera sapremo che accade Di Là.
Ma il mostro di Frankenstein ("Chiamatemi Fred”)
Non vuole parlare del mondo dei morti,
Ricorda soltanto che i cani erano stanchi,
La slitta era lenta e il suo cuore sgomento.
"Victor m'inseguiva invocando vendetta.
Sua moglie morendo gli aveva giurato
Che solo con me aveva goduto".
Lazzaro dice che giù nella tomba
Domande e risposte non hanno più senso.
Mai niente da fare, non passa mai il tempo.
Fredda e brutale compagna, la Morte
Ti resta attaccata di giorno e di notte.
Johnny interrompe: "Meglio evitare
Ogni allusione, in TV, sessuale".
Il pubblico è proprio deluso, stavolta.
Ma c'è ancora un ospite: "Signor Gesù,
Sapreste darcela Voi, la risposta?".
Lui s'alza e comincia: "Invero vi dico..."
Il pubblico tace, trattiene il respiro.
Ma il tempo è trascorso, e il video di già
Trasmette messaggi di pubblicità.
- Hai voluto dirmi qualcosa cantandomi questa canzone - disse il saggio. - Speri che il mio messaggio per te non sia disturbato da propaganda commerciale o altre futilità, non è vero?
- Esatto.
- Sei venuto nel posto giusto, dall'uomo giusto. Io solo in tutto Dokal, e forse in tutto l'universo, conosco la Verità. Quando la conoscerai anche tu, la tua ricerca sarà conclusa.
Simon posò il banjo e disse: - Sono tutto orecchie.
- Sei molto di più - disse il saggio. Poi lui e Odiomzwak si scambiarono un'occhiata e scoppiarono a ridere. Simon arrossì ma non disse niente. Era noto che i filosofi ridevano di cose che la gente comune non arrivava a capire.
- Non stasera - disse Mofeislop. - Sei troppo stanco e troppo magro per ricevere la Verità. Devi riposarti, rimetterti in forze e rimpolparti un po' prima di poter sentire quello che ho da dirti. Sii mio ospite per qualche giorno, frena l'impazienza, e io risponderò alla domanda a cui il tuo Gesù non è stato in grado di rispondere.
- Va bene - disse Simon, e andò a letto. Ma non andava bene affatto. Per quanto fosse stanchissimo, rimase sveglio a lungo. Il saggio gli aveva detto chiaro che avrebbe dovuto essere forte per ricevere la Verità, che evidentemente era un rospo duro da mandar giù. Cominciava ad avere paura: la Verità, qualunque fosse, non sarebbe stata confortante.
Alla fine, dicendosi che in ogni caso era stato lui a cercarsela, si addormentò. Ma il resto della notte fu popolato da incubi. Ancora una volta le immagini di suo padre e sua madre gli si avvicinarono, mentre dietro di loro migliaia di persone si accalcavano, implorando, minacciando, piangendo, ridendo, sghignazzando. Da ultimo sognò proprio Ponzio Pilato, che lo svegliava telefonandogli alle tre di mattina.
"Dai retta a me, ragazzo" gli diceva. "È pericoloso farsi certe domande".
AL
"JOHNNY CAVEAR TELE-SHOW"
La scena è a posto, via con il suono.
Applausi del pubblico, e Johnny compare
Insieme agli ospiti della serata.
Sorrisi, battute, presentazioni,
E quando gli scherzi si sono quietati
L'attesa è fremente, perché finalmente
Stasera sapremo che accade Di Là.
Ma il mostro di Frankenstein ("Chiamatemi Fred”)
Non vuole parlare del mondo dei morti,
Ricorda soltanto che i cani erano stanchi,
La slitta era lenta e il suo cuore sgomento.
"Victor m'inseguiva invocando vendetta.
Sua moglie morendo gli aveva giurato
Che solo con me aveva goduto".
Lazzaro dice che giù nella tomba
Domande e risposte non hanno più senso.
Mai niente da fare, non passa mai il tempo.
Fredda e brutale compagna, la Morte
Ti resta attaccata di giorno e di notte.
Johnny interrompe: "Meglio evitare
Ogni allusione, in TV, sessuale".
Il pubblico è proprio deluso, stavolta.
Ma c'è ancora un ospite: "Signor Gesù,
Sapreste darcela Voi, la risposta?".
Lui s'alza e comincia: "Invero vi dico..."
Il pubblico tace, trattiene il respiro.
Ma il tempo è trascorso, e il video di già
Trasmette messaggi di pubblicità.
Capitolo XV
Chi tira i fili?
Per tre giorni Simon si riposò e mangiò, e Mofeislop insistette perché ogni mattina si pesasse.
- Quando avrai acquistato abbastanza peso, acquisterai la Verità - gli disse.
- Intendi dire che c'è una correlazione, un nesso, tra la massa e la conoscenza? - chiese Simon.
- Certo - rispose Mofeislop. - Tutte le cose sono collegate in un modo sottile che solo al saggio è dato di vedere. Una stella esplodendo può dare inizio a una nuova religione, o influire sul mercato azionario, su un pianeta distante diecimila anni nel tempo e milioni di chilometri nello spazio. La particolare forza di gravità di un pianeta influisce sui principi morali dei suoi abitanti.
Gli stati emotivi facevano parte della configurazione di campo globale. Come la gravità della Terra, si estendeva all'infinito, pur indebolendosi man mano che ci si allontanava nello spazio, così l'ira, la paura, l'amore, l'odio, la gioia, e la tristezza s'irradiavano fino ai limiti estremi dell'universo.
Bruga aveva scritto un poema epico, "Edipo 1 - Sfinge 0", che riassumeva in tre versi l'infinita, enigmatica rete delle cause e degli effetti.
"Il mondo" disse la Sfinge "è un'intricata finzione.
C'è un filo o non c'è, per uscire dal labirinto?"
"Certo che c'è" rispose Edipo, "ma è finto".
Dicevano di più questi tre versi che tutti i dialoghi di Platone e tutti i trattati di Grubwitz. Platone, tra l'altro, voleva bandire i poeti dalla sua Utopia perché erano dei bugiardi. La verità era che Platone sapeva bene che i filosofi, di fronte ai poeti, hanno sempre fatto e faranno sempre una meschina figura.
Jonathan Swift Somers III aveva sviluppato questa idea in un romanzo, ma portandola molto più avanti di Mofeislop e di Bruga. Il romanzo era "Alto o basso fa lo stesso", e aveva come protagonista John Clayter, il famoso eroe fatto a canestro. Tutti gli eroi di Somers, tranne Ralph von Wau Wau, erano in qualche modo handicappati, certo per via del fatto che l'autore aveva perduto l'uso delle gambe.
Clayter viveva in una tuta spaziale con dispositivi protetici di ogni genere che lui azionava con la lingua. Quando la lingua gli serviva per parlare, usava un comando secondario che reagiva alla pressione del pene infilato in un apposito cilindro. Per regolare la pressione del pene, Clayter spingeva la testa contro un comando che liberava nel flusso sanguigno quantità variabili di ormoni afrodisiaci.
Clayter atterrava sempre su qualche pianeta in difficoltà e lo aiutava a risolvere i suoi problemi. In "Alto o basso fa lo stesso", atterra su Shagrinn, un mondo che ha un problema ignoto altrove. Di tanto in tanto il sole di Shagrinn divampa, e durante queste burrasche solari, i campi elettromagnetici del pianeta impazziscono, provocando particolarissime reazioni ormonali negli abitanti. Le donne diventano vogliosissime, mentre gli uomini non riescono ad avere erezioni.
Questo stato di cose genera un grave disagio, ma è temporaneo: le burrasche solari non sono mai durate più di un mese o due.
Ma quando Clayter atterra, la burrasca dura da cinque mesi e non accenna a placarsi. Inoltre, lui stesso non è in grado di applicarsi con la consueta obiettività a cercare una via d'uscita: è nei guai, e se non trova la soluzione al suo problema personale, rischia di morire. Il comando-lingua non funziona più, e per questo Clayter è atterrato sul primo pianeta: occorre che gli Shagrinniani gli riparino il guasto.
Ma questi non sono in grado di farlo, perché la loro tecnologia è al livello dell'Europa del Quattrocento. Anzi, non riescono neanche a estrarlo dalla tuta. Per fortuna, Clayter ha la visiera dell'elmo un po' sollevata, quanto basta perché gli diano da mangiare. Ma questo gli crea un nuovo problema.
Un astuto Shagrinniano ha notato che ogni volta che il fondello della tuta si apre, la tuta gira su se stessa a velocità vertiginosa per una decina di minuti. Lui non lo sa, ma la causa è un altro guasto ai comandi. Il fondello si apre per ragioni di evacuazione, ma i fili di comando sono impigliati in quelli che azionano i piccoli getti di stabilizzazione della tuta: quando la zona di scarico si apre, un getto entra in funzione per alcuni minuti, e Clayter gira su se stesso senza potersi fermare, tenuto ritto unicamente dal giroscopio della tuta.
Lo Shagrinniano possiede un mulino poco distante e impiega quattro buoi per far girare l'enorme macina. Vende i buoi con un bel guadagno, e fissa la tuta a una corda che a sua volta è fissata a un grande volano. Il movimento rotatorio della tuta fa girare il volano, che accumula energia per far andare la macina. Ma la tuta non ruota abbastanza per mantenere in funzione il mulino ventiquattro ore al giorno, e allora lo Shagrinniano ingozza Clayter di cibo, in modo che il fondello si apra più spesso, e così la tuta giri, e la macina lavori senza mai fermarsi.
Inoltre, per affrettare i tempi, lo Shagrinniano rimpinza Clayter di lassativi.
Clayter deve risolvere il problema, e subito: nonostante la diarrea, continua ad aumentare di peso, e nel giro di un mese rischia di morire schiacciato nella tuta. Intanto, soffre di violenti capogiri e non riesce a pensare.
La sua unica speranza è imparare la lingua in fretta e convincere la servetta che gli dà da mangiare ad aiutarlo. Tra bocconi e giravolte, impara quanto basta per chiedere aiuto alla ragazza, e anche per venire a sapere da lei del dramma degli Shagrinniani.
La istruisce a calare un filo nel davanti della tuta e farlo penetrare nel cilindro di comando secondario. Lei ci prova e tenta di inserire l'estremità del filo, che è annodata a cappio, nel cilindro. Clayter spera che riesca ad agganciargli il membro e poi, col filo, a esercitare pressione dentro il tubo. Con la pressione giusta, lui potrebbe volare fino all'astronave, che ha lasciato appena fuori dell'atmosfera. Naturalmente dovrebbe trattenere il fiato per alcuni minuti nel passaggio dall'aria allo spazio all'astronave. È un rischio enorme.
Purtroppo, ma forse per fortuna, dato il rischio, la ragazza non ce la fa. E il filo fa a Clayter tanto male che deve chiederle di smettere.
Il giorno dopo, mentre è ancora addormentato, ha un'erezione mattutina automatica, l'unico tipo di erezione che può avere un maschio umano su Shagrinn durante le vampe solari. Ma la sua gioia è di breve durata. L'espansione incontrollata dentro il tubo mette in funzione i getti stabilizzatori, e Clayter parte in posizione inclinata e atterra a testa in giù in un'aia a trenta chilometri di distanza. Il volano che si è tirato dietro lo manca per un pelo. L'elmo della tuta si conficca nel terreno, impedendogli di cadere, e ora Clayter ha un nuovo problema: se non riesce a mettersi dritto, l'afflusso di sangue alla testa lo ucciderà.
Ma non gira più su se stesso, perché il difettoso collegamento della zona di scarico con i getti stabilizzatori si è spezzato. Inoltre l'urto dell'atterraggio ha fatto aprire il davanti della tuta e provocato la fuoriuscita del pene dal cilindro di comando.
Pochi minuti dopo, arriva la figlia del fattore, che, libidinosa e pronta a tutto come le altre donne del pianeta, approfitta del dono del cielo. Poi però rimette Clayter all'impiedi, aiutandosi con un paranco e due muli. Clayter tenta di insegnarle a sollecitare il comando secondario, in modo che la tuta torni all'astronave. Una volta là dentro, lui potrebbe chiedere al calcolatore dell'astronave di portarlo in un sistema dove non ci siano burrasche solari così strane.
La figlia del fattore ignora le istruzioni, e tutte le mattine, poco prima dell'alba, esce di casa di nascosto e aspetta che le birre che gli fa trangugiare producano il loro effetto. Una mattina, la moglie del fattore si sveglia presto e sorprende la figlia, che da allora in poi deve fare a turno con la madre.
Un giorno, il fattore si sveglia presto e vede la moglie con Clayter. Furibondo, si mette a picchiare sull'elmo con una mazza. Clayter è tutto rintronato, e sa che presto il fattore gli caccerà un forcone nell'elmo o, peggio, nella zona bassa aperta. Disperatamente, pur sapendo che è inutile, sbatte la lingua contro il comando superiore. Con sua sorpresa, e sorpresa del fattore, la tuta parte.
Clayter conclude che o l'urto dell'atterraggio o le mazzate del fattore hanno rimesso in funzione i circuiti. Si fa saldare da un fabbro la zona bassa e vola fino all'astronave. Pochi mesi dopo trova un pianeta dove sanno aggiustargli la tuta. È così amareggiato dalle avventure su Shagrinn che quasi quasi decide di infischiarsene dei guai degli Shagrinniani. Ma ha un cuore troppo generoso, e poi vuole svergognarli per il modo meschino in cui lo hanno trattato.
Torna su Shagrinn e convoca tutti i capi. - Le cose stanno così - dice. - La causa dei vostri guai è un modo di pensare sbagliato.
- Che cosa intendi dire? - chiedono i capi.
- Ho studiato la storia di Shagrinn, e ho scoperto che duemila anni fa il fondatore della vostra religione ha fatto una profezia. Ha detto che sarebbe venuto il giorno in cui avreste scontato tutti i vostri peccati. Giusto?
- Giusto.
- È stato preciso, o almeno più preciso di quanto non siano di solito i profeti. Ha detto che un giorno il sole avrebbe cominciato a fare vampe gigantesche, e allora i desideri sessuali delle donne si sarebbero quadruplicati, mentre gli uomini sarebbero diventati impotenti. Giusto?
- Giusto. E la profezia si è avverata. Non è successo proprio questo?
- Ora ditemi: la prima grande vampa non era stata preceduta da tante vampe più piccole?
- Infatti!
- Ma quando è stato che il sole ha avuto la prima grande burrasca?
- Trecento anni fa. Prima di allora avevamo soltanto la parola del profeta sulle burrasche del sole. Ma quando sono stati inventati i telescopi, trecento anni fa, abbiamo visto la prima grande vampa.
- Ed è stato allora che i vostri guai sono cominciati?
- Sì, proprio allora!
- L'impotenza degli uomini e il desiderio sfrenato delle donne si sono prodotti quando la vampa ha raggiunto il culmine, o quando era ancora piccola ma minacciava di ingigantire?
- Quando era ancora piccola ma minacciava di ingigantire.
- Ecco il punto - dice Clayter. - Il procedimento è inverso.
I capi sono stupefatti. - Che cosa intendi dire?
- Immaginate che due persone tengano un filo, una a ciascuna estremità - dice Clayter. - Quando una delle due tira, il filo va dalla sua parte, quando è l'altra a tirare, il filo va dalla parte di questa. Voi e le burrasche solari siete collegati da un filo. Ma vi sbagliate su chi lo tira.
- Che significa questo discorso?
- Non è stato il sole a far ingigantire la vampa - dice John Clayter.
- E allora cos'è stato?
- I vostri antenati hanno notato un lieve aumento nella burrasca, e naturalmente la reazione prevista si è prodotta.
- Spiegati meglio - dicono i capi sbalorditi.
- Ecco, quella vampa probabilmente sarebbe stata solo un po' più grande del normale. Ma voi avete pensato che fosse la vampa gigantesca della profezia.
- E allora?
- Ve l'ho detto - dice Clayter. - I vostri antenati hanno preso la cosa all'inverso, e le generazioni successive hanno perpetuato l'errore. Capite, non sono state le vampe giganti a provocare l'impotenza degli uomini e la libidine smodata delle donne. È successo esattamente il contrario.
C'è un filo o non c'è, per uscire dal labirinto?"
"Certo che c'è" rispose Edipo, "ma è finto".